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Se aboliscono la legge Mancino: riflessioni su razzismo e diritto

«Se aboliscono la legge Mancino “a noi” cosa cambia»? Riflessioni su razzismo e diritto

di Ilenia Rossini

Qualche giorno fa, ai primi di agosto, il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, noto per le sue posizioni reazionarie, omofobe e integraliste cattoliche, ha affermato in un’intervista di voler abolire la legge Mancino, nome con cui è noto il decreto legge 122/1993 (convertito nella legge n. 205 del 1993), che sanziona le discriminazioni razziali, etniche e religiose. Tale provvedimento, secondo lui, sarebbe necessario per arginare un presunto «razzismo anti-italiano»: «Il razzismo – afferma – è diventato l’arma ideologica dei globalisti e dei loro schiavi (alcuni giornalisti e commentatori mainstream, certi partiti) per puntare il dito contro il popolo italiano».

Per abrogare la legge Mancino – per quanto si tratti di una vecchia battaglia della Lega, che nel 2014 ha proposto un referendum per la sua cancellazione – il ministro avrebbe bisogno della maggioranza in parlamento ed è molto in dubbio che il M5S sia disponibile a votare a favore. Quindi si tratta, ovviamente, di dichiarazioni di puro principio, tuttavia miranti a normalizzare il razzismo: mentre si parla di una escalation delle aggressioni razziste e se ne attribuisce la responsabilità al nuovo governo, uno dei suoi ministri afferma che è giunto il momento di abolire il reato di discriminazione razziale. Una retorica che, sul piano dell’opinione pubblica, non può che avere effetti performativi: se nel 1993, con la legge Mancino, si affermava che «il razzismo è male» ora, al contrario, un ministro afferma che sia l’antirazzismo a essere “male” e che anch’esso costituirebbe una forma di razzismo. La legge Mancino, inoltre, considera un’aggravante il commettere reati per motivazioni di odio razziale: la sua abolizione significherebbe equiparare un pestaggio razzista, per dire, a un pugno dato a un’automobilista che ti ha tagliato la strada. Che non è esattamente la stessa cosa.

La retorica basata sul presunto razzismo degli antirazzisti – che fa il paio con quella, ugualmente reazionaria, che mette sotto accusa il presunto sessismo delle femministe (le cosiddette «nazifemministe») o il presunto fascismo degli antifascisti – è, del resto, diffusa tra le destre europee. Come ha scritto l’antropologa Annamaria Rivera qualche anno fa (quando la Lega faceva ancora della Padania il suo riferimento ideale), illustrando perfettamente questo meccanismo retorico,

perfino i discorsi lepenisti e quelli leghisti operano un rovesciamento paradossale denunciando il razzismo di coloro che attenterebbero alla cultura europea, e a quella nazionale o «padana», imponendo la presenza di immigrati e non-autoctoni. Poiché gli stranieri – si sostiene – cercano in ogni modo di affermare e imporre i propri modelli culturali, la «preferenza nazionale» o quella «etnica» (nella versione leghista) non sono altro che strumenti di difesa e di autodeterminazione del popolo francese o della «etnia padana». (A. Rivera, Neorazzismo, in R. Gallisot, M. Kilani, A. Rivera, L’imbroglio etnico in quattordici parole-chiave, 2012, pp. 305-6)

Quello che stupisce, tuttavia, è che anche in molti settori dei movimenti sociali e della sinistra radicale le dichiarazioni di Fontana siano state accolte con un’alzata di spalle, facendo proprie vecchie critiche provenienti ad esempio dal collettivo Wu Ming. In un’ottica fondata sul privilegio dei bianchi e sul loro etnocentrismo, la legge Mancino è stata ridotta al suo contenuto antifascista (essa contiene, infatti, anche la sanzione dell’apologia di fascismo in linea con la nota legge Scelba del 1952), cancellando totalmente dal discorso le dichiarazioni dello stesso Fontana, che di fascismo non ha mai parlato ma si è concentrato invece sugli articoli della legge riguardanti la sanzione delle discriminazioni razziali. Insomma, siamo davanti a dei bianchi antifascisti che riflettono solo sul contenuto della legge che li riguarda da vicino.

