Dopo la morte di Giampaolo Pansa, abbiamo rilanciato i contributi di analisi del pansismo e delle sue scorie di Nicoletta Bourbaki e di Ilenia Rossini.
A distanza di qualche giorno, e nel bel mezzo di due delle date del calendario civile italiano, rimettiamo in circolazione – per gentile concessione dell’autore – le riflessioni di Santo Peli pubblicate subito dopo l’uscita de “Il sangue dei vinti“.
Riflessioni sparse su un grande successo editoriale
di Santo Peli
[«Terra d’Este», n. 25, 2003]
1)
Accade a volta che libri di editori minori, o film scarsamente sostenuti da una campagna mediatica, vadano incontro ad un successo imprevedibile, dovuto ad un passa-parola, ad una sorta di contro-propaganda attivata dal basso. Pochi iniziali lettori o spettatori, quasi casuali, che lentamente mettono in circolazione entusiasmo, propaganda spicciola, come usa fra amici e complici nel gusto e negli interessi culturali. Il successo del libro di Pansa trae origine, invece, da tutt’altri meccanismi. Era già un successo, grazie al dibattito mediatico, prima di arrivare nelle librerie. Acquistarlo, parlarne, farsene un’opinione era divenuto urgente, inevitabile, anche per chi normalmente non si occupa di storia. Il fascino dell’operazione è consistito nel fatto che l’autore, chiaramente collocabile, come storico e come giornalista, a sinistra, dichiarava l’affascinante progetto di essere “politicamente scorretto”, di dire tutta la verità, nient’altro che la verità. «Il mio intento era di costruire un libro sereno. E di contribuire a spalancare una porta rimasta sbarrata per quasi sessant’anni» (p. X). Operazione, dunque, di equanimità verso i vinti, de-mitizzazione della Resistenza, scoperta che i feroci e i sadici erano dappertutto. Insomma, mostrare “l’altra faccia della medaglia”.
Che anche fra i partigiani, accanto a quelli che vi si trovarono per caso, e a quelli dediti al progetto di forgiare nuovi valori, vi fossero anche uomini eticamente e caratterialmente bacati, è indubitabile. Ma è la stessa definizione delle stragi post-liberazione come di un ovvio contraltare, come l’“altra faccia della Resistenza”, che andrebbe argomentata e discussa con ben altro rigore e volontà di problematizzare e distinguere. Le stragi post-liberazione non sono né il contraltare, né il risultato, diretto e automatico, della Resistenza, bensì il frutto dell’imbarbarimento indotto da cinque anni di guerra, e segnatamente da due anni di occupazione tedesca e di guerra civile. Quanti partigiani dell’ultima ora, quanti comuni e insospettabili cittadini prendono parte alla resa dei conti? Come distinguere la gestione politica dell’epurazione, che è interamente ascrivibile alla direzione della Resistenza organizzata, dal pullulare di vendette personali e sadismi, che dilagano soprattutto nei primi mesi dopo la liberazione al coperto di motivazioni ideologiche, ma che andrebbero interpretati soprattutto in chiave antropologica? Qui, nella possibilità di distinguere, di distinguere per comprendere, molto resta ancora da fare. In questa direzione, il lavoro di Pansa non fornisce alcun contributo utile.
2)
Ciò che i neofascisti Pisanò e Serena cercavano di sostenere nei decenni passati non trovava ascolto, se non in ambienti ristretti, perché fragilità di metodo e soprattutto la netta collocazione ideologica degli autori, fascisti e anticomunisti doc, ne rendeva fondatamente sospetta l’obiettività. All’opposto, il nome di Pansa, il suo passato di solido ricercatore dell’Istituto nazionale del movimento di liberazione in Italia, il rigore dei suoi studi resistenziali erano una garanzia di serietà e di rigore professionale.
