La questione climatica è entrata prepotentemente nel dibattito pubblico italiano, in seguito alle continue emergenze ambientali ma grazie anche alla mobilitazione dei movimenti studenteschi che hanno abbracciato le rivendicazioni di #FridaysForFuture e Extinction rebellion. Per comprendere l’origine di questo movimento globale vi proponiamo la traduzione di un articolo di Sverker Sörlin, storico svedese autore di numerosi saggi di carattere scientifico e divulgativo sulla storia dell’ambiente e del clima. Buona parte di quello che leggerete era originariamente parte di un saggio pubblicato con il titolo ‘Carolyn Merchant and the Environmental Humanities in Scandinavia’ all’interno del volume collettivo ‘After the Death of Nature‘, a cura di Kenneth Worthy, Elizabeth Allison e Whitney A. Bauman (Routledge, 2019). In quel saggio, Sörlin si concentrava sulla ricezione dell’opera di Merchant in Scandinavia e il rapporto con la cultura ambientalista nord europea. L’articolo ripubblicato da noi spiega anche come la ribalta pubblica di Greta Thunberg può essere letta come l’ultimo fenomeno di una radicata tradizione di intersezione tra politiche ecologiste e protagonismo femminile nella vita pubblica svedese e scandinava.
Appunti per una storia dell’ambientalismo scandinavo
di Sverker Sörlin
Nell’agosto 2018 Greta Thunberg, fino a qualche anno prima una giovane studentessa tanto impegnata quanto sconosciuta, ha lanciato il primo degli scioperi studenteschi Fridays for future raggiungendo, in poco più di un anno, una visibilità mondiale. Questo successo è dovuto principalmente al suo carisma e alle solide conoscenze acquisite grazie a un grande interesse personale, anni di letture appassionate e di raccolta di dati, come si apprende dal libro pubblicato dai suoi genitori nel settembre 2018 (Ernman, Thunberg 2018). La cantante lirica di fama mondiale Malena Ernman, sua madre, e sul fronte domestico il papà Svante Thunberg, non nascondono, d’altronde, quanto abbiano appreso da loro figlia. Il libro si presenta come un racconto familiare su come l’impegno ambientalista s’intrecci alla malattia e allo stress. È la questione climatica a fare da filo d’Arianna, con i genitori che si rivolgo a Greta ogni volta che un fatto nuovo li colpisce, confidando nelle sue risposte sempre incredibilmente accurate.
Fin da quando è apparsa l’edizione originale in svedese, Greta ha iniziato a guadagnare una certa notorietà in Svezia, ma nei mesi successivi – prima con la conferenza COP24 a Katovice del dicembre 2018 e poi a gennaio in Germania e a Bruxelles – ha inizio il suo successo europeo, e da allora il movimento studentesco da lei avviato non fa che crescere. Rispondendo alle domande del «Dagens Nyheter», il più importante quotidiano svedese che mi ha intervistato lo scorso 25 gennaio, ho ipotizzato due spiegazioni a questa rapida ascesa.
La prima è che questa ascesa sensazionale coincide con il confliggere di due logiche politiche fra loro differenti. Da un lato vi è una politica di impellenti trasformazione per gestire la crisi climatica ed evitare che nei prossimi decenni in molti angoli del pianeta si aprano scenari pericolosi dal punto di vista ambientale e sociale. Dall’altro vi è invece una politica populista, che per alcuni aspetti è contraria alle misure necessarie per arrestare o mitigare la crisi – come ad es. la tassa sulle emissioni di carbone o l’aumento dei prezzi dei combustibili fossili – mentre per altri chiede una “transizione equa” in cui chi più inquina – quasi sempre i più ricchi, come individui e come stati – sia obbligato a farsi carico della propria quota di responsabilità senza scaricarla sulle fasce più svantaggiate. Credo che in risposta a queste logiche politiche si sia agito, ad oggi, con una buona dose di ipocrisia. I governi parlano, promettono di occuparsi di emissioni, ingiustizie, delle crescenti disuguaglianze, ma finora è stato fatto.
