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Una lunghissima contesa che dura ancora oggi

Nelle scorse settimane è uscito La Jugoslavia e la questione di Trieste, 1945-1954 di Federico Tenca Montini, un libro interessato all’intreccio di relazioni diplomatiche che si sviluppano lungo il confine orientale italiano nel secondo dopoguerra. Abbiamo chiesto ad Anna Di Gianantonio una ricostruzione delle complessità di quella fase storica, proprio a partire dal lavoro di Tenca Montini.

La Jugoslavia e la questione di Trieste, 1945-1954

Anna Di Gianantonio

Il volume di Federico Tenca Montini, La Jugoslavia e la questione di Trieste, 1945-1954 (il Mulino 2020, euro 26) ripercorre le intricate vicende politico-diplomatiche che portarono, “provvisoriamente” nel 1954 e definitivamente con il trattato di Osimo nel 1975, all’attuale definizione del confine orientale.

Federico Tenca Montini, La Jugoslavia e la questione di Trieste, 1945-1954

Il lavoro di Tenca Montini getta una luce particolare sulle trattative di quegli anni tormentati, grazie all’utilizzo di fonti inedite provenienti dagli archivi di Belgrado, Zagabria e Lubiana che l’autore ha frequentato per i tre anni del suo dottorato grazie alla conoscenza della lingua serbo croata e slovena. L’uso di questi documenti fa conoscere per la prima volta al lettore italiano l’attivismo frenetico di Tito e dei suoi uomini, privi del sapere dei diplomatici delle grandi potenze, ma determinati a trovare soluzioni che consentissero di non rinunciare ai territori che ritenevano di loro competenza.

Trieste simbolo della guerra fredda e piccola Berlino – come ricorda nella prefazione Jože Pirjevec – è stata molto studiata da diversi storici. Diego de Castro, rappresentante italiano presso il Governo militare alleato (Gma), nella Questione di Trieste pubblicata nel 1981, caposaldo della storiografia sul tema del conflitto per la determinazione del confine, si augurava che altri completassero il suo lavoro, andando a cercare tra le carte degli archivi in Jugoslavia. Tenca Montini ha realizzato con questo volume l’auspicio del diplomatico triestino.

Alcuni elementi di contesto vanno forniti per comprendere un conflitto che non fu solo contesa tra i due blocchi, ma scontro di piazza e passione popolare che attraversava trasversalmente il problema della nazionalità e univa italiani e sloveni nel desiderio o nella paura di unirsi alla Jugoslavia o all’Italia. La Venezia Giulia, territorio mistilingue da secoli e abitato da tedeschi, italiani, sloveni e croati incorporò con il Trattato di Rapallo circa mezzo milione di sloveni che lo stato liberale cercò in tutti i modi di assimilare. Fu il “fascismo di frontiera” ad utilizzare già a partire dal 1920 i metodi più repressivi e violenti per piegare la resistenza slovena e croata all’italianizzazione forzata.

A partire dal 1941, con l’occupazione italiana della Jugoslavia, nella Venezia Giulia si organizzò il movimento antifascista di massa sloveno che diede inizio alla Resistenza. Ad esso si unirono gli operai italiani delle grandi fabbriche di Trieste e Monfalcone. Si trattava di lavoratori formati nella tradizione socialista asburgica, spiccatamente internazionalista. Molti antifascisti giuliani avevano combattuto in Spagna, alcuni addirittura in Etiopia a fianco dei partigiani contrari al colonialismo italiano, altri ancora in Francia, nell’organizzazione comunista della Mano d’opera immigrata (Moi).

La lotta comune non fu affatto semplice, ma i comandanti partigiani seppero trovare accordi, compromessi e mediazioni, cercando di rimandare la questione dell’appartenenza nazionale alla fine della guerra. L’auspicio di Churchill di puntare sul nazionalismo popolare italiano per vincere lo scontro tra i due blocchi in questo territorio si rivelò più difficile del previsto.

