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Doveva (ac)cadere?

In questi giorni c’è chi ha parlato della necessità di «contestualizzare», principalmente in riferimento alle azioni di un violentatore, fascista e colonialista italiano. Contestualizziamo, allora: l’abbattimento di statue e simboli del colonialismo che sta prendendo piede in questi giorni si inserisce in un più ampio piano storico e politico di messa in discussione della storia e della memoria dell’imperialismo europeo.

A proposito delle statue e dell’urgenza di decolonizzare l’Europa

di Valeria Deplano

Le proteste organizzate dal movimento Black Lives Matter negli Stati uniti, in seguito all’ennesimo assassinio di un afroamericano – George Floyd – da parte delle forze dell’ordine, hanno portato all’accelerazione del processo, già iniziato da qualche anno, di rimozione di diverse statue e monumenti. Innanzitutto statue di confederati, innalzate per ricordare quell’America che durante la guerra civile lottò anche per difendere il sistema schiavista; per poi arrivare alle statue di Cristoforo Colombo, visto come il simbolo di una storia che culminò nello sterminio delle popolazioni native americane.

Quando le proteste hanno varcato l’oceano le statue hanno iniziato a cadere anche in Europa: sì è iniziato con Edward Colston, trafficante di schiavi del XVII secolo, la cui statua è stata abbattuta e gettata nelle acque del porto di Bristol. L’attenzione dei manifestanti si è poi spostata dallo schiavismo dell’età moderna all’imperialismo di quella contemporanea. Il 9 giugno 2020 è toccato alla statua di Leopoldo II ad Anversa, nel distretto di Ekeren: l’effige del sovrano belga che volle l’occupazione del Congo, inizialmente proprietà privata dello stesso re e teatro di una crudele gestione coloniale, è stata prima data alle fiamme dai manifestanti, poi rimossa dalla municipalità e spostata per il momento nei depositi del museo locale. Nel momento in cui scrivo sembra traballare anche la statua di Cecil Rhodes, esposta sulla facciata di Oriel College di Oxford che dà sulla strada principale, High Street. Rhodes è un uomo simbolo del colonialismo britannico: fu il primo governatore della Colonia del Capo ma soprattutto il proprietario e fondatore delle De Beers, l’azienda mineraria che grazie al sistema di sfruttamento coloniale alla fine dell’800 deteneva la totalità della produzione di diamanti della regione. Rhodes finanziò personalmente l’espansione britannica nell’area, organizzando anche un esercito privato, tanto che le due colonie della Rhodesia del Nord e della Rhodesia del Sud (gli attuali Zambia e Zimbabwe) furono denominate in questo modo in suo onore. L’onda della contestazione ha poi coinvolto le effigi di personaggi che siamo abituati a collegare a una storia diversa da quella colonialista e imperialista: ad esempio Winston Churchill, che tutti studiamo a scuola come colui che vinse la guerra contro Hitler, ma che – ricorda chi lo contesta – fu anche un fiero difensore del diritto degli inglesi di sottomettere e uccidere le popolazioni colonizzate (non in termini generali, ma con discorsi e ordini precisi); o Indro Montanelli, considerato uno dei più grandi giornalisti italiani ma che quando era in vita ha più volte raccontato e rivendicato che durante il suo periodo di permanenza in Eritrea egli ebbe come “madama” (moglie secondo un tipo di contratto ideato dai colonizzatori italiani[ref]1. Sorgoni, B. (1998), Parole e corpi, Liguori, Napoli.[/ref]) una bambina eritrea di dodici anni, ai rapporti sessuali con la quale lui dedicò anche alcune sconcertanti affermazioni. Montanelli inoltre, facendosi forte della sua posizione di “testimone”, a lungo negò pubblicamente che gli italiani avessero usato l’iprite in Etiopia, innescando – per poi uscirne perdente – una lunga polemica con lo storico Angelo Del Boca che dell’uso dei gas aveva trovato le prove.