È a questo punto che Greta irrompe sulla scena e afferma che il re è nudo: “chi governa non mantiene le promesse, non porta a termine gli impegni”. Con arguzia riconduce il suo discorso a un messaggio molto chiaro: “prestate ascolto a quanto dice la scienza, senza tergiversare; finché non lo farete, non ci fideremo di voi”. In un momento carico di tensioni e difficoltà geopolitiche, il suo messaggio liquida d’un colpo ogni inutile chiacchiericcio. E dalla sua ci sono i fatti.
La mia seconda spiegazione – che non sono stato certo il primo né l’unico ad avanzare – deriva dall’accostamento alla figura di Giovanna d’Arco. Ho voluto sottolineare che Greta, come l’eroina medievale, è pronta al sacrificio e accetta il rischio, esponendosi a rivestire un ruolo storico cruciale, senza sapere esattamente dove la porterà. Proprio come Giovanna d’Arco, Greta è pronta ad andare fino in fondo a quella che considera la battaglia decisiva, le cui ragioni sono talmente importanti che non combattere sarebbe un tradimento, così come Giovanna considerava sacro cacciare gli inglesi dalla Francia. Anche Giovanna era giovane, e distaccata dai piaceri mondani, quando scelse testardamente di seguire la sua chiamata. Con questo non voglio sostenere che Greta abbia deciso di ispirarsi alla guerriera del XV secolo, ma solo evidenziare un parallelismo che credo sia piuttosto calzante per i “leader morali”, specialmente quelli in giovane età che traggono autorevolezza dalla capacità e la volontà di squarciare il velo di un mondo colmo di peccati e bugie, cioè di affermare la verità[ref] 1. Pia Gripenberg, Greta Thunberg går i täten för en generationsrevolt [Greta Thunberg heads a generational revolt], in «Dagens Nyheter», 25/01/2019, consultato il 12/11/2019 [archive].[/ref].
Greta ha le qualità giuste per sostenere la causa ed essere una leader carismatica. Tuttavia è anche importante considerare la domanda che riesce a intercettare. Il movimento e le iniziative sono destinate a proseguire e le tensioni sociali attorno alle questioni climatiche a crescere. Cosa si può aggiungere sul fatto che anche Greta sia originaria del nord Europa? È un fatto da più parti sottolineato, come la parentela da parte di padre con il premio Nobel del 1903 per la chimica Svante Arrhenius, che stimò – in maniera piuttosto accurata, come si è poi scoperto – il livello di riscaldamento globale a partire dal biossido di carbonio già nel 1896. Svante, il padre di Greta, deve a lui il suo nome.
Ancor più significativo è che la Svezia ha una forte tradizione nel considerare seriamente sia le questioni climatiche che quelle ambientali. In Svezia, i contemporanei di Arrhenius e gli scienziati delle successive generazioni mostrarono un forte interesse per il clima, vista la significativa influenza che l’era glaciale del quaternario ha avuto sulla formazione del paesaggio svedese, comprese le condizioni per l’agricoltura, la silvicoltura e l’allevamento. Nomi importanti del mondo scientifico che hanno influito sulle politiche sul clima, come Carl-Gustaf Rossby e Bert Bolin, erano svedesi e hanno a lungo lavorato a Stoccolma. Va poi sottolineato che le donne hanno sempre ricoperto ruoli di primo piano nelle lotte ambientali.
Anna Lindh, assassinata nel 2003 quando era ministro degli Esteri, è stata ministro dell’Ambiente negli anni Novanta, dopo aver ricoperto un ruolo di primo piano come giovane ambientalista nel Partito socialdemocratico. Fra molti partiti del panorama politico svedese è possibile riscontrare la presenza di donne ambientaliste fin dagli anni Sessanta. Alcune di queste persone hanno avuto carriere brillanti, in particolare nel Partito di centro, un tempo partito di riferimento degli agricoltori, noto per le forti posizioni antinucleari fin dai primi anni Settanta, e nel Partito della sinistra, fino al 1990 Partito comunista. Il Partito verde, fondato nel 1981, ha sempre avuto una buona parte della propria leadership costituita da donne e i suoi vertici erano organizzati sul principio del dualismo, con una donna e un uomo a ricoprire le massime cariche.
A tal proposito, Greta può essere considerate come l’ultima, e forse la più rilevante, espressione di una leadership emersa da una ricca tradizione di sensibilità alla questione climatica, di politiche ambientaliste e di public feminism.
