A marzo scorso, nel quarantennale del sequestro Moro e in piena esplosione mediatica attorno alle dichiarazioni dell’ex Br Barbara Balzerani, abbiamo dato spazio ad alcune «note polemiche» in cui Ilenia Rossini faceva il punto sul paradigma vittimario, motivo per cui oggi è assai difficile criticare le vittime, come conferma il botta-risposta, per noi insolito, che ne è seguito. Passate le polemiche, continuiamo a riflettere su quei nodi con un articolo che si pone in dialogo con quello di marzo e lo fa approfondendo alcune questioni di grande interesse.
Ancora sulle rimozioni della “stagione dei movimenti”
di Tommaso Rebora
La grande visibilità mediatica che ha riguardato il quarantesimo anniversario del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse è un segnale innegabile della mancata ricomposizione della memoria pubblica relativa ai movimenti e ai conflitti sociali esplosi in Italia tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Ottanta. La memoria pubblica, infatti, è da sempre un vero e proprio campo di battaglia nel quale gruppi depositari di memorie collettive tra loro differenti tentano di prevalere sugli altri. I coinvolgimenti politici giocano, in questo senso, un ruolo decisivo.
La frammentazione della memoria pubblica è stata una conseguenza diretta dell’epilogo travagliato di quella stagione, passato attraverso un confronto straordinariamente violento tra lo Stato, i movimenti e i gruppi che praticavano la lotta armata. Questo scontro non poteva che portare a un irrigidimento degli schieramenti, così come si palesa ancora ai giorni nostri. In definitiva, è andato formandosi un ostacolo insormontabile per la formulazione di una memoria pubblica condivisa – che non significa priva di conflittualità e scontro dialettico, ma significherebbe soprattutto una memoria pubblica non egemonizzata dalle riletture cosiddette “ufficiali”.
Occasioni come l’anniversario del rapimento Moro, o più recentemente il cinquantesimo del ’68, sono diventate, soprattutto, un’opportunità per ribadire la centralità del “paradigma vittimario” che avvolge la narrazione storico-mediatica di quel periodo, formalizzando così una frattura della memoria storica che ha origini lontane nel tempo.
L’articolo di Ilenia Rossini pubblicato sul sito di Storie in Movimento è molto attento, in questo senso, a mettere a fuoco la problematicità del concetto di vittima nell’ambito delle rappresentazioni mediatiche degli anni Settanta, insieme a tutto ciò che ne consegue in ambito storiografico. Per rendersi conto della distanza che intercorre tra la necessità di dare una nuova – e necessaria – centralità storica e storiografica agli “anni della contestazione e dell’insubordinazione diffuse”, come propone di definirli Eros Francescangeli (Le parole e le cose. Sul nesso sinistra rivoluzionaria, violenza politica e sociale, lotta armata, in Parole e violenza politica. Gli anni Settanta nel Novecento italiano, a cura di Giuseppe Battelli, Anna Maria Vinci, Carocci, Roma, 2013, p. 68), e il morboso accanimento para-complottista che contraddistingue il giornalismo nostrano, è sufficiente un rapido confronto.
Prendiamo come esempio la rappresentazione mediatica del “caso Moro”.
Da un lato troviamo i format come la web-serie di Repubblica, Cronache di un sequestro, con i suoi tentativi di dimostrare una contro-storia che non si arrende all’evidenza delle ricostruzioni memoriali e storiografiche, insinuando il sospetto di una verità altra da scovare in non si sa quali tortuosi meandri della Repubblica; dall’altro la proposta, avanzata da studiosi ed ex militanti, di ripartire dalle fonti storiografiche per ricollocare un episodio nel contesto storico d’appartenenza, anche grazie alla pubblicazione di un volume (Brigate rosse. Dalle fabbriche alla «campagna di primavera», a cura di Elisa Santalena, Marco Clementi, Paolo Persichetti, DeriveApprodi, Roma, 2017) che cerca di rispondere in maniera chiara e comprensibile agli interrogativi dei media generalisti.
Il fatto che si continuino a scontrare due visioni così irriducibilmente conflittuali di un episodio divenuto il momento chiave per l’interpretazione di un’intera epoca – e anche qui ci sarebbe da discutere – ci restituisce una narrazione in cui permangono evidenti mutilazioni della memoria pubblica. Queste lacune hanno origine, a mio modo di vedere, anche dall’oblio del ricordo collettivo di alcuni protagonisti della “stagione dei movimenti”. Ciò ha permesso il dilagare, come ben ricostruito da Ilenia Rossini, di una rielaborazione pubblica degli anni Settanta fortemente influenzata dal concetto di vittima e dall’abuso del termine terrorismo. Colmare questi “vuoti di memoria” prima che vengano condannati all’oblio non solo del ricordo individuale e collettivo, ma anche della ricerca storica, potrebbe costituire un primo tentativo di riannodare i fili di un passato ancora oggi denso di significati ambivalenti, di riletture parziali e di interpretazioni intransigenti.
“Perdita dell’innocenza” e storia dei movimenti
Il primo ostacolo da affrontare ha origine in un preciso modo di intendere la temporalità della “stagione dei movimenti”. L’accentuazione di uno sviluppo cronologico in forma di escalation che, dalle nuove esperienze della militanza creativa nel ’68, giunge ad un’insanabile frattura con la nascita delle organizzazioni armate, ha origini lontane nel tempo. Come ha scritto Barbara Armani, ciò può essere «il sintomo di un disagio esistenziale e culturale profondo, di un rapporto irrisolto tra storia e memoria», accentuato dal fatto che coloro che hanno avuto «accesso alla dimensione pubblica della parola» sono stati per diversi anni quasi esclusivamente i rappresentanti del cosiddetto “partito armato” (La produzione storiografica, giornalistica e memoriale sugli anni di piombo, in Il libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo italiano, a cura di Marc Lazar, Marie-Anne Matard-Bonucci, Rizzoli, Milano, 2010, p. 213).
