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L’onda lunga del cinema militante

Su «Carmilla» Gioacchino Toni firma una recensione/segnalazione al sesto volume di «Zapruder World», curato da Daniel Fairfax, André Keiji Kunigami e Luca Peretti, ripresa anche da Pagina 3. Ve la riproponiamo nella rubrica “Dicono di noi” e vi invitiamo a tenere sempre d’occhio gli interventi della redazione di Carmilla.

Cinema e conflitti sociali

di Gioacchino Toni

È curioso pensare a come la storia del cinema si apra nel segno dell’intrecciarsi di macchina da presa e fabbrica: in Francia le prime immagini in movimento girate dai fratelli Lumière nel 1895 riprendono i lavoratori, soprattutto donne, che escono dalla loro fabbrica a Lione mentre in ambito statunitense, l’anno successivo, la macchina da presa di William Kennedy Laurie Dickson si focalizza sull’uscita degli operai dalla fabbrica di armi Winchester a New Haven, nel Connecticut. In questo secondo caso avviene anche un altro cuiroso incontro: quello della macchina da presa con il mondo delle armi da fuoco, le stesse che contribuiranno a edificare quell’immaginario western diffuso a livello planetario dal cinema hollywoodiano. Per certi versi il contatto precede addirittura la comparsa della macchina da presa visto che è già il suo progenitore, l’apparecchio fotografico, ad essersi intrecciato con le armi da fuoco, come attesta la celebre “pistola cronofotografica” realizzata nel 1882 da Étienne-Jules Marey. Non a caso in lingua inglese si ricorre al termine “shot” per riferirsi tanto allo sparo di un’arma che allo scatto fotografico.

cinema e conflitto - Zapruder world vol. 6

Che due apparati così rappresentativi della modernità come la macchina da presa e la fabbrica venissero immediatamente a contatto era forse inevitabile. Se ad essere mostrato da queste prime immagini in movimento è il momento in cui gli operai fuoriescono dal luogo di lavoro, è piuttosto l’incontro tra cinema e conflitto sociale ad interessare il nuovo numero della rivista “Zapruder World” in lingua inglese integralmente disponibile in formato digitale.

Se le pionieristiche sequenze cinematografiche mostrano una realtà urbana calma e armoniosa, ad attrarre il pubblico sembrano essere soprattutto le immagini di mondi lontani ed esotici. Insomma al cambio di secolo il cinematografo, nel suo rivelarsi un apparato volto a soddisfare la curiosità eurocentrica, opera frequentemente come strumento di controllo colonialista del soggetto extraeuropeo.

Che il cinema sin dalle origini non abbia la neutralità che superficialmente si tende ad attribuirgli è testimoniato dal fatto che in ambito documentario non manca di immortalare l’invasione colonialista italiana della Libia (uno dei primi conflitti armati ad essere ripreso dalla macchina da presa) mentre il cinema narrativo vanta tra le sue prime prove una pellicola razzista come The Birth of a Nation (1915) di David Wark Griffith. Dunque, si sostiene nell’Introduzione al numero di “Zapruder World” dedicato al rapporto tra cinema e conflitti sociali, lo spettacolo cinematografico sin dai suoi albori non manca di mostrare la violenza su cui è costruito quel mondo moderno di cui è al tempo stesso un prodotto e cantore e lo ha fatto rapportandosi ai conflitti sociali rafforzandoli, reprimendoli e riproducendoli.

Nell’Introduzione al volume si fa brevemente riferimento alla curiosa esperienza di cinema militante della “Proletarian Film League of Japan” (Prokino) che, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del Noecento, grazie a personalità come Iwasaki Akira, Murayama Tomoyoshi e Mizoguchi Kenji, sull’onda del saggio di Sasa Genju “Camera – Toy / Weapon”, pubblicato sulla rivista “Senki” (1928), ha fatto un uso politico della macchina da presa nell’ambito dell’organizzazione dei lavoratori giapponesi e dell’opposizione antimperialista.

A parte qualche esperienza isolata, ricordano gli autori, è soprattutto a partire dal dopoguerra che si delineano esperienze cinematografiche interessate a fare i conti più direttamente con la realtà sociale. A tal proposito l’Introduzione della rivista ricorda l’importanza dell’esperienza neorealista italiana e l’influenza da essa esercitata sul cinema del Terzo Mondo in paesi come l’India, il Brasile e il Senegal, prima dell’avvento della stagione del cinema militante degli anni Sessanta e Settanta.

Altri riferimenti riportati nell’Introduzione riguardano la nascita dell’Istituto Cubano del Arte e Industria Cinematográficos (ICAIC) sul finire degli anni Cinquanta e una serie di manifesti che a partire dalla metà degli anni Sessanta offrono un inquadramento teorico al cinema militante, come ad esempio “The Aesthetics of Hunger” di Glauber Rocha nell’ambito del cinema brasiliano Novo, “Verso un terzo cinema” degli argentini Fernando Solanas e Octavio Getino, “For an Imperfect Cinema” del cubano Julio García Espinosa, “Problemi di forma e contenuto nel cinema rivoluzionario” del boliviano Jorge Sanjinés ecc.

L’onda lunga del cinema militante sviluppatosi negli anni Sessanta investe il decennio successivo dando vita ad importanti esperienze cinematografiche antimperialiste, femministe e incentrate sulle lotte e sui diritti LGBTQI, della popolazione nera, degli immigrati e dei rifugiati. Dopo il ritorno all’ordine degli anni Ottanata, che vede la marginalizzazione di molte delle esperienze militanti strutturatesi nei decenni precedenti, a volte incapaci di trovare un linguaggio adeguato ai nuovi tempi sommersi dall’onda neoliberista, il nuovo millennio sembra avviarsi verso una produzione di piccole opere documentarie realizzate con strumenti digitali e diffuse principalmente attraverso Internet.

Il rapporto tra cinema e conflitto sociale viene indagato da “Zapruder World” sia esaminandolo da una prospettiva storica che facendo riferimento all’attualità attraverso una serie di saggi: Daniel Lawrence Aufmann focalizza il suo intervento sul rapporto tra il cinema popolare e il movimento suffragista di inizio Novecento negli Stati Uniti; Cynthia Porter mette in relazione il film Fury (1936) di Fritz Lang e il recente movimento Black Lives Matter; Alessia Lombardini indaga il ruolo svolto dai cinegiornali nell’ambito de conflitto politico italiano degli anni Sessanta; Daniel Fairfax si sofferma sul tentativo dei primi anni Settanta dei “Cahiers du cinéma” francesi di dare vita al “Fronte culturale rivoluzionario”; Renzo Sgolacchia indaga la storia dell’attivismo mediatico nella scena delle occupazioni di Rotterdam; Dom Holdaway e Dalila Missero ricostruiscono il mondo queer e femminista presente nel recente cinema italiano; Fabio Andrade approfondisce le produzioni dei giovani registi brasiliani nel momento di “sospensione” rappresentato dal passaggio da Dilma Rousseff a Jair Bolsonaro; Ekin Erkan prende in esame le attività del collettivo hacker comunista radicale turco RedHack.

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