Ambientalismo nordico. Una brevissima rassegna
Nel caso svedese, la storia ci può essere molto d’aiuto per spiegare quella che, a partire dagli anni Ottanta, potremmo definire “sostenibilità realista”. Il paradigma “strumentale”, che l’idea di sostenibilità ha cercato di raddrizzare, e forse addirittura mettere alla prova, ha avuto un lungo percorso di crescita e radicamento. Una storia di gioco politico ha guadagnato terreno già fra la fine del diciassettesimo e l’inizio del diciottesimo secolo, ben prima dell’idea di “rendimento sostenuto” che arrivò in Svezia, mutuata dagli stati tedeschi, nel diciannovesimo secolo (Frängsmyr, Heilbron, e Rider 1990; Johannisson 1988). Questa analisi vedeva la natura del potente Paese baltico come un ricco ed eccezionalmente privilegiato bacino di persone (intese come forza lavoro), vegetazione e fauna ed era presentata, in una forma allora inusuale, dalla botanica economica di Linneo, di stampo patriottico (Koerner 1999; Sörlin 1989). L’industrialismo del diciannovesimo e ventesimo secolo rafforzò questa tradizione, mettendo quindi sotto una luce patriottica la straordinaria ricchezza di risorse naturali della Svezia, risorse sulle quali costruire un nuovo e glorioso future (Sörlin 1988).
La sbandierata sensibilità per la natura del nord e la sua dimensione mitologica, che ha trovato ampia rappresententazione nelle arti, è stata costruita accanto, se non sopra, a una natura industrializzata. Fu la crescita dell’economica industriale, delle élite professionali e della classe media urbana con i suoi sempre più forti valori e la sua estetica nazionalista ad aver formato, nel primo decennio del ventesimo secolo, la base sociologica per il rispetto della natura e quindi per le politiche di tutela ambientale. Tuttavia, questi gruppi rimasero anche abbastanza ricettivi alle richieste dell’industria; mentre il rispetto della capacità produttiva del paese è stato spesso utilizzato come pretesto, anche da membri attivi dell’Associazione svedese per la conservazione della natura (fondata nel 1909), per sacrificare preziose foreste, cascate o acquitrini. La natura è stata terreno comune della nazione e colonna portante del benessere; in modo particolare nella periferia nord della Svezia che si estende fino oltre il Circolo articolo, dove la popolazione aborigena Sami ha subito continui arretramenti territoriali e giudiziari, a causa di un’industria in espansione che si è mossa verso nord per sfruttarne le foreste, i giacimenti di ferro, le torbiere, le cascate per l’elettricità e la terra per l’agricoltura (Lantto e Mörkenstam 2008; Sundin 1989).
In Norvegia un simile patriottismo ambientale si è nutrito delle risorse minerarie e marittime ed anche lì a scapito delle relazioni con la popolazione Sami in molte delle comunità del nord. Il nazionalismo norvegese ha di certo molte sfaccettature, ma come in Svezia le risorse naturali, specialmente quelle del nord e dell’Artico, hanno giocato un ruolo essenziale, custodendo la promessa di un futuro di benessere. Ciò divenne tanto più vero quando nel 1905 il paese decise di prendere la coraggiosa decisione di staccarsi dall’unione con la Svezia, raggiungendo la completa indipendenza per la prima volta, dopo essere stata parte della Danimarca sin dal Medioevo e legata alla Svezia per circa un secolo. La figura guida del nazionalismo e secessionismo norvegese, Fridtjof Nansen, è stata anche la perfetta incarnazione del “nazionalista ambientale” in quanto scienziato coinvolto nello studio della capacità economica delle risorse minerarie e marine del paese, autore, artista, politico e filantropo (vincitore del premio Nobel per la pace nel 1922), abile sciatore ed escursionista, articolando e rappresentando così tutti i tratti maschili di una dilagante stereotipizzazione del norvegese nel mondo.
