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La memoria è lotta! In ricordo di Paola Staccioli

Ci sono percorsi che si intrecciano e si incrociano a volte quasi per forza, traiettorie che compiono tragitti che finiscono per intersecarsi. È il caso del nostro con Paola Staccioli. Paola ci ha inviato la sua opera, Vivere la tempesta. In lotta contro il cancro, dopo aver visto la call per il numero 58 di «Zapruder» ma ci sembra che interroghi molto anche il numero 55 appena pubblicato, “Alta fedeltà”, focalizzato sul rapporto tra letteratura e storia.

Come ha scritto a Ilenia Rossini, Paola non amava definire il suo libro un romanzo perché alcuni passaggi sono basati su «fatti reali, su interviste, discussioni con operai, disoccupati, sindacalisti che avevo realizzato per la Rete Iside, per la sicurezza del lavoro».

Paola è morta il 31 luglio scorso a causa di un cancro al polmone e questo vuole essere il nostro modo per ricordarla.

La memoria è lotta!
In ricordo di Paola Staccioli

di Ilenia Rossini

Il 7 luglio ero a Palermo. All’indirizzo della redazione di «Zapruder», che controllo, è arrivata una mail di Paola Staccioli: aveva letto la call per il n. 58, che sarà dedicato a Conflitti ambientali: territori, salute, movimenti, e ci segnalava il suo libro Vivere la tempesta. In lotta contro il cancro, uscito da qualche mese per Red Star Press, proponendo di mandarci una copia. Tornata a Roma, dopo qualche giorno, le ho risposto che già lo avevo adocchiato e che, in quanto cocuratrice redazionale, stavo pensando come inserirlo – essendo un romanzo – come recensione nel numero. Paola mi ha risposto che: «in realtà definirlo romanzo secondo me è stata un po’ una forzatura, perché alcuni personaggi sono realistici ma non reali. Però tutta la parte ambientata a Taranto (o ciò che si dice sulla Caffaro di Brescia ecc.) si basa su fatti reali, su interviste, discussioni con operai, disoccupati, sindacalisti che avevo realizzato per la Rete Iside, per la sicurezza del lavoro». Alla seconda proposta di avere una copia, per non tradire la mia attitudine compulsiva al possesso di libri, ho accettato, nonostante io viva come una violenza su me stessa leggere le storie delle persone col cancro da quando, quattro anni fa, una dottoressa mi ha detto avrei potuto averne uno a un’ovaia (dopo due mesi l’istologico ha fortunatamente dato esito negativo, che come ben spiega Paola nel libro – quando si parla di cancro – vuol dire qualcosa di positivo, cioè che va tutto bene).

Il 13 luglio un compagno che non conosco me ne ha lasciata una copia in portineria dell’ufficio. L’ho presa, l’ho poggiata nella piletta dei libri omaggio e/o da recensire, mi sono immersa in due settimane di lavoro e poi sono andata in vacanza, dimenticando di ringraziare Paola, o forse pensando che lo avrei fatto al mio ritorno. Non ho fatto in tempo, perché il 31 luglio Paola Staccioli – comunista, giornalista, scrittrice, militante, fondatrice dell’Osservatorio repressione e di La Rossa primavera, impegnata per la costruzione e la conservazione della memoria della lotta di classe in Italia fino al punto di metterne in piedi un archivio – è morta, dopo una lotta di sette anni contro il big killer, il cancro al polmone. Anni, come ha affermato più volte, strappati alla malattia e vissuti «intensamente, con gioia e con pienezza». Sono troppo cinica e materialista per pensare che il mio ringraziamento di oggi possa giungerle da qualche parte – non penso esista alcuna altra parte – e mi mette a disagio l’abitudine di alcuni e di alcune di rivolgersi alle persone morte come se fossero ancora vive: non mi resta che sperare che le mie parole sul suo ultimo libro, a Paola sarebbero piaciute.

La protagonista di Vivere la tempesta. In lotta contro il cancro è Giulia, alter ego dell’autrice. O forse no. Protagoniste sono piuttosto le varie forme di distruzione che il capitalismo opera sulle nostre vite: inquinamento, patologie (dai tumori al Covid-19, alle malattie professionali), depressione, suicidi. Giulia – come Paola Staccioli, dalla cui fantasia è stata partorita – ha un cancro a un polmone, uno di quelli che secondo i medici lascia poco tempo da vivere. Ma non è l’unica ad avere un cancro: ce lo hanno, in tanti, a Taranto, avvelenati da centinaia di tonnellate di polveri nocive prodotte ogni anno dall’Ilva; ce lo hanno a Brescia, dove il record di neoplasie è la conseguenza dell’attività della Caffaro, che ha impregnato il terreno di diossine e pcb; ce lo hanno in molti, vicini e lontani a Paola e al suo alter ego Giulia, ce lo hanno sempre più persone, come evidenzia il V Rapporto “Sentieri” (2019), uno studio epidemiologico nazionale sui territori a rischio. Perché il cancro è un “assassino sociale” provocato dal capitalismo: è il capitalismo che nuoce gravemente alla nostra salute e inquina e distrugge le nostre esistenze.