Colton, Leopoldo, Rhodes, Churchill, Montanelli, e come loro tanti altri, ebbero vite e ruoli differenti, ma hanno iniziato a traballare assieme sui loro piedistalli poiché individuati da diversi movimenti come simboli di un’Europa che condivide una storia di razzismo, sfruttamento, sopraffazione, colonialismo; una storia con cui il continente non ha ancora fatto i conti. Sia detto almeno per inciso che, se le statue cadono contemporaneamente sulle due sponde dell’Atlantico e se le parole d’ordine generali sono uguali (le vite nere contano), i riferimenti storici e il contesto sociale su cui i movimenti stanno agendo non coincidono, e per questo in gran parte diversi sono i simboli che prima sono stati celebrati e ora vengono contestati. In Europa, appunto, sono personaggi responsabili della tratta schiavista e soprattutto personaggi che hanno avuto un ruolo in quel fenomeno tutto europeo che è l’imperialismo otto-novecentesco.

Cape Town, 9 aprile 2015

Questo spiega anche perché, se sono stati i fatti statunitensi e la loro eco mondiale a dare le ultime spallate alle statue, è da tempo che queste sono nel mirino di movimenti che ne richiedono la rimozione, promuovendo al contempo una riflessione critica non solo sul passato europeo ma anche del suo presente. Robert Aldrich ricorda come i monumenti legati al colonialismo sono oggetto di contestazioni, in Europa, fin dagli anni settanta[ref]2. Aldrich R. (2012), Commemorating Colonialism in a Post-Colonial World, «E-Rea», 10.1.[/ref]: era proprio il 1970 quando a Parigi fu fatta saltare la statua che commemorava di Jean-Baptist Marchand, il generale che comandava le truppe francesi in occasione dell’”incidente di Fashoda”. Restando ad anni più recenti, bisogna ricordare la campagna ‘Rhodes must fall’, iniziata nel 2015 in Sud Africa e sbarcata poco dopo in Gran Bretagna, in entrambi i casi finalizzata alla rimozione delle statue di Cecil Rhodes in due campus universitari. Quella della Cape Town University, da dove la protesta partì, fu effettivamente rimossa nello stesso aprile del 2015, con l’approvazione dello stesso ateneo e del governo sudafricano per il quale «It marks a significant […] shift where the country deals with its ugly past in a positive and constructive way». Invece, come detto, la statua che campeggia all’ingresso di un college di una delle università più antiche e autorevoli d’Europa è ancora là: nel 2016 i finanziatori del college minacciarono di ritirare i fondi delle borse di studio se il College avesse ceduto alle richieste di rimozione da parte del movimento degli studenti. Anche Leopoldo II è stato contestato sia in Africa che in Europa. A Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, la sua statua è stata rimossa una prima volta nel 2005 e poi una seconda volta, in maniera definitiva, subito dopo essere stata reinstallata. In Belgio i monumenti dedicati al monarca sono stati contestati o ricoperti di vernice rossa – a simboleggiare il sangue che macchia l’operato del sovrano – in diverse sedi e in diversi momenti: nel 2004 a Oostendie, nel 2008 a Bruxelles, ad Anversa a più riprese negli anni, anche se prima del 9 giugno non si era giunti ad alcuna rimozione. Pure Churchill, per quanto possa sembrare strano, non si è trovato nell’occhio del ciclone per colpa del movimento Blm, ma già nel 2007 la sua statua a Westminster era stata raggiunta da lanci di vernice rossa. Nel suo piccolo, anche l’Italia è stata recentemente parte di questa critica alla monumentalizzazione del passato coloniale e del suo portato razzista e sessista: la statua di Indro Montanelli eretta a Milano è stata coperta di vernice rosa in occasione di una manifestazione organizzata dal movimento Non Una Di Meno, l’8 marzo 2019.

Proprio a margine di questo episodio, tra gli articoli pubblicati dalla stampa nei giorni successivi uno, di Luca Telese, condannava il gesto perché «l’Africa e il mondo degli anni trenta erano molto diversi da quello di oggi: era il democratico ad essere minoranza». Anche in questi giorni l’abbattimento delle statue ha ricevuto critiche dello stesso tenore: sarebbero azioni dettate da una lettura del passato attraverso le categorie del presente, e mirerebbero a cancellare la storia.