Lo stato d’animo non solo degli sloveni, ma anche di una buona parte degli italiani antifascisti al momento dell’entrata, ai primi di maggio del 1945, delle truppe dell’esercito jugoslavo a Trieste, Gorizia e Monfalcone fu di grande entusiasmo. La speranza era che la presenza jugoslava avrebbe mutato i rapporti di forza, incarnati nell’attività dei comitati di liberazione nazionale, comunemente chiamati dalla storiografia “poteri popolari”, che erano stati attivi nelle zone liberate dai nazifascisti durante la guerra e che nei quaranta giorni di amministrazione jugoslava guidavano la ripresa economica e sociale.

La profonda delusione dei vertici jugoslavi si manifestò quando gli alleati imposero alle loro truppe di ritirarsi oltre la linea Morgan, a circa 10 km ad est di Trieste e Monfalcone. Stalin stesso, preoccupato della reazione alleata se la Jugoslavia non si fosse ritirata dalle città occupate e consapevole dei rischi estremi che il braccio di ferro con gli anglo-americani avrebbe causato, consigliò Tito di accettare la soluzione proposta e a quel punto il Maresciallo non ebbe alternative. Fu il risentimento del Maresciallo per questo mancato appoggio ad essere una delle cause della rottura del 1948.

Il 12 giugno 1945 l’esercito popolare abbandonò Trieste, Gorizia e la gran parte della Venezia Giulia e il territorio fu diviso in zona A, sotto il controllo anglo americano, e zona B, sotto il controllo jugoslavo. Nell’immediato secondo dopoguerra la mobilitazione di massa pro o contro l’annessione alla Jugoslavia diede vita a enormi manifestazioni per influenzare la Commissione alleata, giunta in regione nel 1946 per stabilire definitivamente la linea di confine.

Tenca Montini ha ritrovato negli archivi le lettere inviate a Tito da ex partigiani e antifascisti che invocavano il ritorno del Maresciallo nella zona A. Si tratta di documenti inediti in cui gli antifascisti italiani e sloveni, espressero i loro timori circa l’annessione della Venezia Giulia all’Italia, una nazione giudicata conservatrice e illiberale che avrebbe disatteso la speranza di un nuovo ordine politico e sociale maturate nella Resistenza.

Ma le lettere non furono le sole azioni di protesta. L’autore documenta ciò che accadde a Pieris, un paese vicino a Monfalcone, dove nel luglio del 1946 fu fermato il Giro d’Italia da un’intensa sassaiola che impedì ai corridori di proseguire la corsa. I manifestanti contestavano la manifestazione ciclistica, perché Trieste non doveva essere italiana. Questo gesto provocò violenze e attentati dei circoli nazionalistici e, per reazione, uno sciopero di protesta che durò dodici giorni e le cui rivendicazioni si concentravano soprattutto sulla parola d’ordine del ripristino dei poteri popolari che gli anglo americani volevano sciogliere. L’allora ministro degli Interni Palmiro Togliatti, stretto tra fedeltà internazionalista, volontà di svolgere appieno il ruolo di forza politica italiana e preoccupazione per il sentire di una parte della popolazione italiana della Venezia Giulia, nel 1946 propose a Tito un accordo di scambio tra Trieste, che sarebbe dovuta tornare all’Italia, e Gorizia che sarebbe passata alla Jugoslavia. L’“infame baratto”, come fu chiamato questo accordo dalle forze centriste, pesò sui comunisti goriziani come un macigno per decenni e marchiò il partito come traditore della patria e degli interessi nazionali. La proposta del segretario del Pci non ebbe alcun esito diplomatico, ma fu uno dei pretesti per gli incidenti che nel 1947, dopo il passaggio di Gorizia all’Italia, causarono gravissimi incidenti. Anche su questo episodio l’autore offre materiali del tutto inediti, consultati a Belgrado presso l’archivio diplomatico del ministero degli Affari esteri. Si tratta dei resoconti delle vittime di quello che fu sentito dagli sloveni come un vero e proprio pogrom nei confronti di chi aveva appoggiato la scelta jugoslava e che si concretizzò nella distruzione di negozi, case, banche, in pestaggi e violenze, che furono documentate nei memoriali che i rappresentanti politici degli sloveni recapitarono a De Gasperi.