Le succose anticipazioni fatte filtrare in interviste giornalistiche e televisive facevano intravvedere dunque un quadro truculento ma presumibilmente non preconcetto, da cui né la Resistenza né il partito comunista – principale protagonista sia della Resistenza sia, per Pansa, delle stragi successive – sarebbero potuti uscire indenni. Val la pena di porsi una domanda preliminare: bastano le circostanze politiche contingenti (governo di centro-destra, i “fascisti al governo”, ecc…) a dare conto della strepitosa e un po’ morbosa curiosità che circonda la riscoperta delle “violenze dei rossi”? Le circostanze di fase politica e culturale rappresentano certo il contesto ideale, che però, da solo, può favorire, ma non determinare, una accoglienza di pubblico tanto vasta quanto indiscriminata. La mia ipotesi è che le circostanze si intreccino con una certa e diffusa diffidenza, o alterità, o mancata accettazione del-la Resistenza, che non nasce oggi, né è in diretta dipendenza dalla crisi della prima Repubblica e dall’obsolescenza della democrazia e della costituzione scaturita dalla Resistenza. Questi elementi di fase sono degli acceleratori, dei moltiplicatori di antiche diffidenze, alterità, silenti prese di distanza che trovano finalmente un canale di sfogo, il terreno sul quale manifestarsi. L’impressione è che ab-biamo in parte rimosso, e certamente sottovalutato, quanto di minoritario, e di non condiviso, ha prodotto un’esperienza sanguinosa e drammatica come la guerra partigiana. La stessa affannosa distinzione ricorrente tra resistenti e terroristi, buoni e legali i primi, assassini i secondi, evidenzia quanto di non accettato e occultato vi sia nell’esperienza concreta della guerra partigiana, che in effetti ebbe – soprattutto all’inizio – nel terrorismo urbano un elemento importante di auto-affermazione attraverso la propaganda armata.
Il cuore della questione insomma è la mancata accettazione della natura irresolvibilmente drammatica, sanguinosa e contraddittoria della guerra partigiana, della “inespiabilità” della guerra civile, della inevitabilità dei suoi costi. Su questo nodo bisognerà ancora riflettere, per comprendere il successo delle ricorrenti riscoperte della illegalità diffusa e in molti casi sanguinaria che dilaga dopo la Resistenza. Il favore, lo scandalo che accompagna questo argomento è spesso un modo di fare i conti, ma trasversalmente, con una Resistenza decontestualizzata, sul cui conto vengono messe tutte le brutture, l’imbarbarimento, il venir meno della pietas, che caratterizzano, con molte altre novità di segno opposto, la società italiana alla fine dell’occupazione, dei bombardamenti, delle deportazioni. La guerra partigiana, non attaccata e ancora non attaccabile frontalmente, viene fusa, in un blocco indistinto, con tutto ciò che accade dopo.
Infine, sullo sfondo, del libro di Pansa ma anche di un diffuso inconscio collettivo, torna ad aleggiare un’inespressa domanda che non ha mai, nemmeno il 25 aprile del ‘45, cessato di arrovellare ampi settori dell’opinione pubblica: era proprio indispensabile, prendere le armi? e quanti arbitrii ha comportato, quella scelta? Quali e quanti costi “evitabili”? Il dopoguerra, “la resa dei conti”, l’illegalità diffusa e in parte accettata sono il terreno ideale per proiettare all’indietro – sulla Resistenza come scelta etica, come progetto di rottura delle tradizioni, delle istituzioni – , una diffidenza e una presa di distanza mai superata.
3)
Ciò non significa in nessun modo che l’argomento affrontato da Pansa sia secondario, o già sufficientemente analizzato. Ciò che è propagandisticamente efficace, e nella sostanza scarsamente sostenibile, è però che l’argomento scottante sia ora, per la prima volta, finalmente, affrontato senza remore. A dimostrazione della precaria attendibilità di queste affermazioni, che hanno primeggiato nella campagna mediatica di lancio del libro di Pansa, basta la constatazione che nulla di originale, di inedito, vi è nel libro, frutto di un collage di studi precedenti. Collage a volte frettoloso, ma in ogni caso reso possibile proprio dal fatto che questo scabroso tema di ricerca è già stato investigato con una certa ampiezza. Da almeno un ventennio, nessuno storico che si sia occupato di questi temi è stato colpito da anatema o accusato di lesa-resistenza, se ha fatto seriamente il suo lavoro.
