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Il tempo della rigenerazione. La Calabria tra mali antichi e regole da riscrivere

Prima che esplodesse l’emergenza sanitaria legata al Sars-Cov-2, avevamo deciso di avviare su queste pagine una riflessione sulle realtà regionali italiane. Le scadenze elettorali del 2020 avrebbero interessato infatti un gran numero di Regioni. Dopo Emilia-Romagna e Calabria, sarebbe toccato a Valle d’Aosta, Veneto, Liguria, Marche, Toscana, Campania e Puglia. Considerate le enormi differenze che a livello economico e sociale si riscontrano tra questi territori, ci sembrava utile raccontarli attraverso una serie di interventi focalizzati sui nodi critici e sulla loro storia recente. Che le elezioni si tengano o meno, che le regioni che andremo a raccontare siano o meno interessate dalla scadenza, pensiamo che sia comunque un buon modo di raccontare i conflitti in giro per l’Italia. Iniziamo dunque con la Calabria, raccontata da Claudio Dionesalvi, attivista, ultras e tra le Voci di Tifo, il n. 48 di «Zapruder».

di Claudio Dionesalvi

In Calabria tra febbraio e maggio è tempo di rigenerazione. Come in tutte le terre legate da sempre a pastorizia e agricoltura, nei piccoli centri si rinnovano antiche consuetudini propiziatorie. Si eseguono riti, giochi, cerimonie per ingraziarsi la natura. Fuochi circondati da persone al tramonto, statue di santi trainate in processione da devoti mascherati, liturgie pagane di alberi sospinti a braccia, otri del buon vino nuovo offerte ai viandanti. Quest’auspicio di rinascita non contamina la dimensione della politica. Alla straripante vittoria del centrodestra nelle elezioni regionali del gennaio scorso si contrappone il significativo dato dell’astensionismo: il 56 per cento dei Calabresi aventi diritto non è andato a votare. Sarà il riflesso di una rinuncia a porre domande, prima ancora che della scarsa capacità di fornire risposte e soluzioni ai mali atavici di questa terra?

È arcinoto che la più profonda di tutte le piaghe sociali è provocata dall’assenza di reddito e lavoro. In alcune aree la metà della popolazione attiva è disoccupata o inoccupata. Le radici storiche di questa condizione affondano nel passato più o meno remoto. Anche volendo aggirare i deliri neoborbonici, è difficile negare che la missione coloniale sabauda al sud abbia impoverito il Mezzogiorno. Autorevoli studi storici lo attestano[ref]1. N. Zitara (2015), L’invenzione del Mezzogiorno. Una storia finanziaria, Jaca Book, Milano.[/ref]. Nei decenni successivi all’unificazione italiana, tra la seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX, in Calabria il latifondo ha vissuto alterne vicende. È stato in parte frammentato dalle varie forme di proprietà che si sono affermate, riportato in vita dal fascismo nel ventennio, insidiato dalle lotte contadine nel secondo dopoguerra ma di fatto protetto dalla repressione che seguì, attuata dallo Stato e dalle ‘ndrine, alleati in funzione del nuovo governo dei territori. La grande proprietà parassitaria si è reimposta, drenando i fondi pubblici erogati dall’esecutivo centrale e gestiti dalle consorterie politiche locali a proprio vantaggio. Uno sviluppo industriale non c’è mai stato, a prescindere dai progetti chimerici vaneggiati dal blocco dominante a fini di propaganda. E nelle limitatissime zone in cui l’industrialismo ha attecchito, l’impatto ambientale è stato devastante. Emblematici i casi della produzione metallurgica e chimica di Crotone, del tessile nell’alto Tirreno cosentino e dello Jonio reggino[ref]2. O. Greco (2012), Lo sviluppo senza gioia. Eventi storici e mutamenti sociali nella Calabria contemporanea, Rubbettino, Soveria Mannelli.[/ref]. In quest’ultimo contesto, gli scheletri di attività industriali abortite sul nascere testimoniano l’abnorme entità della speculazione. Sballottata tra avventurieri, aguzzini e mestieranti progettisti, la forza lavoro disponibile si è trovata schiacciata dal dilemma se restare e soffrire o lasciarsi trasportare dall’esodo migratorio. Di recente il collettivo Fem.In di Cosenza ha affisso in giro per la città il seguente annuncio:

Cercasi. Per orario di 14 ore giornaliere – da lunedì alla domenica. Requisiti: bell’aspetto, non avere figli, non richiedere permessi per malattia, non chiedere ferie. Non è richiesta esperienza. Le mansioni da svolgere sono a totale discrezione del titolare. Non è previsto contratto di lavoro. Per maggiori informazioni chiamare al numero **********. Ps se ci hai creduto è perché le offerte di lavoro che vengono offerte alle donne spesso sono molto simili a questa.

In poche ore, le attiviste si sono rese conto che purtroppo non c’è più spazio per l’ironia: la provocazione è stata presa sul serio: il loro telefono ha ricevuto numerose chiamate di donne che in assoluta serietà sarebbero state disposte ad accettare le condizioni imposte dal datore di lavoro. D’altronde sono frequenti le storie di donne licenziate o trasferite a scopo deterrente, subito dopo aver partorito. È stata Sara Guerriero la prima a rompere l’omertoso silenzio regnante intorno a queste vicende. Nel 2017, dopo sei anni di servizio, a pochi giorni dall’aver dato alla luce una bambina, Sara è stata estromessa dal posto di lavoro. La multinazionale di cui era dipendente, ha deciso che non le serviva più. Però l’azienda non s’aspettava che la pubblica denuncia attuata da Sara, formalizzata anche nelle aule giudiziarie, facesse il giro del Paese, riscuotendo tanta solidarietà, ma pure qualche meschino Potevi accettare il trasferimento a 350 chilometri da casa tua. Oggi Sara è disoccupata, in attesa dell’ultimo pronunciamento di un tribunale. Ma ritiene che il suo gesto di ribellione sia servito.

Con la mia vicenda – spiega – in azienda si è finalmente interrotta quella spirale abominevole matrimonio – figlio – licenziamento o dimissioni forzate. Tante colleghe hanno preso coscienza che esiste la possibilità concreta di alzare la testa di fronte a un’ingiustizia, e negli ultimi tre anni diverse ragazze sono diventate mamme e hanno mantenuto il posto di lavoro[ref]3. Tutte le interviste qui riportate sono state rilasciate all’autore tra il 20 e il 29 febbraio 2020.[/ref].

Per le donne come per gli uomini, la rescissione di un contratto rappresenta l’anticamera della precarietà perpetua. Gli ultracinquantenni sono costretti a tornare sotto il tetto dei propri vecchi genitori. In tanti rinunciano a richiedere il reddito di cittadinanza perché sganciandosi dalla famiglia d’origine, le 700 euro mensili non basterebbero a coprire il costo di un affitto e i mezzi di sussistenza. Concepito negli anni settanta per liberare il tempo e le energie umane dalla schiavitù del lavoro salariato, dai 5stelle il reddito di cittadinanza è stato addomesticato e riconvertito in una misura per alleviare la povertà, far girare l’economia, sostenere i consumi. In Calabria sono circa 70.000 le famiglie destinatarie dell’assegno, per un totale approssimativo di 140.000 persone che hanno ottenuto i benefici del sussidio. I neoliberisti renziani e salviniani propongono il dirottamento di questi fondi nelle casse delle stesse imprese che con il sistema di agevolazioni e incentivi previsti dai patti territoriali, dalla legge 488 e dal jobs act già di risorse pubbliche hanno usufruito in abbondanza, senza costrutto, badando per lo più all’accaparramento parassitario. Dal canto suo, chi predica la necessità di far lavorare le persone inserite negli ammortizzatori sociali, finge di non conoscere la vicenda dei cosiddetti percettori di mobilità in deroga: 4.500 disoccupati di lunga durata, impiegati nei tirocini formativi: quattro ore giornaliere di lavoro per 500 euro al mese, negli uffici comunali e provinciali, nelle scuole come addetti alle pulizie o presso i privati che ne hanno fatto richiesta:

Ho lavorato come educatrice nelle strutture di Cosenza, dal 1996 al 2013, quindi per 17 anni. Successivamente – spiega Stefania Mazzei – in seguito al licenziamento collettivo, dovuto al mancato rinnovo della gara d’appalto, sono diventata percettrice di mobilità in deroga. Non nutro nessuna speranza di essere stabilizzata, anzi i tirocini mi sembrano solo una limitazione al mio reinserimento nel mondo del lavoro.