Ma è davvero la storia, la posta in gioco?

Di che cosa parliamo quando parliamo di statue e colonialismo

Partiamo dal presupposto che la storia, intesa come ricostruzione dei fatti del passato sulla base di documenti e fonti, racconta ormai in maniera molto più complessa le vicende e il ruolo dei personaggi evocati in precedenza. Se si entra in una buona libreria si ha la possibilità di venire a conoscenza della particolare crudeltà del sistema coloniale belga; del rapporto complesso di Churchill col mondo islamico; della violenza razzista e sessista intrinseca al colonialismo italiano, dello sfruttamento delle risorse e delle persone da parte dei britannici in Africa meridionale, o dello schiavismo. Solo per citare un esempio, certamente non l’unico, all’University College di Londra la storica Catherine Hall sta da alcuni anni ricostruendo le storie delle famiglie britanniche che si sono arricchite trafficando uomini. Questo per dire che la storia che molti difendono sui giornali in questi giorni, di fatto già non esiste più, o almeno non esiste nella forma semplicistica che viene proposta: esiste invece una storia più complessa e articolata, ed esistono anche tante storie che si soffermano da prospettive diverse su fatti, eventi e personaggi che si vorrebbero invece unici e univoci. Il problema inizia qua, e riguarda dunque non tanto i fatti, ma il modo con cui quei fatti sono e ricordati e rappresentati, e la funzione che quella memoria ha nel presente.

Le statue, come i monumenti commemorativi, o la toponomastica, non sono infatti “la storia”, ma uno strumento attraverso cui specifici personaggi o eventi storici, accuratamente selezionati, vengono celebrati; nella maggior parte dei casi – non sempre – sono le istituzioni, in particolare quelle statali, a scegliere chi o che cosa sia degno di essere ricordato e celebrato. Si tratta di un’operazione centrale per la costruzione di una narrativa nazionale funzionale alla visione del potere stesso: il modo con cui si sceglie di ricordare il passato e di celebrarlo infatti influisce sul modo con cui gli individui e le comunità guardano il mondo, sé stessi e gli altri.  Questo vale ovunque, e in qualunque epoca.

Milano, 9 marzo 2019

Nello specifico di un contesto imperialista, come quello entro cui si sono mossi e hanno agito gran parte degli stati dell’Europa occidentale tra otto e novecento, la monumentalizzazione svolge questa funzione in una duplice direzione. Da un lato, in colonia, i monumenti che costellano il paesaggio sono i simboli del potere europeo: sottolineano l’occupazione e la trasformazione delle terre colonizzate, nella prospettiva di educare gli abitanti a ripensare sé stessi, la propria storia e il proprio futuro da un punto di vista subordinato. Dall’altro lato, in Europa, i monumenti introducono gli eventi coloniali come pietre miliari della storia nazionale, favoriscono l’identificazione con i leader coloniali e contribuiscono a diffondere i valori colonialisti: a partire dalla convinzione di superiorità e del diritto europeo a esercitare il proprio potere sugli africani e sugli asiatici. Insieme al sistema educativo, alle celebrazioni, al discorso dei mass-media la monumentalizzazione dell’imperialismo diventa, insomma, parte integrante del processo di nation-building, al quale contribuisce veicolando nuovi valori o consolidandone di esistenti.