La novità del libro consiste, e non è un progresso, nel modo in cui l’argomento viene affrontato, e nel tono impressionistico, più utile ad emozionare che a comprendere, che è la cifra stilistica della scrittura, altre volte incisiva ed accattivante, dell’ultimo Pansa. Il risultato è un continuo ondeggiamento fra la nausea, l’orrore del sangue e la constatazione della ferocia di “entrambi i campi”, come se la guerra civile fosse stata tutta una tremenda iattura, una cieca mattanza, invece che una conseguenza di una precisa scelta, compiuta dalla RSI, di schierare l’Italia dalla parte degli occupanti tedeschi e di dare la caccia ai renitenti alla leva, ormai divenuti “antiitaliani”. In ogni fenomeno storico, tenere ferme la cause prime è decisivo; in questo caso, la tragica “resa dei conti”, più che dimostrare l’ovvia verità che il carico di sangue della guerra civile è terribile e tralignante ogni previsione e raziocinio, dimostra quanto fosse “inespiabile” la scelta guerriera ed imperiale del regime fascista, e la caccia agli italiani attuata, con modalità spesso programmaticamente e non episodicamente sadiche, dalla Rsi e dai suoi alleati tedeschi.
4)
Gli esempi della frettolosa leggerezza metodologica che segna Il sangue dei vinti sono molto numerosi. Limitiamoci ad alcuni.
A p. 187 l’A. si rifà alla «minuziosa inchiesta di un ricercatore di destra, Antonio Serena, autore de I giorni di Caino… E’ una fonte di parte? Certo, come tutte le fonti. Ma non per questo, nel caso di Serena, meno credibile». Ma un libro, ovviamente, non è una fonte; è utile, oppure no, a seconda che abbia fatto criticamente uso delle fonti. Nulla di tutto ciò in Serena, né in Pansa, che scambia le affastellate affermazioni di Serena sulle stragi nel trevigiano per “minuziosa ricerca”, qualificata addirittura come fonte. Il problema non è se un ricercatore è di destra o di sinistra; un ricercatore è tale, oppure no, in base al metodo che usa, ai fini che si prefigge, alla controllabilità delle sue procedure. Non è il caso di Serena, che narra di una resistenza veneta avida di “abbuffate di cadaveri”, e di bande continuamente “assetate di sangue” (ma non sempre è così misurato). Poco rigoroso nel definire, e ancor più nel decidere l’affidabilità delle fonti, Pansa supplisce con ampie dosi di fantasia e di incontrollabili impressioni o sensazioni.
«E’ dura da immaginare questa scena interminabile: il buio, le grida, i pianti, il crepitare delle armi, l’eccitazione dei giustizieri, il sangue» (p. 201). E’ evidente che nulla positivamente Pansa sa (e nemmeno le sue fonti, anche quelle che più indulgono al grand-guignol) rispetto allo stato di eccitazione dei giustizieri: che fossero eccitati, è possibile, oppure no; qualcuno forse sì, altri disperati, che ne sappiamo? Pansa dichiara di non sapere nemmeno a che ora si svolgono gli avvenimenti. Ma quell’eccitazione, puramente immaginata, si stratifica nella memoria del lettore, e contiene un implicito e pesantissimo giudizio etico che si espande, mefitico, sull’insieme dei partigiani comunisti, con un effetto probabilmente ridondante anche rispetto alle intenzioni dell’autore.
5)
Com’è organizzata la materia del libro? Quali i criteri che motivano il percorso immaginato dall’A. da Torino al Nord-est? Quali i criteri interpretativi di fondo? Quali i tentativi di mettere in relazione violenza, Resistenza, storia dei decenni precedenti, condizioni politiche, economiche e sociali, con i tassi – variabilissimi – di violenza e di illegalità diffusa nel ‘45-’46?
Su tutte queste decisive questioni il libro procede a tentoni, accumulando ricerche e pubblicazioni sui morti della Rsi (nelle quali spesso è impossibile distinguere i morti post-liberazione da quelli del ‘43-’45), integrandole, per necessità e conclamata scelta di “par condicio”, con ricerche di “storici di sinistra”. Frequente la regressione al “si dice”, all’antico “narrant” di Livio, che ci consegna integralmente alla nostra buona volontà di credere, e all’affidabilità del narratore: «Qualcuno sostiene che ci fu un intervento pesante del vertice del Pci…di questo intervento lei non ha nessuna prova» (p. 160); ma intanto sono stati narrati fatti di enorme peso, emessi giudizi politici, valutate circostanze e personalità. Ancora, su questo decisivo modo di disseminare emozioni e ribrezzi: «Ho sentito di fascisti scaraventati vivi nei forni delle acciaierie… L’ho sentito dire anch’io. Ma non sono mai stati trovati prove o testimoni credibili»; subito dopo però si narra del commissario prefettizio di Genova, di cui «si disse che l’avevano gettato vivo in un forno di Sestri Ponente». Pansa, naturalmente, non ci dice da parte di chi “si disse”; ma il racconto, particolareggiato, è destinato, per il fatto stesso di es-sere stato narrato, a restare, nella memoria e nelle emozioni. E così via accumulando.