A questo proposito, è bene soffermarsi sul tema della memoria pubblica[ref]1. Qui da intendersi come «l’insieme delle rappresentazioni del passato che si costruiscono e si confrontano nella sfera pubblica attraverso le retoriche, i rituali e le cerimonie, i musei, i monumenti e le iscrizioni, la toponomastica e le giornate dedicate al ricordo di determinati eventi o persone». Bruno Bonomo, Voci della memoria: l’uso delle fonti orali nella ricerca storica, Carocci, Roma, 2013, p. 32.[/ref] degli anni settanta, una problematica che si lega a doppio filo con la questione del “paradigma vittimario” e che chiama in causa un complesso intreccio di fattori a cui attinge la narrazione odierna dei movimenti sociali, delle organizzazioni armate e, più in generale, della violenza politica. In un paese dove, ancora oggi, qualsiasi espressione di radicalità sociale è strumentalmente ricondotta a velleitari tentativi di «richiamare alla memoria la lotta armata», come sostenuto recentemente dal questore di Torino, i conflitti della memoria sono lungi dall’essere ricomposti. Tale ricomposizione, è bene affermarlo, non equivarrebbe in automatico a una pacificazione del conflitto scaturito con la rottura rivoluzionaria dei movimenti e il successivo irrigidimento dell’apparato statale, ma avrebbe in primo luogo la funzione di diradare quella nebbia di ambiguità che avvolge alcuni episodi della storia degli anni Settanta, e che ha reso sempre meno accessibile una decodificazione degli eventi agli occhi dell’opinione pubblica. L’atteggiamento vittimistico, in questo contesto, incarna significati ambivalenti, contraddistinguendo il modo di agire di diversi attori – protagonisti e comprimari – dei conflitti politici avvenuti negli anni Settanta.
In primo luogo si possono individuare quegli ex militanti della sinistra extraparlamentare interessati a costruire una personale «retorica dell’innocenza, […] un’epica della rivoluzione», come annotato sempre da Barbara Armani su «Contemporanea», che sancisse una volta per tutte la «netta discontinuità tra l’utopia pacifica del Sessantotto e la violenza degli anni ’70» (La violenza della politica: letture e riletture degli anni settanta, «Contemporanea», XIII, 4, 2010, p. 756). L’esempio forse più paradigmatico in questo senso è quello della cosiddetta teoria della “perdita dell’innocenza”, che ha nella strage di piazza Fontana del 1969 il suo riferimento più abusato[ref]2. Insieme agli esempi che seguono è indicativo soprattutto il volume di Giorgio Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta, Feltrinelli, Milano, 1993.[/ref].
Esemplare, in questo senso, l’intervista rilasciata da Adriano Sofri al Corriere della Sera nel 2004, nella quale veniva sviluppato un ragionamento rispetto a coloro che «nei confronti del racconto di piazza Fontana [agirono] come se allora fossimo stati degli innocenti che dunque avevano il diritto di tirare la loro prima pietra». Le dichiarazioni di uno dei più influenti dirigenti di Lotta continua – che pure erano volte a predisporre un discorso più ampio e sfaccettato rispetto ai concetti di colpa, innocenza e assoluzione – funsero allora da espediente retorico per sdoganare un’interpretazione parziale e limitante dei movimenti e del loro epilogo[ref]3. La teoria della “perdita dell’innocenza” è oramai stata assunta acriticamente da numerosi commentatori ed ex militanti della sinistra extraparlamentare, fra cui cfr. Enrico Deaglio e Gad Lerner. La storiografia più recente ha invece evidenziato come la scelta di ricorrere alla violenza di piazza e alla lotta armata avesse preceduto lo “spartiacque” di piazza Fontana, cfr. Gabriele Donato, La lotta è armata. Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Italia (1969-1972), DeriveApprodi, Roma, 2014. Sulla presunta paternità dell’espressione, cfr. Luigi Manconi in Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978: storia di Lotta Continua, Sperling & Kupfer, Milano, 2006 (ed. or. 1998), pp. 131-134. Decisamente critico è invece Andrea Casalegno in un’intervista al Corriere del 2009, così come diversi ex militanti di Potere operaio secondo cui i loro «eskimo non erano innocenti prima di Piazza Fontana», (cfr., testimonianza di Cecco Bellosi in Aldo Grandi, Insurrezione armata, Rizzoli, Milano, 2005, p. 26). Dello stesso parere Anna Bravo, che parla di «una verità parziale», in Noi e la violenza. Trent’anni per pensarci, «Genesis», III, 1, Roma, Viella, 2004, p. 17.[/ref].