È questo, il secondo nodo della questione. Non le statue in sé, ma le idee di mondo, le gerarchie, i valori che anche le statue hanno contribuito a consolidare, essendo nate per celebrare e ricordare i personaggi che in qualche modo li difesero e li alimentarono. E il fatto che gli stessi valori, idee di mondo, gerarchie non siano stati messi in discussione con la decolonizzazione ma al contrario continuino a sostenere le narrazioni nazionali. In Francia, Italia, Belgio, Regno unito, Portogallo, Paesi Bassi, come è stato più volte messo in evidenza, le narrazioni nazionali hanno continuato a proporre un’immagine positiva degli imperi, che ne ometteva violenza, sfruttamento e razzismo[ref]3. Ad esempio cfr. Del Boca A. (1992), L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte, Laterza, Roma; Goddeeris I. (2015), Postcolonial Belgium, «Interventions», 17:3, 434-451; Thompson A. (2005), The Empire strikes back? The impact of imperialism on Britain from the Mid-Nineteenth Century, Pearson Education, London; Blanchard P. e Bancel N. (eds) (2006), Culture post-coloniale (1961-2006): Traces et memoires coloniales en France, Editions Autrement, Paris.[/ref]. È stato così possibile elaborare la narrativa degli italiani brava gente, che ha raccontato e continua a raccontare di un improbabile colonialismo dal volto umano in cui i coloni sono migranti e in cui non esistono i massacri di massa o gli stupri; o dare forma a quella narrazione opposta ma complementare che in Gran Bretagna lega tuttora l’autorappresentazione nazionale a un orgoglio imperialista che ancora fa capolino in vari discorsi pubblici – molti anche nei giorni della Brexit. Le cose non vanno meglio se si guarda all’Unione europea. È del 2015 un report realizzato dalla commissione Educazione e cultura del parlamento europeo a proposito proprio delle politiche della memoria portate avanti dall’UE, in cui si diceva che le scelte sino ad allora portate avanti «escludono temi cruciali come il colonialismo» («leaves out other crucial issues such as colonialism»). Eppure, come si legge più avanti, «sostanzialmente tutti gli stati europei hanno storie che sono state plasmate da e sono strettamente connesse con l’imperialismo e il colonialismo». Nel sottolineare le mancanze e le incoerenze delle politiche della memoria quello stesso studio si proponeva di stimolare la consapevolezza storica «che fornisce le basi per rapportarsi in maniera più sicura non solo col passato d’Europa, ma anche col suo presente e il suo futuro».

E questo è il terzo nodo: non si tratta solo del rapporto col passato, dunque, ma del modo con cui la memoria influenza ancora oggi il modo con cui gli europei guardano sé stessi e il proprio rapporto con gli altri: influenza quindi il concetto di nazione, di cittadinanza, le politiche migratorie, le dinamiche interne alle società. Nel suo lavoro Europe after Empire Elizabeth Buettner racconta ad esempio come gli inglesi, gli olandesi, i portoghesi, i francesi hanno tutti avuto difficoltà, dal dopoguerra in poi, ad accettare come cittadini e cittadine gli uomini e le donne che dopo il 1945 iniziarono ad arrivare dalle loro ex colonie, dopo che li avevano considerati propri sudditi; e come ebbero difficoltà a superare quelle gerarchie di colore che la cultura coloniale e razzista aveva inculcato loro e che infatti si ritrovano, in diversi modi, replicate nelle società contemporanee.

Non solo le statue ma tutta l’Europa – come soggetto comunitario e come singoli stati – è rimasta là, rifiutandosi a lungo di affrontare un percorso critico sul proprio passato, e invece continuando a celebrarlo dopo il crollo degli imperi.

Bristol, 7 giugno 2020

Ma mentre i paesaggi urbani continuavano a celebrare gli stessi personaggi, mentre le narrative nazionali restavano uguali a sé stesse, l’Europa cambiava. È diventata multiculturale, portatrice di storie complesse e irriducibili a quella narrazione autoconsolatoria che fa coincidere l’Europa con la bianchezza e la bianchezza con la civiltà. Ed è qua che molte statue sono diventate terreno di disputa: da una parte della popolazione sono viste come il simbolo di valori mai discussi e celebrati acriticamente nel tempo, per colpa dei quali milioni di persone in Europa sono private di alcuni diritti formali e/o sostanziali; mentre per un’altra parte della popolazione ripropongono una narrazione consolatoria in cui ci si riconosce e si vuole riconoscere, perché smettere di farlo significherebbe mettere in discussione sé stessi e i proprio punti di riferimento.