Saracena, festa di San Leone (ph: Franco Gagliard)

La precarietà è aggravata dall’insicurezza di potersi curare in caso di malattia e accedere ai più elementari servizi. Le inchieste svolte dalla testata online iacchite.blog, la campagna Stutamuli tutti lanciata dai comitati che si battono per il diritto alla salute, gli innumerevoli documenti di denuncia prodotti dal sindacato Usb calabrese sulla malasanità nella regione, rivelano come il sistema sanitario sia stato costruito per dare posti di lavoro a infermieri e medici al servizio di questo o quel politico. Negli ultimi due decenni gli ospedali e ambulatori pubblici inoltre sono stati depredati dai padroncini della sanità privata e dai loro complici annidati nelle aziende ospedaliere e sanitarie. Nessuno dei partecipanti all’ultima tornata elettorale ha spiegato come vorrebbe risollevare la penosa situazione in cui versano le casse della sanità calabrese. Non c’è stato il minimo riferimento alla necessità di azzerare il debito. Tra i tanti giovani calabresi in fuga per motivi di lavoro e qualità della vita, c’è anche qualche storia in controtendenza, come quella di Vittoria Morrone:

Un anno fa mi sono trasferita in Calabria. Sono quella che scherzosamente viene definita una migrante al contrario, che da una grande città del nord Italia è emigrata al sud. Qui la più drammatica delle crisi è quella sanitaria: qualsiasi presidio pubblico non ha personale e macchinari sufficienti. Ricordo durante quest’anno il caso di Santina, morta dissanguata di parto all’Ospedale di Cetraro, per mancanza di una trasfusione che le avrebbe salvato la vita[ref]4. Antonio Palma, Santina muore a 35 anni dopo il parto in ospedale a Cetraro, i risultati dell’autopsia, in «Fanpage.it», 21 luglio 2019. [/ref]. Immagino le difficoltà nel rivolgersi ai servizi di salute mentale, estremamente carenti, dove le famiglie vengono lasciate sole a gestire persone con necessità particolarmente urgenti e specifiche. Oggi, di fronte alla possibilità di costruire la mia vita qui, ho paura.

Come la sanità, anche i rifiuti hanno avuto a lungo una gestione commissariale. I cumuli di immondizia, accatastati qua e là, deturpano il paesaggio ameno. Quindici anni di gestione commissariale, costati un miliardo di euro, non sono serviti a niente. Numerosi comitati ambientalisti si oppongono a nuove discariche e inceneritori, provando anche ad avanzare proposte concrete. Alcuni sindaci vorrebbero localizzare un ecodistretto nel nord della Calabria[ref]5. Un ecodistretto è un sistema integrato di trattamento, recupero e valorizzazione, in cui è possibile gestire lo smaltimento dei rifiuti mirando a massimizzare il loro riutilizzo e riciclo, minimizzando i costi. Purtroppo, se tale strumento è adottato in maniera scorretta, come spesso accade, l’area in cui è attivo si tramuta in una gigantesca discarica a cielo aperto.[/ref]. Sono bastati il primo cittadino e quattro consiglieri comunali di maggioranza, per la messa a disposizione di un’area del territorio di Morano Calabro, paese in cui risiedo, ai confini con uno dei parchi nazionali più grandi d’Italia e con presenza di specie protette rare e autoctone:

Qui – denuncia Imma Grazioso, attivista per la difesa dei beni comuni – vorrebbero allocare l’ecodistretto dell’Ato 1[ref]6. L’Ambito territoriale omogeneo, o Ato, è un territorio sul quale sono organizzati servizi pubblici integrati, principalmente quelli relativi alla rete idrica e alla raccolta, al conferimento e allo smaltimento dei rifiuti.[/ref]. Abbiamo lanciato una petizione online e una mobilitazione popolare per evitare che l’impianto venisse realizzato. È nato un comitato civico per il no all’ecodistretto. Il problema della gestione dei rifiuti solidi urbani si potrebbe risolvere solo attuando riciclo, riuso e riutilizzo per arrivare ad una quantità minima di residuo, tale da non aver più bisogno di mega impianti impattanti. Sarebbe necessaria una tariffazione premiante per i cittadini più virtuosi. Inoltre, in molte zone potrebbe funzionare il compostaggio domestico, di quartiere o comunale.