«Cosa cambia “a noi” se aboliscono la legge Mancino?», ci si è chiesti. «A noi» – se con “noi” intendiamo gli uomini (un po’ meno le donne, che tradizionalmente sono state “razzializzate” dal sessismo tradizionale, mentre contemporaneamente le “razze” giudicate inferiori venivano “femminilizzate”) bianchi eterosessuali antifascisti dotati di pieni diritti di cittadinanza – probabilmente cambierebbe poco. Cambierebbe probabilmente qualcosa di più se venisse a mancare qualcuna di queste caratteristiche: se si fosse neri, senza permesso di soggiorno, mussulmani, ecc. Insomma, se si facesse parte di una di quelle categorie oggetto di discriminazione tutelate dalla legge Mancino.

Non voglio affermare e non penso che il razzismo possa essere sconfitto per legge: per quanto si tratti di una legge che, contrariamente a quanto si afferma comunemente per sminuirne la portata, anche quasi per nulla utilizzata contro le organizzazioni razziste e neofasciste, lo è stata spesso contro singoli individui autori di reati che prevedevano l’aggravante di discriminazione razziale. Ritengo, anzi, il razzismo uno degli elementi costitutivi della modernità europea. Ma certamente la cancellazione di una forma di tutela che possa far sentire meno insicuri centinaia di migliaia di uomini e donne non bianchi e/o non italiani non può essere accolta facendo spallucce o facile ironia.

Negli stessi giorni delle dichiarazioni di Fontana, l’associazione Baobab experience, che assiste a Roma migranti (principalmente in transito) provenienti da diversi paesi, e l’avvocato Francesco Romeo hanno denunciato Matteo Salvini per il reato di «propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa», in base all’articolo 604-bis del codice penale.

Ma qual è il punto della legislazione contro la discriminazione e il razzismo in Italia? Qual è il rapporto tra questo articolo e la legge Mancino? Seguirà ora una breve rassegna giuridica: il sunto è che la legge Mancino è da qualche mese inserita nel Codice penale. Se si considera la rassegna troppo noiosa si può passare direttamente al paragrafo successivo.

La legislazione contro la discriminazione etnica e razziale in Italia

La legge Mancino fu pensata e approvata nei primi anni Novanta «allo scopo di apprestare più efficaci strumenti di prevenzione e repressione dei fenomeni di intolleranza e di violenza di matrice xenofoba o antisemita»: tra il 1992 e il 1993, in Italia come in tutta Europa, le violenze di gruppi fascisti e nazisti erano un fenomeno quotidiano e, soprattutto qui, suscitavano incredibilmente timore in particolare quando avvenivano all’interno degli stadi. Insomma, davanti a un’«emergenza razzismo» nel 1993 si reagiva affermando che il razzismo andava sanzionato; oggi – davanti alla percezione di un’emergenza simile – il governo afferma invece che sia l’antirazzismo a essere male.

La legge Mancino non è, tuttavia, la prima legge in materia di razzismo e discriminazione in Italia: lo stesso art. 3 della Costituzione, del resto, garantisce il diritto all’uguaglianza. Già nel 1975, con la legge n. 654, era stata infatti recepita nell’ordinamento italiano la Convenzione di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 1966: essa puniva, all’art. 3, con una reclusione da 1 a 4 anni chi diffondeva «in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale» e «chi incita in qualsiasi modo alla discriminazione, o incita a commettere o commette atti di violenza o di provocazione alla violenza, nei confronti di persone perché appartenenti a un gruppo nazionale, etnico o razziale». Vietava, inoltre, «ogni organizzazione o associazione avente tra i suoi scopi di incitare all’odio o alla discriminazione razziale». Fu proprio l’art. 3 a subire le principali modifiche nel corso nel tempo: con la legge 101 del 1989, fu esteso anche alle «manifestazioni di intolleranza e di pregiudizio religioso» e nel 1993, proprio con l’art. 1 della legge Mancino, fu riformulato: «È punito con la reclusione da uno a quattro anni: a) chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico; b) chi, in qualsiasi modo, incita alla discriminazione o all’odio, o incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza, per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».