Si tratta di un’operazione molto meno eccezionale di come possa apparirci oggi leggendo i giornali: per loro natura le memorie sono costruzioni sociali che possono essere e sono messe in discussione e ricostruite. Succede di continuo, e non è neanche troppo raro che questo cambiamento porti con sé l’abbattimento di monumenti ed effigi. Il quando e il come – oltre che la possibilità di riuscita – dipendono dalla capacità di mobilitazione dei gruppi sociali che reclamano il mutamento, e dall’urgenza che il cambiamento di una specifica narrazione ha assunto in uno specifico contesto. Evidentemente la composizione sociale e i rapporti di forza della società attuale hanno reso urgente quel cambiamento di narrazione che è mancato per troppi decenni.

Che fare dei monumenti?

Questo non vuol dire che per forza tutte le statue debbano fare la fine di quella di Colston. A molte delle persone che in questi giorni hanno difeso le statue in nome della storia servirà sapere che molti storici e molte storiche negli anni hanno riflettuto su questa spinosa questione dell’abbattimento dei monumenti, coloniali e no, in Europa e altrove.

Al centro della riflessione è sì la scomparsa della storia, ma non nel senso di una intoccabilità delle statue e delle narrazioni che esse hanno continuato imperterrite a consolidare, lasciate a sé stesse nelle piazze del mondo. Le questioni sono piuttosto altre, ed esempio la necessità che qualunque operazione aumenti la comprensione della realtà e non la diminuisca (come ad esempio potrebbe accadere se si porta troppo in là il paragone tra Churchill e Colston); oppure l’effettiva efficacia di un’azione di rimozione che, se può avere un’eco nel momento in cui viene compiuta, poi porta ad amplificare il silenzio attorno a temi e questioni sulle quali, invece, è urgente riflettere. Le proposte in questo senso sono tante: una delle più avvalorate è quella della risignificazione, che di recente è stato anche uno strumento adottato da alcuni movimenti. Il monumento o la statua o la scritta rimangono, ma sono affiancati da un apparato che non permetta loro di continuare a celebrare i valori per cui erano stati costruiti, ma che invece ne sveli la storia di sopruso e ineguaglianza di cui essi sono il simbolo. L’altro strumento è la compensazione, quindi l’erezione di monumenti e statue che ricordino da un’altra prospettiva le vicende fino ad allora celebrate: statue dedicate alle vittime, oppure a quelle tante persone che si opposero alle pratiche dominanti, per ricordare che anche in una società razzista si può scegliere di essere antirazzisti. In Gran Bretagna, ad esempio, si sta completando in questi giorni La raccolta fondi per collocare a Islington una statua dedicata a Sylvia Pankhurst, scrittrice, attivista femminista che si mobilitò strenuamente contro l’occupazione fascista in Etiopia, e che nessuno in Italia ha mai pensato invece di commemorare.  Un’altra opzione, di cui ha scritto la storica Jill Strauss, prevede invece di sfruttare il vuoto delle statue rimosse lasciando che sia sottolineato dai piedistalli, in modo da sollecitare una riflessione sulla soluzione di continuità tra presente e passato[ref]4. Strauss J. (2020), Contested Site or Reclaimed Space? Re-membering but Not Honoring the Past on the Empty Pedestal, «History & Memory», 32 (1), pp. 131-151[/ref].

Le strategie per confrontarsi con il passato possono essere tante, insomma, ma l’obiettivo comune è quello di creare una discontinuità nel modo con cui l’Europa si è raccontata e si racconta. Il che non vuol dire cancellare la storia, ma al contrario approfondirla e conoscerla meglio, e fare in modo che sia approfondita e conosciuta meglio da un numero crescente di persone. Un’operazione che, però, può riuscire soltanto se si contempla la possibilità che non tanto le statue, ma le conoscenze che diamo per assodate possano essere fatte scendere dal piedistallo e sottoposte a critica. 

(In copertina: Boston, 10 giugno 2020)

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