Il numero 52 di «Zapruder», di prossima uscita, si occupa di conflittualità legate ai linguaggi: segni, parole, immagini, note musicali sono solo alcuni degli elementi presi in esame. Viviamo immersi in un mondo ricco di modalità di espressione diverse la cui comprensione ci permette di accedere o meno ad alcuni ambiti sociali. Uno degli esempi più evidenti è la relazione che si ha con la lingua del luogo in cui ci si trova a vivere durante un percorso migratorio. Quando si arriva in un nuovo paese, magari molto diverso da quello di provenienza, spesso ci si sente spiazzati e sopraffatti dalle novità. Di solito si cerca di imparare il prima possibile a destreggiarsi con la lingua del posto per cercare di gestire con sicurezza e autonomia almeno le attività lavorative, economiche e sociali. Bisogna però imparare anche a capire i gesti, le espressioni, i modi di dire e di fare dei parlanti con cui entriamo in contatto e a volte, anche dopo anni di permanenza, si ha l’impressione di non arrivare mai a un buon livello. Il rischio di non capirsi o di rimanere senza parole rimane concreto e può impedire che l’interazione fra le persone sia soddisfacente. C’è però anche chi si trova talmente bene nella nuova lingua che la fa sua e la usa per esprimersi quotidianamente in diversi ambiti e con grande abilità. Da diversi anni il tema dell’insegnamento dell’italiano come lingua seconda (cioè acquisita sul posto in cui viene parlata da chi è madrelingua) è emerso sia nelle esperienze delle singole persone sia nella legislazione. Fra i primi a rendersi conto del problema ci sono state diverse realtà del Terzo settore che ancora oggi se ne occupano offrendo dei corsi di lingua e altre forme di aiuto. Ne parliamo con Augusto Venanzetti, responsabile della scuola di italiano della Casa dei diritti sociali di Roma ed ex coordinatore della rete Scuolemigranti di Roma e del Lazio.
La Casa dei diritti sociali e la rete Scuolemigranti a Roma
di Alessandro Stoppoloni
Come hai iniziato a occuparti dell’insegnamento dell’italiano come lingua seconda?
In passato ho svolto attività sindacale nella Cgil dove mi sono trovato anche a dirigere un centro di formazione per sindacalisti. L’interesse verso i migranti però è nato negli ultimi anni: dopo due mandati come segretario nazionale di un settore abbastanza garantito come quello dell’energia, sono andato in pensione e ho pensato di rendermi utile con le fasce di popolazione più deboli e “in povertà di diritti”, come gli immigrati. La stessa Cgil mi aveva proposto di occuparmene, ma ha voluto cambiare completamente esperienza e così sono approdato alla Casa dei diritti sociali. Ho imparato il metodo della scuola “sul campo”, anche perché il modo di insegnare è molto particolare, visto che non esistono delle classi “fisse” e si producono molte attività interculturali.
Qual è la particolarità di questo metodo?
A Roma ci sono circa settanta associazioni che offrono dei corsi di italiano gratuiti ai migranti e generalmente si formano classi fisse che seguono un corso che ha una determinata tempistica. Questo sistema ha alcuni inconvenienti: chi partecipa fa fatica a essere ingabbiato in giorni e orari e questo va a scapito della frequenza. Come Casa dei diritti sociali abbiamo fatto una scelta diversa: ci sono quattro orari giornalieri per lezioni della durata di un’ora e mezza e abbiamo diviso il sillabo del corso di livello A1 in tre sub-livelli (base, intermedio e avanzato); per ogni orario si formano questi tre gruppi classe e la frequenza è libera. Il corso non ha una durata e le lezioni si svolgono tutto l’anno ininterrottamente, facilitando enormemente la frequenza e permettendo a ciascuno di personalizzare la propria partecipazione. È un metodo che si è rivelato gradito ed efficace e la riprova è la frequentazione di oltre 1500 studenti l’anno che arrivano con il passa-parola.I tre sub-livelli sono differenziati in base agli elementi morfosintattici, ai quali si arriva però attraverso un approccio comunicativo: partiamo sempre da un’immagine, da un filmato o da una canzone. Questa articolazione fa sì che, ogni giorno e a qualunque orario, ci sia sempre una lezione per chi è appena arrivato e ha bisogno di iniziare con l’alfabeto, la pronuncia, la fonetica. Gli studenti si spostano poi autonomamente da un sub-livello all’altro.
Da quanto tempo la Casa dei diritti sociali si occupa di migranti?