La legge Mancino, inoltre, introdusse con il suo art. 3 l’aggravante: in caso di reati commessi «per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso» la pena prevista era aumentata fino alla metà. Nel 2013, ad esempio, la Corte di cassazione ha potuto affermare che tale aggravante è configurabile per il solo fatto dell’impiego di modalità di commissione del reato consapevolmente fondate sul disprezzo razziale, restando irrilevanti le ragioni, anche di altra natura, alla base del reato. Le sentenze delle Corte costituzionale in materia di discriminazione razziale e di aggravanti sono molto numerose, ma non restituiscono ancora un quadro giurisprudenziale definitivo.

Con la legge 85 del 2006, su proposta della Lega, la legge Mancino – e quindi l’art. 3 della legge 1975 n. 654, è stato ulteriormente modificato nell’ambito della Riforma dei reati d’opinione: la reclusione prevista per la propaganda di idee razziste è stata quindi ridotta e posta come pena alternativa alla multa.

Nel 2016 e nel 2017 l’articolo 3 della legge 654 del 1975 è stato esteso anche a chi neghi o minimizzi la Shoah o «crimini di genocidio». Infine, con il decreto legislativo n. 21 del 1° marzo 2018, l’articolo 3 della legge n. 654 è stato abolito ed è stato inserito direttamente nel nuovo articolo 604-bis del Codice penale, facente parte della nuova sezione Diritti contro l’uguaglianza, che punisce, per la parte che qui ci interessa:

a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

Si tratta dello stesso articolo in base al quale, come abbiamo visto, negli stessi giorni della dichiarazione di Fontana il capo del suo partito, nonché ministro dell’Interno, Salvini è stato denunciato dall’associazione Baobab.

L’art. 3 della legge Mancino sull’aggravante è stato invece, sempre con il decreto legislativo n. 21 del 2018, abrogato e inserito nel nuovo art. 304-ter del Codice penale. Sono questi articoli del Codice penale che vorrebbe, dunque, abolire il ministro Fontana nel contesto attuale di «ritorno» del razzismo in Italia.

Il «ritorno» del razzismo in Europa

Già dieci anni fa, lo storico della filosofia Alberto Burgio si interrogava in un bel libro edito da DeriveApprodi sul presunto “ritorno” del razzismo in Europa:

Il dato di fatto da cui questo libro muove è che in Europa il razzismo è tornato a occupare la scena ufficiale, dando corpo all’incubo di Primo Levi, sino a qualche anno fa apparso ai più immotivato. […] Quanto è avvenuto negli ultimi vent’anni dimostra che Levi aveva ragione e i suoi critici torto. Dalla fine degli anni Ottanta gli episodi di violenza razzista si sono susseguiti a ritmo incalzante, sino a diventare cronaca quotidiana in tutti i Paesi europei. Si è trattato in parte di fenomeni inediti: immigrati arsi vivi nel sonno da branchi di teppisti, rivolte di quartiere contro gli immigrati accusati di gestire la prostituzione e il traffico di droga, lavoratori immigrati massacrati per aver osato esigere il compenso pattuito per il proprio lavoro. […] L’immigrazione […] trasforma in pochi anni la composizione sociale di Paesi che hanno alle spalle esperienze di emigrazione di massa ma sono impreparati alle sfide dell’accoglienza e dell’integrazione. […] È un’occasione d’oro per gli «imprenditori politici» del razzismo, per la miriade di partiti neofascisti e di movimenti xenofobi che si ergono a custodi di identità minacciate da orde di invasori. […] È del tutto ragionevole sostenere che questo cortocircuito provochi il big bang del razzismo e, da ultimo, le prime avvisaglie di un nuovo razzismo di massa, incoraggiato dalle leggi e dai politici che esortano a essere «cattivi coi clandestini», invocano rastrellamenti «casa per casa» e istituiscono l’equazione tra immigrati e criminali. (A. Burgio, Nonostante Auschwitz, 2010, pp. 7-9)

