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Mondiali sì, mondiali no?

Deve essere quasi impossibile che non abbiate sentito parlare dei mondiali in Qatar.

Prima di sapere il risultato finale, vi proponiamo una lettura di lungo periodo del boicottaggio dei grandi eventi sportivi internazionali, ospitando la versione estesa di un articolo di Edoardo Molinelli pubblicato sul numero 7 (novembre 2022) di «Linea Mediana», rivista digitale di sport e politica.

Sport e politica: intrecci, identità e conflitti sono temi che abbiamo da sempre trattato, dedicando anche interi numeri di «Zapruder» (come “Identità in gioco”, «Zapruder» n. 4, mag-ago 2004, che grazie a Luca e alla campagna #adottaZapruder potete leggere interamente qui; oppure “Tifo”, «Zapruder» n. 48, gen-apr 2019, disponibile online qui) e pubblicando inediti sul nostro sito web (come ad esempio questo).

Mondiali sì, mondiali no?

Breve storia dei boicottaggi nella Coppa del Mondo da Uruguay 1930 a Qatar 2022

di Edoardo Molinelli

La questione del boicottaggio dei grandi eventi internazionali emerge ciclicamente nella storia dello sport e si è riproposta anche per i Mondiali 2022, tuttora in corso.

La scelta di affidare all’emirato del Qatar l’organizzazione di una delle competizioni sportive più importanti del pianeta ha generato subito molte polemiche. Al momento dell’assegnazione (2 dicembre 2010) le proteste si sono concentrate sulla decisione di disputare il torneo in inverno a causa delle temperature estive proibitive e, soprattutto, sulle accuse di corruzione che hanno iniziato a circolare subito dopo la scelta della sede. Solo a seguito dell’uscita di un’inchiesta del «Guardian»1 (febbraio 2021) sui circa 6.500 lavoratori morti nella costruzione degli stadi qatarioti si è iniziato a parlare di boicottaggio, anche grazie al gesto compiuto dalla nazionale norvegese prima della partita con Gibilterra del 24 marzo 2021: in quell’occasione i giocatori sono scesi in campo indossando delle magliette con la scritta “Human rights – on and off the pitch”, portando la questione alla ribalta mediatica internazionale. Alla protesta si sono ben presto unite altre nazionali (Germania, Danimarca, Olanda, Belgio) e vari giocatori (Lahm, Kroos, Goretzka, Kimmich, Odegaard, Wijnaldum) hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali sul tema, ma la questione del boicottaggio è rimasta confinata al calcio norvegese. Il 20 giugno 2021, al culmine di un lungo dibattito che ha coinvolto anche club di prima divisione come il Tromsø, la Norges Fotballforbund ha indetto una votazione sulla possibilità di disertare il Mondiale in caso di qualificazione: il No ha prevalso per 368 voti a 121. Da quel momento si sono succedute iniziative più o meno innocue e non prive di ipocrisia o contraddizioni, come la decisione della marca Hummel, sponsor tecnico della Danimarca, di “oscurare” lo stemma danese sulle divise e di creare una terza maglia nera (andata subito a ruba) in segno di lutto, o la scelta di alcune grandi città francesi, tra cui Parigi e Marsiglia, di non allestire maxischermi e fan zone per non dare visibilità al Mondiale (giova ricordare che Parigi è la stessa città che ospita il Paris Saint-Germain, club di proprietà del fondo sovrano qatariota Qatar investment authority).

Alla luce di questi magri risultati, si può affermare senza grande margine di errore che il tentativo di boicottare Qatar 2022 è stato ben poco convinto, ed è sembrato più che altro un’iniziativa di facciata utile per attenuare i sensi di colpa di alcuni dei partecipanti. 

Allo stesso tempo, tuttavia, ci ha ricordato come la storia dei Mondiali sia anche una storia di boicottaggi. Nei quasi cento anni di vita del torneo più popolare del globo, sono state pochissime le edizioni che non hanno dovuto fare i conti con assenze eccellenti, “grandi rifiuti”, prese di posizione di natura sportive o – seppur in numero minore – proteste di natura politica. Basti pensare al fatto che per quasi 20 anni il torneo venne disputato senza le Home Nations (Galles, Inghilterra, Irlanda del Nord e Scozia), ovvero le rappresentative del paese dove era nato il football moderno, che avevano lasciato la Fédération internationale de football association (Fifa) nel 19282 e rifiutarono di partecipare alla competizione fino al 1950, quattro anni dopo essere rientrati nella federazione internazionale. Non bisogna scordare, inoltre, che all’epoca i britannici erano convinti della loro superiorità rispetto al resto del mondo, come ben esemplifica una dichiarazione resa da Charles Sutcliffe, membro della Football association, alla vigilia del Mondiale del 1934 (peraltro da lui definito «uno scherzo»): «Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda hanno abbastanza da fare nel proprio International Championship3, che mi sembra un Campionato del Mondo di gran lunga migliore di quello che andrà in scena a Roma»4.

L’assenza dei “maestri” non fu l’unico problema che la Fifa si trovò ad affrontare nella prima edizione della Coppa del Mondo, disputata in Uruguay nel 1930. Il paese sudamericano venne scelto sia per motivi di prestigio calcistico della nazionale5, sia perché proprio quell’anno festeggiava il centenario dell’indipendenza. Jules Rimet, presidente della Fifa e principale ideatore della manifestazione, era convinto di poter assicurare la presenza delle principali squadre europee, che però in larghissima maggioranza disertarono a causa non soltanto della lontananza e dei costi logistici della trasferta, ma soprattutto per «l’impossibilità dei calciatori dilettanti di lasciare il proprio posto di lavoro per un periodo così lungo»6. Alla fine al torneo parteciparono 13 squadre, di cui solo 4 europee7, e l’Uruguay si aggiudicò la coppa.