Non sfuggono a questo cortocircuito storiografico nemmeno alcuni tra gli ex militanti di gruppi armati dissociati e pentiti, la cui riflessione – volta a risanare a posteriori le proprie scelte – ha reso difficile per lungo tempo il dialogo, anche privato, tra compagni provenienti dalle stesse esperienze politiche[ref]4. È il caso, per esempio, di Sergio Segio, il quale – caso quasi unico nella sua peculiarità, ma per questo non meno significativo – ha pubblicato diversi libri dei quali è l’unico autore, venendo meno alla linea di condotta collettiva elaborata da Prima linea durante il percorso dissociativo. Un caso diverso, ma ugualmente utile per la mia riflessione, è quello di Valerio Morucci e Adriana Faranda e della loro scelta di compilare il cosiddetto “memoriale” sul rapimento Moro durante il periodo detentivo, in aperto conflitto con la linea degli altri membri delle Brigate rosse coinvolti nel processo.[/ref]. A una tale predisposizione personale, non ha probabilmente giovato un atteggiamento, forse eccessivamente morboso, dei primi studiosi che, pur con un apprezzabile spirito di iniziativa, si sono approcciati alle storie di vita degli ex militanti[ref]5. Si veda, tra gli altri, il volume di Raimondo Catanzaro, Luigi Manconi (a cura di), Storie di lotta armata, Il Mulino, Bologna, 1995, ma anche R. Catanzaro (a cura di), Ideologie, movimenti, terrorismi, Il Mulino, Bologna 1990 e Id., La politica della violenza, Il Mulino, Bologna, 1990, entrambi prodotti dall’interessamento dell’Istituto Cattaneo.[/ref]
I protagonisti delle testimonianze, la cui disponibilità a sottoporsi alle interviste corrispondeva spesso con la scelta di collaborare con la giustizia, una volta chiamati in causa dall’opinione pubblica tendevano a fornire perlopiù versioni tese a ridimensionare il proprio ruolo nella pianificazione degli omicidi politici o, ancora più spesso, a tracciare una parabola giustificazionista del proprio percorso militante. Il fenomeno del pentitismo, in particolare, si è sempre configurato come una sorta di restituzione del proprio passato non mediata dalla dimensione collettiva, e pertanto slegata da qualunque possibilità di riannodare i fili della memoria in una dimensione condivisa.
Sono anche traiettorie di questo tipo ad avere ratificato un’analisi del periodo dettata dalla frenesia di giustificare la singolarità delle esperienze personali o dalla volontà di volersene distaccare a tutti i costi. In ambito storiografico i frutti di questa mancata elaborazione sono individuabili da più parti, specialmente tra chi, come Giovanni De Luna, ha impiegato la metafora «di un decennio spaccato a metà» (Le ragioni di un decennio. 1969-1979, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 11), nel quale si individuerebbero «da una parte gli anni ’70 come tornante decisivo della crescita culturale e civile del paese, dall’altra la crisi degli anni di piombo», secondo l’analisi storiografica di Monica Galfrè.
A completare il quadro dei dispositivi storico-memoriali che hanno provocato un cortocircuito rispetto a una mancata elaborazione della temporalità rientrano sicuramente le narrazioni delle vittime della violenza politica o dei parenti di queste ultime. Il paradigma vittimario assume, in questo senso, la piena valenza della sua definizione, e fa sì che «la pietà per le vittime e per la debolezza della natura umana [continui] a sostituire la giustizia» (Luisa Accati, La memoria storica e la violenza, in Parole e violenza politica. Gli anni Settanta nel Novecento italiano, a cura di G. Battelli, A.M. Vinci, Carocci, Roma, 2013, p.124), determinando l’ennesima impasse sul fronte della ricostruzione storica. Infatti, sebbene le “autobiografie armate”, come le ha definite Emmanuel Betta (Memorie in conflitto. Autobiografie della lotta armata, «Contemporanea», XII, 4, 2009), abbiano assunto un’importanza sempre maggiore nella sfera mediatica, non si deve cedere alla tentazione di investirle della piena responsabilità per il mancato approfondimento pubblico sugli anni Settanta.
Soprattutto perché, dati alla mano, risulta chiaro che alla larghissima diffusione di queste testimonianze va affiancata l’ancora più vasta espansione – anche solo in termini di tirature – delle opere letterarie redatte delle vittime della lotta armata, la cui egemonia nel campo del dibattito pubblico ha ormai segnato un punto di non ritorno per quanto concerne l’immaginario collettivo di quegli anni. Basta pensare che il volume del figlio del commissario Calabresi, Mario, Spingendo la notte più in là (Mondadori, Milano, 2007), ha venduto oltre 200.000 copie in nove edizioni, a fronte di una “memorialistica armata” che raramente supera le 40.000 copie, come nel caso dei “best seller” dei membri storici delle Brigate rosse Renato Curcio e Alberto Franceschini[ref]6. Dati in Emmanuel Betta, Memorie in conflitto, cit., p. 686.[/ref].
C’è però un paradosso nella proliferazione della memorialistica degli ex militanti della sinistra extraparlamentare italiana: mi riferisco al fatto che, nel caso dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, vi è stata una rapida e quasi immediata fruibilità delle (auto)biografie e delle opere memoriali, che hanno anticipato di molto le analisi storiografiche – ma anche sociologiche e antropologiche – della comunità accademica[ref]7. Di una storia dei movimenti «ostaggio della memoria» ha parlato esplicitamente Barbara Armani, La violenza della politica, cit., p. 754. Similmente, Andrea Tanturli e Davide Serafino hanno proposto di «sfuggire alle secche del cortocircuito di storia e memoria» in Ritorno alla storia: rassegna di studi recenti sulla violenza politica di sinistra nell’Italia degli anni ’70, «Giornale di storia contemporanea», XVII, 1-2, 2014, p. 137.[/ref]. Questa peculiarità assume una grande valenza nel momento in cui elude una tendenza molto diffusa fino a buona parte del XX secolo per quanto riguarda gli studi storico-sociali: quella secondo la quale le biografie e le testimonianze (soprattutto quelle orali) giungevano come tentativo di «mostrare ciò che non rientra[va] nel quadro generale», secondo una calzante definizione di Jacques Revel, in risposta alla fissità di ricerche che non prestavano sufficiente attenzione alla specificità delle storie individuali (Jacques Revel, La storia come biografia. La biografia come problema storiografico, in Tante storie. Storici delle idee, delle istituzioni, dell’arte e dell’architettura, a cura di Fabia Cigni, Valeria Tomasi, Milano, Bruno Mondadori, 2004, p. 9).