Sono passati quasi dieci anni dalle parole di Burgio – che citava tra l’altro, nelle ultime righe riportate, proprio dei discorsi del febbraio 2010 di Matteo Salvini, allora “semplice” eurodeputato e consigliere comunale a Milano della Lega – e le avvisaglie di un «razzismo di massa» sembrano diventate realtà. Tuttavia, Burgio ci mette giustamente in guardia: non si tratta di un «ritorno», ma della

ripresa di un vecchio discorso, il risveglio di una “bestia” assopitasi per breve tempo. […] Occorre adottare un’ottica di lungo periodo e puntare l’attenzione su un tema classico – il rapporto tra razzismo e modernità – prendendo sul serio l’ipotesi che il razzismo non sia soltanto l’effetto perverso della globalizzazione (e ancor meno un residuo arcaico destinato a estinguersi), bensì un ingrediente fondamentale della modernità europea […]. In questa prospettiva il rapporto tra norma ed eccezione evidentemente si ribalta. Norma è il razzismo che, dopo una lunga incubazione, dilaga negli anni Trenta del Novecento e trionfa nel corso del secondo conflitto mondiale; eccezione, il primo trentennio successivo alla guerra. […] Il razzismo si è risvegliato non, come si pretende, a causa dell’immigrazione, sulla quale le forze politiche speculano cavalcando frustrazioni e paure. Si è risvegliato perché appartiene al codice genetico della modernità europea e perché non vi è più nulla a contrastarlo nel deserto morale e culturale della nostra società soddisfatta e disperata. (pp. 10, 38)

Dello stesso parere è anche Rivera, che, negando giustamente che il razzismo sia una «propensione insita nella natura umana», ha affermato:

Il razzismo non è un fenomeno marginale, patologico o congiunturale. È invece, insieme all’universalismo e all’egualitarismo, uno dei tratti costituitivi della cultura europea, destinato a riemergere periodicamente, soprattutto in momenti di transizione, di crisi o di ristrutturazione com’è quello attuale. È per ciò che, pur parlando di «neorazzismo» per designare le forme specifiche in cui oggi si manifestano l’ideologia, il discorso e le pratiche razziste, non vogliamo affatto negare che esso erediti cliché e pregiudizi, temi e argomentazioni, rappresentazioni e tendenze sorte in precedenti situazioni storiche e in particolare forgiate entro l’esperienza coloniale, un laboratorio fondamentale per il formarsi e il consolidarsi dell’ideologia razzista. (Rivera, Neorazzismo, cit., pp. 279)

E probabilmente non è un caso, alla luce di questa genealogia storica, se nelle ultime settimane, accanto alla tradizionale rimozione del passato razzista italiano, si stia anche assistendo a tentativi di recupero del passato coloniale italiano, dipinto come foriero di “civilizzazione” per le – evidentemente incivili – popolazioni africane: consiglio a tal proposito la lettura delle precise risposte degli storici Alessandro Pes e Valeria Deplano all’articolo uscito il 31 luglio sul quotidiano «La Verità». Un passato coloniale che, come illustrato recentemente da Gabriele Proglio, non è stato mai rimosso e che viene recuperato, anzi, dal «modello Salvini».