Incuria e assenza di servizi contribuiscono ad accelerare lo spopolamento dei centri abbandonati, vera piaga sociale di una regione da cui sono emigrate intere generazioni. Un contributo decisivo potrebbe arrivare anche dalla galassia universitaria calabrese, ma i legami con la restante società stentano a materializzarsi. Mariafrancesca D’Agostino è ricercatrice presso il dipartimento di Sociologia dell’università della Calabria:

In questi anni, gli scambi avuti con i burocrati regionali sono stati densi e continuativi. In moltissime occasioni, io e il gruppo con il quale collaboro, siamo stati chiamati a partecipare alla scrittura delle politiche regionali sull’inclusione sociale, e a implementare quelle esistenti attraverso azioni di capacity building finalizzate alla formazione degli amministratori locali nelle materie di cui ci occupiamo (migrazioni, welfare abitativo, dispersione scolastica). Il problema che si è posto non è tanto dovuto all’assenza di raccordo. Piuttosto ci siamo scontrati con un sistema di governance delle politiche complesso e farraginoso, che di fatto richiede la nostra partecipazione per legittimarsi e recuperare credibilità, ma che poi la svuota di senso in mancanza di una reale volontà politica di dare sostegno ai nuovi bisogni e alle fasce più vulnerabili della società calabrese.

Negli ultimi dieci anni a Cosenza si è imposto un agguerrito movimento per il diritto alla casa. Oltre a conquistare diversi immobili oggi abitati da centinaia di persone, nel giugno 2019 il comitato Prendocasa ha ottenuto l’approvazione di una legge regionale per l’autorecupero del patrimonio immobiliare pubblico:

La Regione, le province, la Città metropolitana di Reggio Calabria, i comuni, l’azienda territoriale per l’edilizia residenziale pubblica regionale, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza e gli altri enti pubblici possono adottare programmi di recupero di immobili di loro proprietà, ubicati nel territorio della regione Calabria, destinati a finalità diverse da quelle di edilizia residenziale pubblica, inutilizzati o comunque in avanzato stato di degrado, con priorità per gli immobili ubicati nei centri storici, al fine di assegnarli, per l’esecuzione di interventi di recupero, a organizzazioni di autorecupero e di concedere in locazione con contratto a uso abitativo ai soci di dette organizzazioni le unità immobiliari risultanti dagli interventi medesimi.

Cosenza, i lavori per la metro leggera. Il cantiere è attualmente fermo (ph: Franco Gagliard)

Ma la legge è stata impugnata dalla presidenza del Consiglio dei ministri di fronte alla Consulta, perché a parere del governo centrale il testo supera le competenze legislative regionali.

Mentre ciò che resta dello stato-nazione ingaggia scenografici duelli con le sue propaggini territoriali, la speculazione immobiliare e l’emigrazione desertificano i quartieri e intere porzioni di entroterra. Lo spopolamento delle campagne e l’incuria da parte degli enti preposti rendono insicuro il territorio, sbriciolato dal dissesto idrogeologico[ref]7. Alessandra Corrado, Mariafrancesca D’Agostino, I migranti nelle aree interne. Il caso della Calabria, in «Agriregionieuropa», n. 45, giugno 2016. [/ref]. Alberto Ziparo, calabrese di nascita, mantiene un legame forte con la propria terra ed è docente di Pianificazione urbanistica a Firenze:

La Calabria è stanca di sentire politici che promettono grandi opere, mega-infrastrutture. No. Bisogna partire dal territorio – spiega Ziparo –, come produzione di beni immateriali. Centrali sono la bonifica delle zone contaminate e la prevenzione del dissesto idrogeologico. È assente qualsiasi idea di programmazione nella politica istituzionale, perché manca un minimo di buon senso. Ora dobbiamo forse sperare nel nuovo assessore, Sergio De Caprio, soprannominato il capitano Ultimo, quello che ha catturato Riina? Con tutta la stima verso questi personaggi, compresa la docente di Fisica di fama mondiale, Sandra Savaglio, che si dovrà occupare di istruzione e ricerca in Calabria, invece di lanciare operazioni di grande impatto mediatico, dovrebbero studiare, capire, analizzare i luoghi su cui intervengono. Ma non lo fa nessuno. In Calabria l’unica innovazione scientifica, oltre che politica, è quella che viene dai comitati, dai territori.

C’è infine la questione che tutti agitano quando pronunciano la parola Calabria. Un po’ parafulmini, un po’ spaventapasseri, la ‘ndrangheta ha radici millenarie, affiorò nel periodo di sospensione del potere politico, tra l’esodo bizantino e la penetrazione normanna per colmare il vuoto creato dall’assenza di governo[ref]8. C. Dionesalvi, ‘ndrangheta, potere del non-governo, «il manifesto», 18 agosto 2011.[/ref]. Nei secoli successivi ha vissuto fasi alterne di crepuscolo ed emersione, fino a costituirsi in lobby criminale mescolata alle consorterie borghesi e accumulare la ricchezza necessaria per sguazzare nel mare acido del capitalismo. Solo in circostanze rare ha rivelato anche un volto antisistema. Nel secondo dopoguerra la mafia è divenuta organo esecutivo e paramilitare dello stato già sabaudo e fascista, nel contrasto delle insorgenze sociali e dei movimenti in lotta per l’occupazione delle terre e l’esercizio dei beni comuni. La presunta e teatrale guerra nei suoi confronti, spesso condotta su basi etniche dalle procure antimafia e dai Bonafede di turno, non ha fatto altro che alimentarne l’arroganza, gonfiandola in autorevolezza criminale, compattando il suo apparato militare e mitizzando i boss. Il 41bis, la confisca dei beni poi riassegnati a soggetti spesso di dubbia onestà morale, il commissariamento dei Comuni, sono dispositivi che irrobustiscono i legami comunitari tra gli adepti delle ‘ndrine. E le migliaia di familiari e persone più o meno legate all’economia prodotta dalla ‘ndrangheta, si ritrovano nel vicolo cieco di un’esistenza incatenata alla sorte dei clan di appartenenza. Donatella è una donna calabrese, l’unica sua colpa è quella di essersi innamorata di un uomo condannato per il nome che porta più che per reati commessi:

Spesso – racconta Donatella – nei reati associativi, il famigerato 416 bis, non è necessario uccidere qualcuno, chiedere la tangente o trafficare carichi di morte, basta essere cugino, fratello, nipote, parente di qualche pezzo grosso per ritrovarti con una condanna per associazione a delinquere di stampo ‘ndranghetistico. E così è stato per mio marito, Giovanni, da 27 anni in carcere, con una condanna all’ergastolo, senza sapere il perché.

E così è andata anche per Santa, madre di Donatella. Oggi Santa si trova in carcere con una pesante condanna per associazione a delinquere di stampo ‘ndranghetistico perché, secondo la procura, verosimilmente avrebbe garantito la latitanza a casa propria del genero Giovanni.

In Calabria – spiega Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha – le garanzie processuali non sempre valgono. È una logica che spesso risiede nel sotteso tentativo di colpire negli affetti la persona indiziata o già condannata per indurla a collaborare con la giustizia, accelerando così l’iter investigativo. La consanguineità, se serve, può diventare un crimine.

Dinanzi al carattere pervasivo e disciplinante di un sistema fondato su equilibri consolidati, l’unica possibilità di riscatto non risiede nell’auspicio di un maggiore rispetto delle regole, bensì in una loro radicale riscrittura che sarebbe possibile solo a seguito di una rivolta sociale e politica. Nella storia di questa terra le insorgenze non mancano. La speranza è che si rifacciano vive.

(In copertina: Tirreno cosentino, mareggiata ed erosione costiera – ph: Franco Gagliard)

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