La vasta produzione di testimonianze orali relative alla “stagione dei movimenti” è, invece, debitrice della storia orale e della sua elaborazione negli ambienti della cosiddetta “nuova sinistra” degli anni Sessanta. La grande forza di questa corrente storiografica non fu tanto nell’originalità dell’approccio metodologico – che aveva dei precedenti e degli sviluppi paralleli del tutto autonomi nel panorama internazionale – ma nel fatto di essere stata piegata, in termini ideologici, per gli studi sulla composizione di classe e sulla soggettività. Luisa Passerini asserisce, non a caso, che la memoria debba essere «intesa come una forma della soggettività»[ref]8. L. Passerini, Memoria e utopia. Il primato dell’intersoggettività, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 19.[/ref], attraverso un procedimento metodologico che individua nella tradizione della storia orale il suo cardine. Questo tipo di prassi assume una valenza centrale nel momento in cui si propone come un espediente tecnico che mette al centro la creazione della fonte, prima che la sua elaborazione, e in questo modo apre un canale diretto con le forme di stratificazione della memoria esaltando così «l’analisi del carattere del corso storico e dei suoi soggetti»[ref]9. Storia orale. Vita quotidiana e cultura materiale delle classi subalterne, a cura di L. Passerini, Rosenberg & Sellier, Torino, 1978, p. XV.[/ref].
Nel corso di un’intervista che ho avuto modo di raccogliere con alcuni ex appartenenti a Prima linea mi è stato detto che nel fluire di un movimento «la soggettività crea dei solchi», nel senso che diversifica la presunta linearità degli eventi e articola l’esperienza delle lotte in una visione corale. L’importante, nel nostro caso, diventa allora scavare nella profondità di questi solchi per trovare cosa vi si è sedimentato all’interno, pur sapendo di andare incontro a delle ferite ancora aperte che, in molti casi, anche gli studiosi più attenti faticano a circoscrivere entro enunciati privi di detrimenti pregressi.
Per i militanti della sinistra extraparlamentare, ciò ha rappresentato il bisogno di esternare un punto di vista personale sul proprio passato politico che ha preceduto l’articolazione di un paradigma storiografico sulla “stagione dei movimenti”, e non è giunto come una risposta alle presunte lacune di quest’ultimo. E non è da escludere che anche l’attenzione morbosa riservata dalla produzione giornalistica ai protagonisti degli anni Settanta, volta a fornirne una rappresentazione stereotipata, potrebbe avere indotto la necessità fisiologica di “dare una risposta immediata” alle distorsioni mediatiche. L’attenzione, in questo senso, non è da volgere contro la produzione delle biografie militanti in sé, ma contro l’uso spregiudicato che ne è stato fatto in campo storiografico e in funzione di una palese deformazione della memoria pubblica.
Storia e memoria
L’accesso alle biografie degli individui tramite le loro narrazioni ci obbliga a tenere conto di una problematica fondamentale nello studio della storia sociale, ossia quello relativo alla memoria pubblica degli eventi, soprattutto quando questi ultimi hanno lasciato profonde cicatrici nel tessuto sociale di una popolazione, di una classe sociale o, nel nostro caso, di una generazione di militanti politici. Ovviamente bisogna fare i conti con la selettività della memoria dei singoli, con i mutamenti temporali e culturali che tendono a fare emergere certi aspetti del racconto al posto di altri, oltre che dei dispositivi di egemonia narrativa del potere volti a produrre un deliberato oblio selettivo di determinate forme della memoria.
Rimane aperto, insomma, il dilemma sulla presunta predominanza che la storia dovrebbe avere nei confronti della memoria. Il ricordo collettivo, inteso nei termini proposti dal sociologo Maurice Halbwachs nel volume La memoria collettiva (a cura di Paolo Jedlowski, Edizioni Unicopli, Milano, 1987), è un processo tramite cui bisogna ri-attualizzare la memoria di un gruppo sociale di cui si è fatto parte in passato, e quest’ultima deve essere costantemente ricostruita in funzione del presente. La decifrazione della memoria culturale – intesa come l’influsso della conoscenza che il passato esercita sul presente – che afferisce al patrimonio dei movimenti e ai loro codici di rinnovamento sociale, viene invece di giorno in giorno relegata all’amnesia pubblica tramite un duplice meccanismo: da un lato grazie alla sovraesposizione di un ricordo codificato secondo i paradigmi dell’ufficialità – storica, giornalistica, culturale, istituzionale – dall’altro tramite il rimosso che impone questa stessa configurazione della memoria pubblica (di cui fa parte, ovviamente, anche il paradigma vittimario).