Questa prospettiva di lungo periodo consente, però, di rifiutare ogni spiegazione monocausale del razzismo, tanto quelle secondo cui discenderebbe dall’ignoranza, quanto quelle che le considerano una semplice manifestazione di dinamiche riguardanti i rapporti di classe:

Secondo questa chiave interpretativa, il razzismo odierno contro gli immigrati non sarebbe altro che strumento di sfruttamento della forza-lavoro in funzione del suo massimo sfruttamento; ostilità e discriminazioni «razziali» sarebbero immediatamente e direttamente funzionali alla segmentazione del mercato del lavoro […]. Questa spiegazione è fondata ma parziale […] perché non tiene conto del ruolo degli attori sociali i quali, ben lungi dall’essere passivi ricettacoli di un’ideologia dominante funzionale al supersfruttamento, dicono, fanno, agiscono il pregiudizio, la xenofobia e il razzismo; né coglie la dialettica fra le relazioni sociali e le rappresentazioni, la relativa autonomia del simbolico e il suo valore performativo, ignorando così l’importanza delle matrici culturali, ideologiche, psicologiche che sono alla base del razzismo. […] Insomma, è innegabile che il razzismo ha solide radice economiche ed è esso stesso produttore di ineguaglianze economiche e sociali, le quali a loro volta contribuiscono ad alimentarlo. Ma è altrettanto vero che esso non è spiegabile in termini economicisti se non altro perché […] si inserisce in una duplice frattura, quella determinata dai rapporti economico-sociali e quella data dalle gerarchie di status e identità, le quali a loro volta sono prodotte e sostenute da specifiche radici culturali. (Rivera, Neorazzismo, cit., pp. 284-285)

Ma, anche senza partire da così lontano (perché qui lo spazio non lo permette e perché il fenomeno delle origini del razzismo nell’Europa dell’Ottocento – da Mosse in poi – è stato già analizzato con completezza), senza ripercorre la cultura europea dall’Ottocento a oggi e l’imperialismo occidentale in Asia e in Africa, è chiaro che gli allarmi lanciati dalle ultime settimane dai mezzi di informazione riconducibili all’opposizione siano quindi parziali e strumentali: se vogliamo, homepage come quella di repubblica.it che riportiamo costituiscono anch’esse una forma di razzismo, o quanto meno una appropriazione da parte dei bianchi dei corpi violati e aggrediti dei neri per costruire una narrazione utile ai propri fini politici immediati.

razzismo - repubblica.it mediaPer questo motivo, articoli come quelli che elencano le aggressioni razziste avvenute dall’insediamento del governo Lega-M5S mi appaiono fuorvianti: sicuramente da allora è iniziata una maggiore attenzione mediatica sul fenomeno (soprattutto da parte dell’opposizione, cioè del Pd, che finora non si è certo distinto per posizioni antirazziste e, anzi, ha fatto sue alcune delle retoriche antimmigrazione tradizionalmente perorate dall’estrema destra oltre a farsi alfiere, col ministro Minniti, della politica dei respingimenti), probabilmente il «razzismo di massa» si sente più legittimato a manifestarsi nella vita quotidiana, ma legare il suo insorgere all’attuale governo manifesta miopia storica e politica. Del resto, ai tempi dei cosiddetti «banglatour» (cioè i pestaggi, a Roma, di cittadini provenienti dal subcontinente indiano: si parla di almeno una cinquantina di aggressioni in un anno, tra il 2012 e il 2013, ma probabilmente sono state molte di più) non c’erano Salvini – vero e proprio emblema di quelli che Luigi Manconi ha definito già nel 1990 «imprenditori politici del razzismo» (L. Balbo, L. Manconi, I razzismi possibili, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 83 ss.) – e Di Maio al governo; e non erano al governo neanche a inizio febbraio di quest’anno, quando a Macerata Luca Traini, ex candidato della Lega, ha sparato contro alcuni immigrati, ferendone almeno sei, solo perché neri. Come non sono al governo, per dire, in Germania, dove nel 2017 si sono contate almeno 950 aggressioni islamofobe (quasi tre al giorno), a cui si aggiungono i numerosi assalti (e incendi) ai centri per richiedenti asilo; tra gli altri, anche i pestaggi di pochi giorni fa a Chemnitz (Bassa Sassonia), dove per ore migliaia di neonazisti (ma anche di cittadini di “centro”) hanno dato la caccia a rifugiati e cittadini stranieri. Come non sono al governo in Francia, dove nel 2017 sono state respinte l’85% delle richieste d’asilo e dove il governo Macron è riuscito a far approvare una legge anti-immigrazione che ha introdotto il reato di ingresso clandestino nel paese. Per non parlare poi di paesi come l’Ungheria e la Polonia e, in generale, di tutto il gruppo Visegrad. Insomma, stupisce piuttosto che del «ritorno del razzismo» – in Italia e in Europa – ce se ne accorga solo ora.