Dalla fondazione, avvenuta intorno alla metà degli anni ottanta, quando il flusso migratorio è diventato più consistente. Il volontariato si è subito dato da fare allestendo mense e dormitori, ma ci si è accorti che occorreva attivarsi anche per insegnare l’italiano: la scuola pubblica non era assolutamente in grado di affrontare il problema, esistevano solo pochi corsi serali; peraltro questo processo di adeguamento è stato lungo: i Centri territoriali permanenti (Ctp) sono stati istituiti nel 1997, mentre il volontariato aveva iniziato i primi corsi 12-13 anni prima, accumulando molta esperienza.
La casa propone attività che vanno anche oltre l’aspetto strettamente linguistico, mettendo anche in discussione il concetto di integrazione come viene di solito proposto. Puoi spiegarci meglio qual è la vostra idea?
A noi non piace la parola integrazione, finiamo per usarla solo perché nel gergo giornalistico rischiamo di non capirci. La parola più corretta sarebbe “interazione” perché integrazione evoca il concetto di adeguamento di una cultura a un’altra. Noi pensiamo che non debba essere così: è proprio da questa mescola di culture, di linguaggi, di codici etici e comportamentali che devono nascere sempre nuove identità collettive. Dobbiamo cambiare tutti insieme, non c’è qualcuno che deve adattarsi al nostro standard e alla nostra etica. Noi partiamo da qui. Operiamo per favorire l’inserimento sociale, sebbene in Italia non ci sia mai stato un piano serio di accoglienza: c’è una sequela di leggi e provvedimenti, dettati sempre dall’emergenza, che finiscono – come la Bossi-Fini – per creare artificiosamente nuovi irregolari. Né c’è mai stato un organico piano di inclusione sociale.
Il nostro sportello informativo si occupa di migranti ma anche di italiani che si trovano in una condizione svantaggiata. Si danno informazioni per fare fronte alle necessità di base e sulle procedure burocratiche, si dà assistenza legale gratuita, c’è anche un ambulatorio con un medico generico, una ginecologa e una psicologa che offrono una prima accoglienza e operiamo anche per far capire che, pure se non si è in regola, si può godere dell’assistenza sanitaria. Ci occupiamo anche di tratta e di prostituzione, tentando di offrire un sostegno diretto, non solo ai migranti. La scuola si occupa di adulti e offriamo anche corsi per chi è analfabeta nella lingua madre o non conosce l’alfabeto latino. Interveniamo però anche sui minori, facendo sostegno linguistico nelle scuole dell’obbligo. I minori appena arrivati si iscrivono a scuola ma ovviamente non conoscono la lingua; l’istituto dovrebbe supportarli con corsi ad hoc o doposcuola (come dicono le Linee guida ministeriali), ma questo spesso non succede e i dirigenti scolastici chiamano il volontariato: noi interveniamo durante il normale orario scolastico sia in termini di sostegno linguistico che di supporto sulle materie disciplinari.
Avete anche dei mediatori culturali?
Abbiamo in servizio nello sportello informativo mediatori linguistici e mediatori culturali. Per mediatore linguistico si intende una persona che abbia come lingua madre una lingua altra rispetto all’italiano, ma anche conoscenza delle più comuni lingue veicolari. I mediatori culturali hanno invece competenze – preziose – per facilitare il rapporto sia con il singolo che con le comunità straniere.
Nel 1994 Alexander Langer scrisse un decalogo di convivenza inter-etnica [ref]Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica ora in Id., Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, a cura di Edi Rabini e di Adriano Sofri, Palermo, Sellerio, 2015, pp. 417-428[/ref]. Nel quinto punto del decalogo sosteneva l’utilità di sfumare il più possibile le differenze fra i diversi gruppi etnici presenti sul territorio e auspicava l’aumento di soggetti che fossero in grado di spostarsi fra i diversi gruppi, permettendo «una certa osmosi fra comunità diverse e riferimento plurimo da parte di soggetti “di confine”» in modo da creare delle “zone grigie” poco definite ed evitare il più possibile l’inquadramento degli individui in un gruppo o in un altro. Prima abbiamo parlato della differenza fra integrazione e interazione, vorrei quindi chiederti se a Roma negli ultimi anni ci sono mai stati dei tentativi di propiziare la nascita di queste figure-ponte.
Ci sono state iniziative riconducibili a questo aspetto, ma non sono mai state organizzate sistematicamente. Per esempio, dopo la fondazione della rete Scuolemigranti il centro islamico di Roma ci ha chiesto di effettuare dei corsi nei locali della grande moschea: abbiamo messo insieme una “task force” tra le associazioni e un gruppo di insegnanti ha iniziato le lezioni di italiano. In parallelo c’erano dei corsi di arabo organizzati dalla moschea: la circolazione delle informazioni che ne è scaturita ha prodotto l’arrivo di nuovi studenti sia per la lingua araba che per l’italiano. Alcuni volontari poi si sono staccati dalle associazioni di provenienza e hanno fondato una autonoma scuola del Centro islamico che a quel punto è entrata nella rete Scuolemigranti. Succedono cose del genere, ma non c’è mai stato un coordinamento istituzionale in questo senso; servirebbe un salto in avanti che non s’è mai realizzato.