L’ambientalismo norvegese, particolarmente forte tra gli anni Sessanta e Settanta, ha avuto una svolta molto più filosofica di quello svedese, grazie all’influenza di Arne Naess e la sua ecosofia (Brennan, Witoszek, e Naess 1999; Naess 1989; Rothenberg 1992)[ref]2. In Norvegia molti fra i colleghi filosofi di Naess, da Petter Weseel Zapffe a Sigmund Kvalöy, erano sensibili al tema. Di notevole influenza internazionale, specie negli Stati uniti, ebbe ben poco seguito in Danimarca o in Svezia, dove la filosofia accademica non divenne mai ecologista. Per certi versi, si può sostenere che la disciplina ricoprì in Norvegia il ruolo che in Svezia fu preso dalla storia o dalla geografia. [/ref]. Di origine benestante, Naess è stato membro della resistenza novergese contro l’occupazione tedesca e nel dopoguerra è diventato sia consulente politico, contribuendo a pensare l’assetto futuro delle scienze sociali in Norvegia, sia un apprezzato accademico, una celebrità mediatica e un alpinista. Con Naess a fare da timido, ma anche pungente emblema d’ispirazione gandhiana e spinoziana, la Norvegia è diventata la patria di un singolare ambientalismo accademico. Il contesto di formazione di Naess può essere rintracciato in una forte tradizione di ricerca sul campo e in un nazionalismo “dell’aria aperta”, popolare, sostenuto da un puritanesimo luterano, che fu presumibilmente persino più forte di quello della sua controparte svedese. Esattamente come in Svezia, la Norvegia ha avuto delle precorritrici. Hanna Resvoll-Holmsen (1873–1943) è stata probabilmente la prima ambientalista donna della Norvegia con un forte interesse nella biodiversità che è stato riscoperta all’alba del moderno ecofemminismo e dopo la pubblicazione di The Death of Nature: Women, Ecology, and the Scientific Revolution (Merchant 1980) (Aarsand 2014).
La Danimarca rappresenta un caso a sé. Le risorse naturali presenti sulla terraferma erano limitate alle piccole isole sabbiose e calcaree lungo il margine sudorientale del Mare del nord. Questo ha fatto sì che l’agricoltura fosse la principale attività economica. L’industrializzazione è stata contenuta, e basata su prodotti alimentari, design e artigianato, piuttosto che su risorse ed energia – fino a pochi anni fa, quando il paese è diventato un importante produttore di turbine eoliche. In una certa misura, la relativa scarsità di risorse della Danimarca è stata bilanciata dalle risorse presenti nel suo controllo dell’Atlantico del nord. Intorno alle Isole Faroe, all’Islanda e alla Groenlandia, la pesca e la caccia di foche e balene sono stati fonti importanti di commercio, con energia e minerali sempre più rilevanti dopo la Seconda guerra mondiale (Eichberg e Jespersen 1986).
Nella piccola Svezia, la questione ambientale è stata presente dagli anni Sessanta e Settanta. Rispetto ad altri paesi, la Svezia ha tentato precocemente e in maniera estensiva di legiferare su fenomeni come l’inquinamento prodotto dai veicoli, l’ambiente di lavoro, l’acidificazione e molte altre tematiche connesse all’ambiente e alla salute. La caratteristica più interessante della Svezia rispetto a questo tema potrebbe però essere la coesistenza relativamente pacifica dello stato con un ampio movimento ambientalista, parti del quale hanno avuto un forte sostegno pubblico e e catturato l’attenzione dei governi. Inoltre, la Svezia è stato uno dei primi paesi europei a conoscere la fondazione di un Partito verde nel 1981. Il partito entrò in parlamento nel 1988 e vi è rimasto per trent’anni[ref]3. Fatta eccezione per un triennio negli anni Novanta, quando non sono risuciti a superare la soglia di sbarramento del 4% alle elezioni nazionali.[/ref].
Anche se il ruolo dei paesi scandinavi come ambientalisti precoci e avanguardie dell’ecofemminismo è oggi scivolato in secondo piano, è importante tenere presente che il movimento delle donne ha vissuto una simile fioritura anticipata in tutti questi paesi. I diritti delle donne e le politiche familiari (come ad esempio congedi parentali generosi) erano probabilmente più istituzionalizzati in Svezia che in qualunque altro paese al mondo negli anni Ottanta. In quel periodo la posizione svedese – e scandinava – come leader dell’ambientalismo era sostanzialmente indiscussa, così come la sua reputazione in quanto crocevia di un femminismo istituzionale.
Bibliografia
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(La foto di copertina è di Martin eM)