Ciò non significa, ovviamente, sottovalutare o sminuire le aggressioni contro cittadini immigrati delle ultime settimane: una sola sarebbe, comunque, una di troppo. Ma il governo Salvini-Di Maio – con le sue esternazioni razziste e inumane, con la “chiusura dei porti” ai migranti, vera e propria «omissione di soccorso di massa» – non è causa di un «allarme razzismo», ma è la conseguenza del suo dilagare, in tutti i paesi, in questa fase del capitalismo, che la si voglia o meno definire «neoliberismo». Di certo, l’attuale esecutivo italiano legittima e rafforza con le sue posizioni questa fase, ma il risultato elettorale della Lega è indice del fatto che il problema del «razzismo di massa» non è iniziato due mesi fa. Semmai, negli ultimi mesi, è la normalizzazione del razzismo e non il razzismo in sé che sta compiendo passi da gigante. Ciò non vuol dire, ovviamente, che tutto sia uguale e non cambi mai nulla: ma il discorso razzista di Salvini non è iniziato col suo insediamento al governo.

Come intelligentemente riassunto dal giurista Luigi Ferrajoli in una recente intervista a Carolina Antonucci,

il ministro Salvini non ha affatto inaugurato, ma solo proseguito e sviluppato le politiche e le pratiche del suo predecessore Minniti e quelle degli altri governi europei. C’è però una rilevante differenza tra le politiche odierne dei Salvini, dei Trump, degli Orbán e dei governati del gruppo di Visegrad e le politiche del passato: la pratica genocida, che in passato veniva quanto meno negata e occultata, viene sbandierata dagli odierni populismi perché si è rivelata una fonte di facile consenso, soprattutto tra i ceti più poveri ed emarginati. […] Salvini non si limita a interpretare la xenofobia, ma la alimenta e la amplifica […]. Quando l’indifferenza per le sofferenze e per i morti, la disumanità e l’immoralità di formule come “prima gli italiani” o “la pacchia è finita” a sostegno dell’omissione di soccorso sono praticate ed esibite dalle istituzioni, esse non soltanto sono legittimate, ma sono anche assecondate e alimentate. Diventano contagiose e si normalizzano.

Tale normalizzazione del senso comune razzista – che l’abolizione della legge che sanziona il razzismo aumenterebbe – non può che avere conseguenze negative anche sul diritto: è in questo contesto che trovano spazio proposte come quelle del ministro Fontana.

Il diritto e il conflitto sociale

Lo ammetto, sono marxista. La mia interpretazione dei fatti sociali si basa sul materialismo storico e sulle sue interpretazioni: così anche quella del diritto. Il diritto, nella mia prospettiva, si istituisce a partire dal conflitto tra le classi e ne sanziona gli esiti. Non è detto, però, che esso sia meccanicamente il «diritto della classe dominante»: il diritto, è anzi, terreno di conflitto. Come chiaramente esposto nel Dizionario dei termini marxisti curato da Ernesto Mascitelli nel 1977 alla voce Diritto, infatti, anche nella prospettiva marxista «esiste quindi la possibilità di una funzione rivoluzionaria del diritto, nella misura in cui la “legge può essere anche creativa”». Come è particolarmente evidente nel caso italiano esistono

