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«Il movimento dei “gilets jaunes” riflette un indebolimento della democrazia»

Da quattro settimane continua in Francia la mobilitazione dei “gilets jaunes”. Da quattro settimane la protesta va avanti nonostante la repressione brutale, la menzogna generalizzata dei media, le intimidazioni di ogni sorta (la banalizzazione degli arresti preventivi grazie al capo d’imputazione di «partecipazione a un gruppo costituitosi col proposito di commettere violenze»). Per provare a capire meglio proponiamo la traduzione di una lucida intervista allo storico Quentin Deluermoz, secondo cui «il movimento dei “gilets jaunes” ha luogo in una crisi profonda, che non è una crisi di governo, ma una crisi della società, di un modello sociale e politico che si è sgretolato dopo molti decenni». Quentin Deluermoz si occupa di storia sociale e di storia culturale dell’ordine e del disordine sociale nel XIX secolo.

Lo storico Quentin Deluermoz analizza la collera dei «gilets jaunes» come sintomo di una crisi sociale e politica

Intervista a cura di Jean-Baptiste de Montvalon

Che cosa può affermare uno storico davanti al movimento dei «gilets jaunes»?

È difficile per uno storico pronunciarsi rapidamente su una situazione in continua evoluzione. C’è, quanto meno, il rischio concreto di vedere solo ciò che si cerca. E tuttavia, gli storici possono partecipare al lavoro di comprensione. Nella fattispecie, dinnanzi a un movimento che sfuggiva alla loro comprensione, i media hanno fato abbondante ricorso agli studiosi. Mi sembra che certi chiarimenti abbiano contribuito a influenzare il discorso mediatico circostante che, all’inizio, insisteva soprattutto sul lato reazionario, affrettato o anti-ecologico del movimento.

Ciò che sappiamo è che i «gilets jaunes» sono socialmente diversificati, anche se provengono soprattutto dai ceti popolari e dalle classi medio-basse. Questo movimento riguarda tutte le generazioni, e gli uomini come le donne. È politicamente molto eterogeneo e non è anti-ecologico, come si è detto.

Lei individua dei riferimenti storici per la comprensione di questo movimento?

È singolare. Ma è inedito, o nuovo? Diciamo che non corrisponde alle forme dell’espressione politica e della mobilitazione sociale in vigore dall’inizio del XX secolo. Ma questo non vuol dire che parta da zero. C’è sempre qualcosa, una risorsa, dei gesti, delle parole d’ordine a cui si fa riferimento più o meno consciamente, che possono venire da lontano. Questo «qualcosa» non è mai identico a se stesso. È trasformato a ogni suo impiego.

Si possono osservare dei riferimenti storici, in particolar modo la rivoluzione francese. Ma, come hanno sottolineato vari ricercatori, tra cui Samuel Hayat e Gérard Noiriel, il più pertinente è «l’economia morale della folla», espressione usata dallo storico britannico Edward Palmer Thompson. L’idea è la seguente: i moti contadini o urbani della fine del XVIII secolo, spontanei e locali, nel momento in cui distruggevano le case dei possidenti o i nascenti impianti tessili, non corrispondevano a un movimento di collera irrazionale, ma operavano in nome di un senso di giustizia e di buon diritto che ritenevano fosse stato violato dal potere e dalle autorità costituite.

Questa «economia morale della folla» sarebbe dunque una delle risorse della mobilitazione?

Sì. Il punto comune delle rivendicazioni è questo senso di giustizia. Non si tratta di un rifiuto della fiscalità ma di un sentimento di ingiustizia fiscale e dell’idea che sia stato infranto un patto tacito con il potere. Le parole usate dai «gilet jaunes» sono rivelatrici: si tratta di far valere la propria dignità, di ricordare che non si è inesistenti, di reclamare una vita «decente».

Ph: Stephane Mahe – Reuters

Siamo lontani dalle rivolte antifiscali d’estrema destra degli anni Trenta. E non c’è, come nelle rivoluzioni del XIX e del XX secolo, una domanda di emancipazione per tutti, o addirittura di cambiamento di regime. C’è una rivendicazione espressa in termini di giustizia e di morale, da cui deriva questa indeterminatezza e questa ampia mobilitazione. Questo movimento è allo stesso tempo locale e nazionale. Il riferimento comune, implicito, è forse l’idea di un patto legato alle politiche di protezione sociale messe in atto dopo la seconda guerra mondiale. È anche pienamente attuale e pertinente. Io formulo questa ipotesi: mentre l’economia morale delle folle rispondeva alle avanzate del liberalismo politico ed economico dell’inizio del XIX secolo (libero scambio e concorrenza da un lato, affermazione dell’individuo e delle libertà politiche dall’altro), il movimento dei «gilets jaunes» risponde al neoliberismo di questo inizio di XXI secolo, col prolungamento di alcune tendenze politiche ed economiche degli ultimi trenta anni. Si assisterebbe in qualche modo cioè all’emergenza di una «nuova economia morale».