Se immaginiamo la costruzione della memoria pubblica di una società come il risultato di un processo di negoziazione da parte di diversi agenti di memoria, ci rendiamo conto di come la prevaricazione di un gruppo sociale su un altro possa determinare la persistenza o meno di un dato ricordo. Quest’ultimo assume così una valenza ontologica nel momento in cui è confermato attraverso le pratiche sociali della memoria.
Il ruolo di queste pratiche, sostiene il sociologo Paolo Jedlowski, consiste nel fornire una «esteriorizzazione progressiva della memoria in memorie artificiali», che possono essere frutto di una mediazione tra i gruppi interessati alla preservazione di una data memoria, ma più spesso risultano essere il prodotto di una concezione strumentale di quest’ultima (Memoria, esperienza e modernità. Memorie e società nel XX secolo, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 66). Nel loro aspetto esteriorizzato – sotto forma di commemorazioni, monumenti, lapidi, ecc… – le memorie pubbliche hanno la possibilità di assumere «forma narrabile», ma non bisogna dimenticare che non è solo la narrazione in sé a costituire il portato collettivo di un ricordo, ma anche le modalità con la quale essa viene trasmessa.
Nel caso dell’Italia post-movimenti degli anni Sessanta e Settanta, è interessante osservare come i tentativi di plasmare una nuova identità nazionale “purificata” dalla trascorsa stagione di conflittualità sociale siano passati innanzitutto attraverso una lunga sequenza di silenzi e mutilazioni della memoria pubblica. Secondo la ricercatrice olandese Andrea Hajek, l’incapacità dello Stato italiano di creare consenso attorno al passato ha determinato una crisi di legittimazione che ha contribuito alla creazione e al mantenimento di numerose “memorie frammentate”. Nel suo libro Negotiating Memories of Protest in Western Europe (Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2013), Hajek sostiene che queste ultime siano, a loro volta, diventate foriere di forti «tensioni tra le memorie ufficiali, la memoria pubblica e le memorie alternative delle proteste negli anni ’70» (p. 6), tanto da provocare una sorta di “amnesia collettiva” quando coincidono con le memorie riguardanti la violenza politica e le organizzazioni rivoluzionarie.
Il procedimento che ha permesso l’instaurarsi di un così vasto mosaico di memorie eterogenee trova la sua origine in diversi fenomeni e contesti. Il primo è sicuramente legato al “movimento incessante” proprio della modernità, secondo la definizione di Jedlowski (Memoria, esperienza e modernità, cit., p. 67), che ha provocato una frammentazione del tempo storico e un’accelerazione dei fenomeni sociali tali da richiedere un continuo proliferare di nuove identità e di nuovi strumenti conoscitivi. Inoltre, l’impressione di vivere un “eterno presente” ha alimentato le ansie relative ai pericoli dell’oblio, accrescendo di conseguenza il desiderio dei gruppi sociali che avevano attraversato i movimenti di tramandare la propria “memoria culturale”[ref]10. Secondo Jan Assman, «la memoria del gruppo non ha una base neuronica. In luogo di essa c’è la cultura: un complesso di conoscenze garanti dell’identità che si oggettivano in forme simboliche», La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997, p. 61.[/ref].
Se, per quanto riguarda la memoria delle stragi di Stato, l’azione collettiva delle associazioni delle vittime è riuscita, in diversi casi, a imporre una lettura degli eventi non limitata e in qualche modo “scomoda” all’attenzione dell’opinione pubblica, lo stesso non si può dire per la memoria della violenza agita e subita dai movimenti e dalle organizzazioni armate. Questo scontro non poteva che portare a un irrigidimento degli schieramenti e, soprattutto nel caso dei militanti della sinistra extraparlamentare, ha significato un regresso nelle memorie private, proprie tanto dei singoli quanto dei gruppi di affinità militanti, ma difficilmente comunicabile all’esterno. Queste ultime sarebbero segnate da «silenzi, lacune e omissioni […] nonché da rigidità dogmatiche e ideologiche», come sostiene lo storico britannico John Foot (Looking Back on Italy’s “Long «68»”. Public, Private and Divided Memories, in Ingo Cornils, Sarah Waters, Memories of 1968. International Perspectives, Peter Lang, Oxford-New York, 2010, p. 109). Una chiusura nell’intimità che ha certamente provocato il consolidamento delle forme dell’oblio, ma ha anche fatto sì che il movimento articolasse la contro-memoria del decennio appena trascorso in una propria memoria pubblica, incentrata prevalentemente sul ricordo di tutti coloro che avevano pagato con la vita la partecipazione ai movimenti.
A questa pratica autonoma del ricordo si affianca quello che l’antropologo Paul Connerton definisce “oblio strutturale”, una forma di autodifesa dell’individuo che tende a ricordare solo quei «riferimenti del suo passato che sono socialmente importanti», ovvero che assumono valore di fronte alla ricomposizione di una memoria collettiva relativa ad un gruppo di affinità (Seven types of forgetting, «Memory Studies», I, 1, 2008, p. 64). Questo tipo di atteggiamento non è raro nel caso del recupero dei ricordi relativi alla “stagione dei movimenti”; l’estrema frammentazione delle esperienze dei singoli militanti all’interno di gruppi differenti, unita ai processi di rimozione e opacità della memoria operata dai dispositivi istituzionali, ha infatti contribuito a disperdere la memoria entro un’infinità di canali di rielaborazione.