Roma non è una città che si può definire razzista, ma certo non è accogliente. Molte comunità straniere finiscono per chiudersi in sé stesse e per riprodurre i propri modelli culturali. La cosa in sé non è negativa, ma può lasciare spazio a pratiche deleterie – fortunatamente limitate – come le mutilazioni genitali femminili. Molte nostre studentesse vengono dal Corno d’Africa, dove queste pratiche sono diffuse, e noi cerchiamo di creare le condizioni per affrontare con loro questo tema, offrendo un sostegno alle ragazze e alle famiglie. Ma questo rientra in un quadro più ampio di iniziative interculturali che portiamo avanti da sempre, in una dimensione di scambio reciproco.
Prima hai menzionato brevemente la rete Scuolemigranti. Scorrendo la lista delle scuole appartenenti salta subito all’occhio l’eterogeneità dei membri. Vorrei quindi chiederti come vi è venuto in mente di creare una realtà di questo tipo e come siete riusciti a mettere insieme realtà tanto diverse.
L’idea di creare la rete è venuta in mente a me nel 2007: in quel periodo era molto difficile trovare informazioni sui corsi di italiano, anche sul web. Sono andato personalmente a cercare le adesioni, proponendo di incontrarci per capire se si potevano fare delle cose insieme. Al primo incontro hanno partecipato undici associazioni: le grandi cattoliche, ma anche una rappresentanza delle chiese protestanti, nonché alcune laiche tra le quali anche uno spazio sociale. Da quel primo incontro nacque l’idea di costituire un gruppo di lavoro con lo scopo di scrivere un documento condiviso e dare vita a una rete. Non è stato semplicissimo: le associazioni si erano create una propria nicchia, dalla quale erano riluttanti a uscire. Ci volle un anno e mezzo per superare alcune diffidenze, poi ha prevalso la volontà di mettere le esperienze a fattor comune e di cercare di dialogare con le istituzioni con una sola voce. La rete è nata formalmente il 20 aprile del 2009, sotto l’egida del Centro servizi per il volontariato del Lazio, e la partenza è stata davvero buona: in breve tempo siamo riusciti a farci conoscere e a instaurare buoni rapporti con diverse istituzioni come il Ministero dell’interno, il Consiglio territoriale per l’emigrazione, la Regione, la Provincia di Roma. Si riuscì anche ad avere un ottimo rapporto con l’Ufficio scolastico regionale. Fra il 2010 e il 2011 uscirono i primi decreti che imponevano la conoscenza dell’italiano per accedere ai titoli di soggiorno: provvedimenti che ebbero l’effetto di produrre una forte pressione sui corsi di italiano e così per i Ctp si poneva l’esigenza di allargare l’offerta formativa.
Venne quindi stabilita un’intesa tra l’Ufficio scolastico regionale e la Rete Scuolemigranti, una collaborazione preziosa che ha consentito di affrontare le tante richieste di corsi di quel periodo. La Rete è poi cresciuta rapidamente, superando le cento associazioni affiliate alle quali ha fornito continue opportunità di formazione e di crescita.
Dopo 5-6 anni sono mutate molte cose, la pressione sui corsi è diminuita, i Ctp sono stati aggregati nei Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (Cpia), sono cambiati molti dirigenti e quella collaborazione è venuta meno. C’è stata poi una progressiva caduta di rapporti – non certo per volontà della rete – a livello istituzionale, che permane ancora oggi. Si potrebbero fare diversi esempi, ma può bastarne uno: fino a qualche anno fa il Consiglio territoriale per l’immigrazione di cui facevano parte diversi soggetti come la prefettura, i carabinieri, la polizia, la regione, la rete e alcune associazioni di immigrati, si riuniva ogni due-tre mesi ed era un’ottima istanza per risolvere i problemi direttamente, senza troppi passaggi formali. Sono ormai due o tre anni – nonostante le reiterate richieste della rete – che il consiglio non viene convocato, sia per i continui cambi di dirigenza sia perché sembra essere venuta meno la volontà da parte del Ministero dell’interno.
Come stanno proseguendo le attività della scuola in queste settimane di chiusura forzata a causa della pandemia?
Stiamo portando avanti anche noi la didattica a distanza. In questo momento stiamo coinvolgendo circa ottanta studenti. Molti di loro non hanno un computer e quindi per le lezioni stiamo usando WhatsApp per mandare del materiale e per svolgere le lezioni. Credo che per gli studenti sia stato importante non solo proseguire nel percorso didattico, ma anche constatare che la scuola non li ha abbandonati, che malgrado tutte le avversità resta comunque per loro un importante punto d’appoggio.