Il libro – e sarebbe riduttivo considerarlo solo un romanzo – si apre e si chiude con Taranto, emblema della contraddizione tra i due diritti inalienabili alla salute e al lavoro, quel ricatto occupazionale che porta molti operai ad accettare l’idea che sia preferibile morire di lavoro, piuttosto che morire di fame, «perché morire di malattia è una probabilità mentre di fame muoio al cento per cento» (p. 23). A Taranto, nel corso dei decenni, ha preso corpo una «strage tranquilla», come l’ha definita Paola in un altro scritto. I personaggi che prendono parola in Vivere la tempesta sono veritieri, non totalmente inventati: le frasi che scambiano, nel libro, con Giulia sono le stesse pronunciate nelle interviste che Paola Staccioli ha condotto per il volume Mai senza Rete, coordinato dalla Rete Iside, sulla sicurezza sul lavoro. La forma romanzo ha una funzione tanto catartica quanto d’inchiesta: attraverso un alter ego, l’autrice si emancipa dalla propria vicenda autobiografica e racconta la storia di molte, di troppe, persone, trasformandola in impegno politico collettivo; allo stesso tempo, la libertà narrativa consente di cristallizzare in alcuni personaggi una certa posizione, un sentire comune, un pensiero radicato in alcuni territori dilaniati dall’inquinamento. È questo il caso delle parole pronunciate nel libro da un delegato Usb:

L’Ilva è un mondo a parte. Che ne possono capire quelli che si dichiarano ambientalisti e considerano la fabbrica un veleno, come se fosse una cosa sola, e noi operai fossimo uguali ai padroni. Loro stanno fuori e vanno a dire al lavoratore Tu non sei per la chiusura, sei un assassino pure tu. Eh no! Per te è semplice dire queste cose. Io mi incazzo perché ogni mattina ci alziamo per andare a lavorare, timbriamo il cartellino e ci chiamano assassini. Noi vogliamo lavorare per vivere non per morire. Per mezzo secolo abbiamo prodotto fra mille veleni l’acciaio che ha sorretto l’industria italiana, vogliamo mantenere il nostro posto e la nostra dignità. Le colpe non sono della fabbrica, sono dei padroni che cercano di aumentare i profitti e non spendono per mettere a norma gli impianti. E noi siamo i primi a morirne. (p. 44)

E, di contro, la posizione opposta, quella di un operaio licenziatosi dall’Ilva che non accetta che i suoi ex colleghi mettano a repentaglio la propria vita e quella dei propri concittadini per mantenere la famiglia:

E no, basta co’ ‘sta storia. La colpa è pure loro. Io devo campare, dice l’operaio dell’Ilva, la fabbrica non si deve chiudere, poi a cinquant’anni muore. Insomma, alla fine dice la stessa cosa di uno sbirro, che fa quel lavoro di merda solo perché deve campare, ma lui difende i ricchi e i padroni contro di noi. Questa barzelletta deve finire, l’operaio che parla così non è diverso dallo sbirro. Sta lì e subisce senza ribellarsi. […] Le lotte a Taranto le hanno portate avanti gli operai delle ditte esterne e quelle dei cantieri navali, mica chi lavora all’Ilva. Loro sono i garantiti, l’aristocrazia operaia. Non fanno una minchia, tanto lo stipendio gli arriva comunque ogni dodici del mese. (p. 66)

Poche righe che forse non potrebbe sintetizzare meglio la contraddizione tra salute e lavoro, ma anche tra alcune posizioni ecologiste, alcuni movimenti e il lavoro. Una contraddizione che non può arrivare a sintesi in un sistema capitalista. Quante volte abbiamo sentito dire, a giustificazione della sua costruzione, che la tav crea posti di lavoro e che il movimento che vi si oppone si posizionerebbe, invece, dalla parte crisi economica e disoccupazione? Non esiste spazio, nel capitalismo, per la riconversione, per la creazione di posti di lavoro di tipo diverso, a basso impatto ambientale e a basso impatto sull’esistenza quotidiana delle lavoratrici e dei lavoratori. Porsi sull’unica strada percorribile sulla lunga distanza, quella della salvaguardia della salute e dell’ambiente, significa in un sistema capitalista assumersi il rischio di essere accusati e accusate di volere la fame di chi rischia di perdere il proprio posto di lavoro.

In Vivere la tempesta, però, ci sono le fabbriche e i loro veleni, ci sono l’inquinamento industriale e le malattie che provocano, c’è il cancro della protagonista (e dell’autrice) e di tante persone intorno a lei, ci sono chemioterapie, immunoterapie, tac e fiducia nella ricerca scientifica, ma c’è anche – magari in controluce ma chiarissima all’occhio del lettore attento o della lettrice attenta – la via d’uscita, la speranza, la possibile soluzione politica a uno stillicidio quotidiano. Lo sguardo della Giulia del romanzo, e della Paola reale, verso il passato non è un vezzo intellettuale, non è adorazione delle ceneri ma conservazione del fuoco. Riconnettere i fili della sinistra rivoluzionaria, scrivere la storia della lotta di classe e dei movimenti e mantenerne viva la memoria, significa per Paola e per il suo alter ego Giulia «valorizzare la linfa vitale delle lotte di quella parte della società che si è identificata nei progetti più radicali di trasformazione politica e sociale» per intervenire nel presente, sostenendo e rafforzando, nell’oggi, le forme più avanzate di lotta di classe. Se le contraddizioni generate dal capitalismo sono irrisolvibili, la soluzione non può che essere la fine del capitalismo. Paola Staccioli non ha potuto vederla. Noi possiamo ancora impegnarci per renderla più vicina.

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