6)
Se la posta in gioco è quella di lasciare indelebili tracce emotive nel lettore, fa bene Pansa a privilegiare, più che l’analisi delle biografie e dei comportamenti delle vittime durante la guerra civile, i loro ultimi istanti, l’atteggiamento davanti alla morte: «In che modo si comportarono i 15 di Dongo?» Perché l’estetica della morte è un fatto di grande rilievo? a cosa serve? a sottolineare, ancora e ancora dall’inizio del libro, che erano anche loro uomini? L’assunto, che non merita ricerche ponderose, andrebbe comprensibilmente argomentato e ribadito e centinaia di volte esemplificato solo se fossi-mo rimasti alle ricostruzioni retoriche centrate sulla categoria meta-storica delle “belve nazi-fasciste”. Ma direi che siamo molto oltre, da almeno quarant’anni, grazie a una vasta messe di studi, compresi quelli, rigorosi, e ormai lontani, di Giampaolo Pansa. A che pro, dunque, le ricorrenti attenzioni, la minuziosa e iterata messa in scena dell’ “ultima sigaretta”, dello “sguardo melanconico”, o “sereno”, o “sobrio”, del morituro?
«Solaro morì bene, con lo sguardo rivolto al cielo, sul viso un’espressione indecifrabile. La definirei tra il sereno e il rassegnato, ma capisco di addentrarmi su un terreno che non mi spetta» (pp. 98-99). Ma intanto, si è addentrato, e ha lasciato una bella traccia: una vita vista dalla morte. Il fatto è che, anche secondo lo stesso Pansa, Solaro, federale di Torino, probabilmente rimase fino alla fine in città per «non abbandonare i franchi tiratori fascisti, decisi ad ingaggiare l’ultima battaglia in città» (p. 95) durante la quale (p.102) «un po’ di morti li causarono» . “L’ultima battaglia”? un “po’ di morti”? Perché non raccontare, con stile emozionante come quello riservato al federale, cos’è, una battaglia di franchi tiratori, che sparano su chiunque si muova, donne uomini o bambini? Anche il fatto che Solaro fosse stato condannato dal tribunale di guerra dell’8 zona piemontese, non è dettaglio trascurabile, a meno che si adotti il metodo di mescolare continuamente esecuzioni sommarie e sentenze legalmente emanate, linciaggi popolari ed esecuzioni formalmente ineccepibili. Il federale Solaro, condannato all’impiccagione da un decreto del Cln, del 29 aprile, quando era vivo, potrebbe, secondo Pansa, essere stato ingiustamente impiccato, invece che fucilato secondo la procedura normale: «sembra che quel decreto sia stato emesso il 30 aprile, soltanto dopo l’impiccagione di Solaro. Per dare una legittimità alla sua macabra fine» (p. 99). Ma che significa, sul piano dell’informazione, se non su quello della ricerca scientifica, quel “sembra”? E’ verbo potente, che getta luce di illegittimità sull’operato del Cln. Sembra a chi, sulla scorta di quale fonte, ricerca, testimonianza?
Stessa tecnica con i franchi tiratori torinesi: «erano 2000 o 200? Penso che fossero 200, forse di meno». In base a che Pansa pensa a duecento, e non a duemila? non lo sapremo mai, nessun rinvio bibliografico o documentale sorregge quel “penso”. Gerarchi fascisti giudicati regolarmente e persone barbaramente linciate da una folla accecata, amministratori e torturatori, le vittime dei giorni dell’ira sono affastellati in una categoria onnicomprensiva, sterile quanto di grande potenza emozionale: come morirono? “Bene, direi”.
