Ripubblichiamo la recensione del numero 45 di «Zapruder», uscita martedì 16 ottobre su «Il Manifesto» a firma Simone Scaffidi, che ringraziamo unitamente alla redazione del quotidiano.
di Simone Scaffidi
«Ricordo la prima volta che ho visto apparire sullo schermo di un microcomputer una foto scansionata: ho pensato di essere in un film di fantascienza». Siamo invece nel 1988 e l’attivista, scrittore ed editore Marco Philopat descrive così l’incontro con le tecnologie che in un paio di decenni rivoluzioneranno le vite di una fetta considerevole della popolazione mondiale. Grazie a questa immagine, contenuta nel numero 45 della rivista Zapruder, si ha l’impressione di scavare nel passato, di fare archeologia, conservando però quella sensazione di straniamento che ci proietta in un film di fantascienza. La maggioranza di noi lettori e lettrici non ha infatti idea dei passaggi che consentono a una foto di apparire sullo schermo di un computer, quanto meno su un profilo Instagram o Facebook. Abbiamo naturalizzato questa apparizione senza farci troppe domande, poco consapevoli delle fonti e degli strumenti che ci permettono di condividere frammenti selezionati delle nostre vite.
HACK THE SYSTEM, la penultima fatica – e soddisfazione – della redazione di Zapruder, regala una rizomatica sequenza di interventi che provano a interrogare, storicizzare e socializzare la complicata relazione tra esseri umani e tecnologia; nonché tra approcci orizzontali alla condivisione dei saperi e pratiche di controllo e oppressione tese a fondare poteri. Hack the system tocca le sponde dell’hacking e della filosofia hacker addentrandosi nei suoi significati più profondi, raggiunge la galassia letteraria e immaginifica del cyberpunk, per poi esplorare le infrastrutture resistenti sulla terra e nella rete (da A/I, Autistici/Inventati a Indymedia, dagli Hackmeeting ai corsi di pedagogia hacker di Ippolita, dal videogiornale del movimento studentesco La Pantera alla cybermilitanza degli attivisti turchi), ricordando come tutto è nato, quanto in questi anni è stato creato e digitalizzato, e come il materiale prodotto potrà essere conservato e utilizzato dalla storica o dall’attivista del futuro.
TORNANDO AL 1988 e al film di fantascienza, quello che l’hacker fa, a dispetto di noialtri profani e dell’immagine travisata che i media hanno deciso di restituirci, è «fare a pezzi il sistema» (to hack the system) qualunque esso sia – un codice sorgente, un’aspirapolvere o una foto scansionata – per poi, dopo aver capito come funziona, modellarlo, modificarlo e ricostruirlo. Smonto, conosco, capisco, rimonto, modello e condivido il sapere senza appropriarmene. Questo è l’hacker. Calato nella rete, tale individuo, «per la prima volta nella storia ha potuto percepire se stesso come centro di elaborazione, creazione e smistamento di dati su scala globale». Con un impatto devastante a livello di immaginario.
Dopo aver girato l’ultima pagina di Hack the system, indagine dell’immaginario prodotto dalle tecnologie digitali e la sua decostruzione – che attraversa tutti gli interventi presenti nel numero, vengono in mente le parole di Rinaldo Mattera nell’articolo che apre la rassegna. I processi umani passano – anche e sempre di più – attraverso le macchine, i computer, la tecnologia. Vogliamo davvero delegare a governi e imprese le nostre relazioni umane?