Foot ha infatti notato che questa pratica commemorativa coinvolge quasi esclusivamente eventi tragici, come morti, omicidi, e uccisioni. Ciò sarebbe conseguenza di un sentimento di sconfitta, che avrebbe permeato gli ambienti della sinistra extraparlamentare dopo che l’entusiasmo rivoluzionario per un cambiamento radicale della società aveva lasciato spazio alla disillusione e allo spaesamento. Per quanto questa analisi sia condivisibile, mi sembra che non ci si possa limitare a una lettura così schiacciata sul problema della “sconfitta” senza capire i meccanismi che l’avrebbero determinata. In qualche modo andrebbe accertato se non sia stata più la narrazione pubblica della sconfitta, che la sconfitta in sé, ad essere stata accolta come un punto di vista egemonico sulla fine dei movimenti.
A questo punto, mi sembra plausibile evidenziare almeno tre fattori che hanno reso questa sconfitta una realtà agli occhi dell’opinione pubblica. Il primo, come si diceva, è legato alla volontà degli ex appartenenti ai movimenti di voler ricreare una memoria privata e, in una certa misura, autoreferenziale del proprio passato; a questo atteggiamento hanno fatto da contraltare le istituzioni e la loro non-volontà di stabilire qualsiasi tipo di commemorazione pubblica che ricordasse anche la carica propositiva e fortemente innovatrice del “lungo ’68” italiano. Il secondo fattore è legato a una rilettura del periodo incentrata su quella che Carlo Ginzburg ha definito “storiografia giudiziaria” (Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Einaudi, Torino, 1991, pp. 8-14.), e che, se applicata senza il rigore di un’attenta analisi documentale, può portare a interpretazioni erronee e analisi superficiali. Questa propensione, infatti, se da una parte ha consentito la realizzazione di contro-inchieste anche all’interno dello stesso movimento, dall’altra ha appiattito la comprensione degli avvenimenti degli anni ’60-’70 sulla base dei soli esiti giudiziari o su teorie elaborate a partire da questi ultimi (paradigmatico, in questo senso, il “caso 7 aprile 1979”, approfondito in Giulia Pacifici, Giudici o storici? Il “caso 7 aprile”, «Zapruder. Rivista di storia della conflittualità sociale», 37, 2015, pp. 96-103). In ultimo, c’è un ostacolo insormontabile per la formulazione di una memoria pubblica condivisa, che tiene insieme tutti gli aspetti delineati finora. Se gli esponenti del movimento hanno diffidato – e continuano a diffidare – degli impianti commemorativi istituzionali e ritengono corretto preservare la memoria dei propri caduti in maniera automa, è anche perché lo spazio pubblico dedicato a costoro è stato reciso di proposito.
Un esempio della rimozione volontaria della memoria dei movimenti è l’istituzione della “Giornata della memoria delle vittime del terrorismo” nella data dell’uccisione di Aldo Moro (9 maggio), invece che nel 12 dicembre di piazza Fontana. La duplice simbolicità della scelta è chiara: da un lato si insiste sulla violenza delle organizzazioni armate più che su quella statale e neofascista, dall’altro si fa risaltare la morte di una personalità politica di spicco invece che della popolazione civile.
Negli atti relativi alla discussione della Camera dei deputati svoltasi il 2 maggio 2007, è possibile leggere un solo riferimento all’eredità dei movimenti, nell’intervento di Franco Russo (a nome di Rifondazione comunista), il quale si limita comunque a rilevarne la messa a tacere in seguito alla «lotta fra apparati militari». Il restante dibattito è demandato alla diatriba sulla scelta della data più rappresentativa, alla dicotomia vittime/carnefici e alla loro maggiore o minore rilevanza sul piano pubblico. È assente una presa d’atto globale rispetto ai mutamenti storici avvenuti in quel quindicennio, oltre alla consapevolezza che, tanto le vittime quanto i carnefici, sono stati al centro non di «una storia separata, ma complementare» come sostenuto da Monica Galfrè nell’importante volume La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo, 1980-1987 (Laterza, Roma-Bari, 2014, p. 241).
La tendenza a incentivare «una lettura giudiziaria della storia» finisce con il provocare una “giuridicizzazione della memoria”, secondo la calzante espressione che la storica ha mutuato dagli studi di Enzo Traverso (La guerra è finita, cit., p. 127). Un tale processo risulta particolarmente evidente per gli avvenimenti del XX secolo caratterizzati da un grande portato di violenza e che, con il passare del tempo, non hanno conosciuto una ricomposizione del ricordo in grado di esulare dalla dicotomia vittime/carnefici. A mancare del tutto nelle commemorazioni istituzionali è, insomma, l’insieme dei movimenti, delle culture e delle esperienze politiche ad essi contigui, riconosciuti soltanto come mera area sociale di consenso e bacino di reclutamento della lotta armata e non in quanto attori politici in grado di esercitare una propria autonomia e un proprio influsso sulla società.