Io avanzo l’ipotesi che ciò sia direttamente funzionale, ed indispensabile, a catturare l’attenzione, e soprattutto a far scattare un coinvolgimento emotivo che investe e recupera l’intiera soggettività della vittima. Anche se, nella sostanza, sarebbe stato di ben altro interesse, in questa riscoperta dell’ “anche loro erano uomini”, ragionare, più che sulla fierezza o dignità degli ultimi istanti, sul sistema di valori, e sulle conseguenze di quei valori, fattisi scelte operative. La soggettività è un campo affascinante, a lungo trascurato, suscettibile di notevoli e spiazzanti scoperte, ma se viene enfatizzata quasi esclusivamente dal buco della serratura degli ultimi istanti fatali, apre ben misere e poco innovative potenzialità di comprensione. Non è questa, mi pare, l’altra faccia della medaglia cui lo stesso Pansa sembra aspirare. «Mi sono occupato degli uni, ora mi occupo degli altri». Ma qui egli si occupa esclusivamente della “soggettività” dei trucidati giunti alla soglia fatale; quando può, ce li mostra uno per uno, lo sguardo al cielo, il grido “viva l’Italia”, l’ultima sigaretta, “fucilatemi al petto”. Stessa procedura già seguita nel precedente, e altrettanto fortunato, “I figli dell’aquila”. L’assunto, implicito, è: non erano tutti assassini, c’era chi ci credeva, chi era in buona fede. Ma la domanda centrale, fede in che cosa, è radicalmente evasa. Fede nella patria? in Mussolini, nello stato, nell’onore, nell’anticomunismo, nell’avventura? Non erano queste le fedi che avevano portato l’Italia al punto di massima sofferenza, e a caricarsi della responsabilità di otto anni di guerre di conquista, il cui merito principale era di aver disseminato lutti spaventosi dall’Etiopia alla Russia prima, e in patria poi? Che tipo di assoluzione storica viene a rappresentare, la “buona fede”? e perché mai la “buona fede” dovrebbe coincidere con una “fede buona”? Se una fede nei sacri valori della patria induce a massacrare civili, a guidare e favorire le stragi tedesche, a torturare, a collaborare alla caccia agli ebrei, a impiccare e esporre i cadaveri dei renitenti, quale rilievo storico ha che un franco tiratore o un caccia-tore di partigiani abbia gridato, nel momento supremo, “viva l’Italia”, o che sul suo volto aleggiasse un sorriso sereno? Franchi tiratori e cacciatori di partigiani vennero eliminati, né di meglio gli sarebbe capitato sotto altri cieli. O non erano loro che, in cima ai propri valori estetici e morali, mettevano la “bella morte”, da andare “a cercare”? Compito dello storico è dire tutto, tutto ciò che è vero? o tutto ciò che è rilevante ai fini della comprensione di un problema storico? Che rileva, il fatto che il condannato alzi gli occhi al cielo, oppure che li chiuda, che abbia uno sguardo sereno o corrusco? E, se si ritiene che questi siano elementi altamente significanti, da quali fonti vengono prelevati, e come vengono verificati?
7)
E quei giovanetti di buona fede e di buona famiglia, i Mazzantini e i Vivarelli, i “ragazzi di Salò”, la parte ingenua, colta e generosa del volontariato neofascista che è diventata il simbolo del “volontariato neofascista sorretto da valori rispettabili”, non avevano mai notato i banchi lasciati vuoti intorno a loro, dal 1938, dagli ebrei cacciati dalle scuole del regno? Che patria decisero di difendere, che senso dell’onore avevano? Non c’è biografia di “ragazzo di Salò” dove il problema degli ebrei sia sfiorato, se non per ribadire “non ne sapevamo nulla”. Eppure, ancor più durante la guerra civile alla quale presero onorevolmente parte, la stampa saloina, i muri delle città italiane rigurgitavano di di-scorsi sulla razza, e dei provvedimenti contro gli ebrei. Gli stava bene combattere, incontrare, cercare la bella morte per quei valori? Non mi pare produttivo di senso e di comprensione accantonare le ragioni per cui si entrò nella guerra civile, stabilendo che il giudizio di valore va dato sulla “buona fede”, o sull”idealismo”. Anche Hitler era un idealista, nessuno più di lui radicalmente idealista e in buona fede.
8)
«Lo storico non deve tacere gli orrori, ma una storiografia per orrori non può che generare confusionismo e stralunamento» (A. Macchioro, in un’intervista pubblicata in Il pensiero economico italiano, X, 2002/1, p. 104).