tutta una serie di regolamentazioni esistenti a tutela della libertà e dei diritti fondamentali, frutto non di una generica tendenza a normare dello Stato capitalistico maturo, bensì di dure lotte delle classi subalterne o dei settori più avanzati della cultura democratica. […] Non esiste, nelle società capitalistiche mature, una tendenza fondamentale a legiferare di segno omogeneo […]. È invece corretto parlare di una contraddizione fondamentale – riconducibile in ultima analisi al conflitto di classe – fra tendenze opposte, prevalenti nelle diverse fasi a seconda del peso e della capacità d’iniziativa delle forze sociali in campo. (G. Palombarini, Ancora sul rapporto giustizia-politica, in La forza e il diritto. Sul conflitto tra politica e giustizia, a cura di A. Burgio, 2003, p. 35).

In questa ottica, è evidente che l’abolizione di una norma che sanziona la discriminazione razziale – ammesso che ciò sia consentito dai trattati internazionali – cristallizzerebbe la sconfitta, in quel momento già avvenuta, dei movimenti antirazzisti e del conflitto sociale e politico che, evidentemente, non sarebbero stati in grado di guidare. Una legislazione che elimina dal proprio corpus le norme antirazziste è, infatti, una legislazione che legittima il razzismo, fornendogli nuove basi per il suo sviluppo futuro.

Il fatto che una legge come la legge Mancino non comporti alcun passo in avanti nella lotta contro il razzismo – perché, ed è vero, il razzismo non si combatte per legge – può significare che dobbiamo fare spallucce davanti ai diversi passi indietro che invece comporterebbe la sua abolizione? Ferma restando la mia posizione assolutamente abolizionista sul carcere, il fatto che non si possa pensare che una legge possa avere effetti deterrenti contro omicidi, stupri e violenze di genere, significherebbe accettare con fatalismo la proposta di abolizione delle leggi che vietano questi reati? Il fatto che la cultura dello stupro può essere abbattuta – appunto – solo con una battaglia culturale e politica, significa forse che avremmo dovuto lasciare lo stupro solo un reato contro la morale (come era fino al 1996) e non anche contro la persona? Il fatto che il sessismo e la violenza di genere non si possano modificare per legge, rende forse sbagliato riconoscere a livello legislativo la peculiarità dei diritti commessi contro le donne in quanto donne (spesso accusate di “tradire” il loro ruolo di genere)? La risposta a queste domande è, probabilmente, negativa: non si capisce (se escludiamo i retaggi postcoloniali) perché su una legge antidiscriminazione la risposta dovrebbe essere invece meno netta.

L’abolizione della legge Mancino significherebbe che è stato già fatto un passo indietro nei rapporti di forza che tutelano gli ultimi: il razzismo non peggiorerà a partire da quel momento, ma quel momento significherà che la situazione è già peggiorata. Se il diritto è campo di conflitto lo è anche in senso reazionario, non solo progressista: la sanzione della “non specificità della discriminazione razziale” significherebbe che la lotta contro il diritto vigente è stata vinta dalle forze razziste e reazionarie; sarebbe la sanzione di un arretramento del senso comune antirazzista. Per questo, bisognerebbe cominciare a riflettere – e a muoversi – prima che ciò avvenga: rendendo difficile o impossibile che ciò avvenga.

Faccio quindi mio l’invito di Burgio, secondo cui «sostenere che il razzismo che riemerge dalle viscere della modernità europea – affermarne la perversa normalità – non implica però rassegnarsi alla sua presenza nefasta e operosa. Ragionare sul tempo lungo significa, al contrario, assumere una prospettiva realistica, non episodica né contingente e cogliere il pericolo in tutta la sua portata. Per attrezzarsi a combattere, all’altezza della sfida, una cruciale battaglia di civiltà» (Burgio, Nonostante Auschwitz, cit., p. 11). Una battaglia di civiltà a cui l’abolizione della – per quanto poco incisiva, come dimostrato del resto dallo stesso perpetuarsi della diffusione del razzismo e delle violenze razziste in seguito alla sua approvazione – legge Mancino di certo non gioverebbe.

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