La mutilazione di una parte della memoria pubblica è ancora più evidente se si consulta la “Rete degli archivi per non dimenticare”, un portale telematico istituito il 9 maggio 2011 su iniziativa del Centro documentazione Archivio Flamigni con l’obiettivo di «conservare e rendere accessibili le fonti documentarie sui temi legati al terrorismo, lo stragismo, la violenza politica e la criminalità organizzata». Una sezione del sito è dedicata al “Muro della memoria”, dove è possibile consultare in ordine alfabetico una breve biografia di coloro che in Italia sono morti «per mano dei terroristi, degli stragisti, di coloro che usavano la violenza per fare politica e delle mafie». L’iniziativa, che si propone di favorire una ricomposizione della memoria pubblica, fallisce nelle sue intenzioni nel momento in cui ci si rende conto che, a non essere conteggiate, sono le numerose vittime delle forze dell’ordine, sia che siano state uccise in incidenti di piazza, sia che abbiano subito violenze in carcere, sia che abbiano perso la vita in scontri a fuoco. L’intento del portale sarebbe quello conservare un “chiaro e rispettoso ricordo” di tutte le storie legate agli omicidi politici. Manca, però, tutta la memoria pubblica del movimento, la stessa che viene commemorata autonomamente dagli esponenti della sinistra extraparlamentare e che viene qui a concretizzarsi attraverso un’esplicita mutilazione, per di più operata sotto la tutela istituzionale.
Quale memoria?
Per questo motivo, credo che il tema da porsi non sia quello di fissare i parametri di una memoria legittima né, tantomeno, “imparziale”, ma di illustrare le dinamiche grazie alle quali i flussi del ricordo si intrecciano, si sovrappongono e si elidono vicendevolmente attraverso la stratificazione di una cultura storica sensibile ai dispositivi comunicativi della modernità.
Se infatti è giusto sostenere, come ha fatto Gianpasquale Santomassimo, che «la memoria pubblica è distinta dalla storiografia» (La memoria pubblica dell’antifascismo, in Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta: culture, nuovi soggetti, identità. Atti del ciclo di Convegni, Roma, novembre e dicembre 2001, a cura di a cura di Fiamma Lussana e Giacomo Marramao, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 137), mi sembra però lecito assumere che la storiografia possa occuparsi delle aporie, delle lacune e delle menomazioni che intervengono nella ridefinizione delle memorie collettive. È anche per tale motivo che diventa di primaria importanza soffermarsi e reinterpretare una lettura della “stagione dei movimenti” troppo spesso costretta dalle narrazioni egemoniche e poco attenta alle specificità individuali e collettive.
Per evitare che il ricorso alla biografia perda la sua utilità nel momento in cui l’era della vittima prende il posto dell’era del testimone (Vanessa Roghi, Serve una giornata delle vittime per raccontare il terrorismo?, «minima&moralia», 9 maggio 2014), non bisogna disconoscere il ruolo della memoria e delle autonarrazioni, ma piuttosto riformularle o trovarne di inedite in modo da ripercorrere i sentieri del passato attraverso i passi di chi li ha tracciati per la prima volta. Se comprendiamo nella categoria di (auto)biografia tutte quelle produzioni memoriali che hanno lo scopo di esplicitare, sotto forma di narrazione, il carattere sociale di un individuo e non solo la sua esteriorità, questa pratica di (ri)generazione delle fonti assume un orizzonte immediatamente più concreto. In pratica, non memoria intesa come un obiettivo statico da evocare o al quale giungere al termine di un percorso di ricerca, ma memoria intesa soprattutto come «l’atto narrante di un individuo in un contesto sociale», secondo la definizione di Luisa Passerini (Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, La Nuova Italia, Venezia, 1988, p. 108). Ovvero come costruzione di sé e espressione della propria soggettività.
I rivolgimenti attuali della memoria in una società sottoposta, come abbiamo visto in precedenza, a un mutamento incessante, sono alla base della formazione di nuove identità[ref]11. È sempre Paolo Jedlowski a ricordare come «ciò che distingue essenzialmente le società moderne da quelle tradizionali è precisamente il fatto che nelle prime il mutamento è istituzionalizzato come norma», Memoria, esperienza e modernità, cit., p. 67.[/ref]. La ricerca di identità, a loro volta non statiche e in continuo sviluppo, «è una delle attività fondamentali degli individui e delle società d’oggi» (Jacques Le Goff, Storia e memoria, Einaudi, Torino, 1977, p. 60) secondo moltissimi storici e scienziati sociali, i quali ravvisano in questa attività spasmodica anche il tentativo di trovare una risposta alla crisi delle grandi narrazioni ideologiche del XX secolo. Ciò è significativo soprattutto tenendo conto dell’accezione strettamente individuale che la memoria assume nelle società sottoposte a un regime economico di tipo capitalista, le quali tendono a delineare un procedimento di riscatto soggettivo basato sulla sola valorizzazione delle qualità personali degli individui. È chiaro che, in una simile circostanza, la perdita di identità subisce dei contraccolpi decisivi nel momento in cui non riesce più a riscattare un’adesione collettiva all’interno di uno o più gruppi sociali di appartenenza.
Per questo motivo, abbandonare il recupero della memoria a favore di una narrazione storica alterata dai processi di egemonia pubblica finisce per essere un terreno scivoloso sui cui porsi, poiché rischia di elidere il portato sociale di una memoria di parte sempre più costretta nel vincolo dell’oblio. Abbiamo forse bisogno, al contrario, di memorie antagoniste che si pongano direttamente in contrasto con quelle ufficiali e vittimistiche. L’esplicitazione di una subalternità nel rapporto dialettico tra movimenti e istituzioni, in seguito alla marginalizzazione dei primi avvenuta tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, può rivelarsi utile per esplorare più a fondo la funzione egemonica svolta dalla predominanza di un certo di tipo di “memorie ufficiali”. Non sarebbe da sottostimare un dialogo tra presente e passato che coinvolga i soggetti protagonisti dei movimenti per fissare alcuni punti fermi concettuali e interpretativi – evitando, in tal modo, un certo feticismo storiografico per gli aspetti più macabri e occulti del periodo – al fine di intraprendere una riflessione sul ruolo delle soggettività nei cambiamenti avvenuti in seno alla società negli ultimi quarant’anni.