Quali sono i nuovi termini di questo scontro?

Tutto ciò che il governo presenta come uno sforzo per «liberare le energie» o come un necessario adeguamento a una esigenza di bilancio è letto differentemente dai «gilets jaunes». Vi vedono una politica che favorisce i ricchi a detrimento dei più poveri. Una lettura confermata dagli ultimi rapporti degli economisti sull’ineguaglianza nel mondo, ma che allo stesso tempo si fonda su un vissuto: nella famosa «diagonal du vide»[ref]1. Con l’espressione «diagonal du vide» si identifica un’ampia porzione del territorio francese, compresa tra i dipartimenti Meuse e Landes in cui la densità abitativa è molto più bassa rispetto al resto della Francia.[/ref], si sente il problema posto dalla soppressione dei treni, le distanze da coprire per andare dal medico o anche per fare la spesa.

Questo movimento riflette un indebolimento fisico e psicologico che è anche la traccia dell’indebolimento della nostra democrazia. Da questo punto di vista, non è un caso che riguardi l’automobile: oltre alla questione monetaria, essenziale, ostacolare la mobilità torna ad accrescere le distanze, in senso geografico ma anche sociale e politico del termine.

Cosa intende con «indebolimento della democrazia»?

L’altro fenomeno da prendere in considerazione è proprio il logoramento delle istanze classiche di rappresentanza: i partiti, i sindacati, i media. Generalmente, in una democrazia rappresentativa e sociale come quella che si è sviluppata nel XX secolo, sono quelle che devono consentire di canalizzare e di esprimere la collera in termini politici e istituzionali, anche in forma scaglionata. Ora tutto questo non funziona. Ciò che il movimento mostra – da un lato, col rifiuto di essere recuperato, e dall’altro con l’imbarazzo dei sindacati e dei partiti che esitano tra seguire o meno il movimento – è un vuoto. È per questo che si rischia di avere un divario persistente tra la domanda (morale) dei «gilets jaunes» e la risposta (a priori tecnica e politica) del potere. Sono due mondi che si confrontano, lontani l’uno dall’altro.

Ph: Ulrich Lebeuf.

In questo senso, il movimento dei «gilets jaunes» ha luogo in una crisi profonda, che non è una crisi di governo, ma una crisi della società, di un modello sociale e politico che si è smantellato dopo molti decenni. Si aggiunga forse un altro elemento, sulla questione del futuro. Il principio dell’azione politica è fondato sull’idea di un controllo delle anticipazioni, sull’idea che si debba attendere un po’ e che dopo andrà meglio. Ma la crisi climatica e l’urgenza ecologica mettono a rischio questa promessa e questa domanda di pazienza. La crisi è anche una crisi del rapporto col tempo, davanti alla quale le istituzioni esistenti e le logiche di mercato sono inadeguate.

Quali esiti possiamo immaginare, tenuto conto delle molte rivendicazioni dei «gilets jaunes»?

Secondo me esiste una tendenza nazionale, che diviene, presso alcuni, nazionalista, anti-migranti. Altri desiderano soprattutto il ritorno a una forma di giustizia economica. Altri vogliono, sembra, diventare un partito. Altri ancora sono più sensibili alla dimensione democratica in atto: da una parte, con un’esigenza di democrazia più diretta, egualitaria, con l’idea della riappropriazione del potere dal basso; e, dall’altra, con l’emergenza della parola “cittadino”.

Cosa ne verrà? Ciò che è probabile è un ritorno all’ordine precedente. Ciò che è possibile è che questo movimento si prolunghi e che una delle sue tendenze si imponga e modifichi le regole del gioco. Ciò che è certo è che, anche se accade quel che è probabile, il problema di fondo resterà tale e dopo darà luogo a un’altra cosa. Soprattutto, perché questo fenomeno non è solo francese, anche se qui acquisisce una notevole autonomia. Queste espressioni di collera e queste domande di giustizia in forme spesso molto diverse rivelano una crisi profonda delle democrazie rappresentative e delle regole del gioco economico, oltre che i legami recisi tra le popolazioni e le élites.
Ecco la crisi di cui si parla tanto fin dagli anni Ottanta. Bisognerà imparare a risponderle. Prendendo finalmente sul serio il problema espresso in maniera tanto forte.

(traduzione di Raffaele Nencini)

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