La diplomazia di Tito sperò di poter incidere sull’assetto confinario durante le trattative che portarono agli accordi di Belgrado del 9 giugno 1946 e a quelli di Duino del 12 e 13 giugno, ma i risultati non furono positivi. Allora gli sforzi jugoslavi si concentrarono sulla Conferenza di pace di Parigi. Qui l’autore documenta il frenetico lavorio dei diplomatici jugoslavi per convincere almeno la Francia ad appoggiare le loro rivendicazioni, ma il Trattato del 10 febbraio 1947 sancì il passaggio di Gorizia e Monfalcone all’Italia e per Trieste venne ipotizzata la creazione di un Territorio libero (TlT), una sorta di stato cuscinetto, che sarebbe stato amministrato da un governatore super partes. Ormai nel pieno della guerra fredda, in cui Trieste era una piccola Berlino, i veti incrociati delle grandi potenze impedirono l’elezione del governatore e lasciarono la città in mano all’amministrazione del Governo militare alleato.

Il 1948 segnò un cambiamento decisivo nella questione di Trieste. Con la rottura delle relazioni politiche tra Tito e Stalin le potenze occidentali, che non avevano per nulla colto i segnali di malessere all’interno del blocco comunista, compresero che la Jugoslavia passava dal ruolo di avamposto dell’Urss a paese utile in funzione antisovietica. Bisognava dunque “far galleggiare Tito”.

Tenca Montini documenta per la prima volta con grande precisione le cifre degli ingenti aiuti economici che, dalla fine del 1949, vennero destinate alla giovane repubblica.

Da quel momento il problema di Trieste venne declassato a tema di politica interna italiana da usare nell’agone elettorale. In questo senso è possibile leggere il significato della Dichiarazione tripartita del marzo 1948 di Stati uniti, Regno unito e Francia che assegnava il TlT all’Italia. Si trattò di una presa di posizione politicamente impraticabile che aveva l’unico obiettivo di aiutare la Democrazia cristiana nella importante tornata elettorale. I governi italiani fecero leva su quella dichiarazione propagandistica e la fecero diventare la linea diplomatica italiana: tutto il TlT doveva essere assegnato all’Italia. Da allora la richiesta della annessione del territorio di Trieste e il vittimismo per il mancato ritorno alla patria della città “cara al cuore” fu motivo ricorrente della politica governativa che non volle sfruttare il nuovo ruolo della vicina repubblica.

Nel 1950 la guerra di Corea rafforzò la posizione diplomatica della Jugoslavia che lanciò l’idea di un “condominio” italo-jugoslavo sul TlT con la nomina alternata di un governatore italiano e jugoslavo. La presidenza dei Eisenhower irrigidì la posizione degli Usa rispetto ad un paese che, anche se utile alleato dell’Occidente, rimaneva pur sempre comunista. L’8 ottobre 1953 Inghilterra e Stati uniti annunciarono il ritiro dalla zona A, senza dare garanzie sulla zona B alla Jugoslavia, che visse questa decisione come un tradimento. Ci furono scontri e un’altissima tensione nel territorio di Trieste. Il Memorandum di Londra del 1954 sancì con pochi cambiamenti i confini del 1946, ma ebbe il risultato di modificare la politica estera jugoslava che, delusa dalle potenze occidentali e desiderosa di mantenere un ruolo indipendente dall’Unione sovietica, diede vita al Movimento dei paesi non allineati. Esso riunì ben 160 nazioni che cercarono una linea di indipendenza dalla logica asfissiante dei due blocchi. La delusione di Tito si trasformò in un indubbio successo politico e nel rilancio del suo ruolo di leader internazionale.

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