Ripartire dalle narrazioni e dalle storie di vita, in questo senso, potrebbe rivelarsi il metodo più efficace per affrontare le lacune lasciate da un complesso di eventi che oggi soffrono al contempo di una sovraesposizione mediatica e di una sotto-elaborazione culturale. L’esito di questo duplice condizionamento è, paradossalmente, quello di un arroccamento su riletture sterili e depotenziate rispetto all’ascendente conflittuale della memoria storica dei movimenti sulla società. La domanda da cui partire è: quale memoria pubblica è oggi egemone? La risposta non può che risiedere nella riscoperta delle memorie collettiva dei gruppi sociali rimasti al di fuori di questa rappresentazione, e nella loro ri-significazione in qualità di fonti per la ricerca storica.
(In copertina: Milano, aprile 1975, funerali di Giannino Zibecchi, militante del Coordinamento dei comitati antifascisti travolto il 17 aprile da una camionetta dei Carabinieri in Corso XXII Marzo; fonte: La lunga rabbia)
3 commenti
Marco Grispigni
13 Settembre 2018 at 14:29L’articolo tratta in maniera interessante del “paradigma vittimario” ma sostanzialmente lo fa per proporne uno ugualmente vittimario, il recupero di una “memoria di parte sempre più costretta nel vincolo dell’oblio”.
Questa posizione mi lascia profondamente perplesso, specialmente in un periodo nel quale numerosi sono i lavori storiografici che affrontano il nodo degli anni 70 e quello della violenza (anche se forse non sono conosciuti dall’autore visto che non ne cita neanche uno).
Forse l’egemonia del “paradigma vittimario” andrebbe verificata rispetto alla costruzione di un discorso sugli anni 70 in sede storica e sulla mancata capacità egemonica da parte della storiografia rispetto alla memorialistica.
Andrea Bertolani
14 Settembre 2018 at 18:48Interessante. Potrebbe, per mia cultura personale, citarmi alcuni di questo apporti storiografici. Grazie
Tommaso Rebora
4 Ottobre 2018 at 12:36Gentile Marco Grispigni, innanzitutto grazie per il commento e gli spunti di riflessione. Capisco che l’impostazione metodologica proposta possa suscitare qualche resistenza, ma il mio ragionamento voleva proprio essere un tentativo di “agitare le acque”, se mi si passa il termine, rispetto alla storiografia sui movimenti.
Rispetto alla mia intenzione di voler semplicemente “sostituire” una narrazione vittimistica con un’altra, temo che ci sia stato un fraintendimento. Come ho tentato di illustrare, al contrario, sono persuaso che esistano diversi gradi di rilevanza a seconda delle memorie che sono state poste al centro dell’interpretazione storica sulla stagione dei movimenti, memorie che comprendono tanto la narrazione in prima persona degli ex militanti quanto la rielaborazione giornalistica e storico-divulgativa. In questo senso, continuo a pensare che si sia imposto, col tempo, un articolato processo di rimozione nell’interpretazione storica della stagione dei movimenti, che ha innescato i dispositivi di oblio nei confronti di determinate memorie. Questa mia asserzione deriva da un lavoro di ricerca basato su fonti orali che ho potuto condurre nell’ultimo anno e mezzo e che spero di potere condividere pubblicamente nel prossimo futuro (e che, per ragioni editoriali, non era possibile riportare interamente su Storie in movimento).
Condivido in pieno la necessità di articolare un discorso sugli anni 70 in sede storica per emanciparsi dal paradigma vittimario, anche se mi trovo meno d’accordo sul continuo ripresentarsi delle recriminazioni sulla mancata capacità egemonica da parte della storiografia rispetto alla memorialistica. Per quanto mi riguarda, storia e memoria non possono essere pensate se non in un rapporto reciproco di condivisione, scambio e mutuo influsso. Ritengo che proporre il contrario rischi di scivolare verso una battaglia donschisciottesca per la predominanza dell’uno o dell’altro attributo, senza che vi sia in conclusione un vero apporto nella ridefinizione di quelle che sono le persistenze – corrette o erronee – di un certo tipo di interpretazioni storiche (o presunte tali) nell’opinione pubblica.
Per questo motivo, la mia suggestione era quella di ripartire dalla riscoperta della narrazioni costrette nel vincolo dell’oblio per porle al centro di una ricerca storica che si facesse forte di un protagonismo nella sfera pubblica, e non solo nei circuiti più ristretti dove la battaglia per il primato della storia sulla memoria si è ridotto ad uno scontro tra scuole di pensiero (che non tiene contro, per esempio, dei memory studies sviluppati dall’accademia anglosassone nell’ultimo decennio).
Che la memoria possa risultare un terreno scivoloso su cui porsi è fuori di dubbio, ma dal mio punto di vista in questa fragilità si possono trovare le risorse per riportare il dibattito pubblico sugli anni ‘70 su un piano di reale condivisione e riscoperta di quel periodo. In tema di pubblicistica recente, Francesca Socrate ha scritto nel volume “Sessantotto. Due generazioni” (Laterza, 2018) che il difficile rapporto tra la memoria dei protagonisti dei movimenti e la sua storicizzazione trova un equilibrio nella «negoziazione continua tra i due punti di vista». In questo senso, la sua riflessione non può che trovarmi d’accordo.