Memori del comportamento delle rappresentative del vecchio continente, nonché internamente alle prese con la problematica introduzione del professionismo, nel 1934 gli uruguaiani restituirono il favore e boicottarono clamorosamente la competizione: sarebbe rimasta l’unica volta nella storia dei Mondiali in cui i campioni del mondo avrebbero rinunciato a difendere la vittoria ottenuta quattro anni prima. Anche nel 1938 la Celeste rimase a casa, stavolta esclusivamente a causa del caos seguito alla professionalizzazione del proprio sistema calcistico8, imitata da un’Argentina furiosa per l’assegnazione del torneo alla Francia che andava a rompere il principio teorico dell’alternanza organizzativa tra Sudamerica ed Europa.

La seconda guerra mondiale comportò la sospensione dei Mondiali fino al 1950, anno in cui fecero il proprio ritorno ufficiale nell’affascinante cornice del Brasile. Se da un lato si registrò la prima presenza assoluta dell’Inghilterra9, dall’altro questa edizione spiccò per l’assenza delle squadre di oltrecortina, con la sola Jugoslavia (in pieno conflitto con Mosca dopo l’espulsione dal Cominform il 28 giugno 1948) a rappresentare l’Europa dell’est; episodio poco noto nella storia della guerra fredda, sicuramente meno citato rispetto al boicottaggio sovietico delle Olimpiadi di Los Angeles 1984, ma significativo del clima di tensione che all’epoca aveva generato la creazione della Nato. L’assenza più “rumorosa” fu però quella dell’Argentina, senza dubbio la miglior squadra sudamericana dell’epoca: dilaniata dallo sciopero dei calciatori e dal successivo trasferimento dei maggiori talenti (tra cui Adolfo Pedernera e Alfredo Di Stéfano) in Colombia, l’Albiceleste non riuscì a formare una squadra competitiva e preferì boicottare l’evento a causa dei contrasti con la federcalcio brasiliana, «con cui non ebbe relazioni per tutto il decennio 1946-1956»10.

La prima azione di protesta politica nel contesto dei Mondiali si verificò invece in occasione delle qualificazioni per il torneo del 1958, ospitato dalla Svezia. Nell’ottobre del 1956 Israele aveva invaso l’Egitto durante la cosiddetta Crisi di Suez, peggiorando ulteriormente i già delicatissimi rapporti con le nazioni della Lega Araba. All’epoca la federazione calcistica israeliana, oggi membro dell’Union of european football associations (Uefa,) faceva parte dell’Asian football confederation (Afc), che in fase di qualificazione ai Mondiali fu unita alla Confédération africaine de football (Caf) in un girone unico; dopo aver superato il turno preliminare a causa del ritiro della Turchia, che si rifiutò di giocare nel gruppo asiatico-africano ritenendo di appartenere a quello europeo, Israele avrebbe dovuto affrontare un girone con Egitto, Indonesia e Sudan. Gli egiziani si ritirarono immediatamente per protesta contro la presenza dei propri aggressori, l’Indonesia rinunciò a causa dei problemi di stabilità interna che funestavano il paese e anche il Sudan, membro della Lega Araba, applicò il boicottaggio in solidarietà con l’Egitto. Volendo evitare la qualificazione di una squadra che non aveva disputato neppure un incontro, la Fifa obbligò Israele a disputare uno spareggio con il Galles, giunto secondo nel proprio girone alle spalle della Cecoslovacchia: i Dragoni vinsero e andarono in Svezia, mentre Israele avrebbe dovuto aspettare il 1970 per qualificarsi per la prima (e finora unica) volta a un Mondiale. Per ironia della sorte, anche in quel caso beneficiarono di un ritiro politico: la Corea del Nord, che nel 1966 in Inghilterra era arrivata a un passo dalle semifinali dopo aver eliminato l’Italia, rifiutò di scendere in campo e fu squalificata11.

Proprio durante le qualificazioni per il torneo del 1966 avvenne il boicottaggio più clamoroso nella storia dei Mondiali. La vicenda ebbe inizio quando furono resi noti i criteri di assegnazione dei 16 posti in palio: 10 all’Europa, 4 al Sudamerica, 1 al Centro-Nord America e 1 alla vincente dello spareggio tra le vincitrici del gruppo africano e di quello asiatico-oceanico. Su iniziativa del presidente del Ghana, il panafricanista Kwame Nkrumah, la Caf chiese alla Fifa di rivedere tali norme e di prevedere almeno un posto per una squadra africana; il Ghana in quel momento era peraltro la miglior formazione del continente (aveva vinto la Coppa d’Africa nel 1963 e nel 1965) e, a detta di molti esperti, avrebbe potuto ben figurare in Inghilterra12. Di fronte al rifiuto della Fifa, e alla luce della riammissione nel gruppo asiatico del Sudafrica13, la Caf ritirò in blocco le sue 15 squadre e minacciò di non rientrare nel giro mondiale finché non le fosse stato assicurato il posto richiesto. Questa presa di posizione fu molto più di un semplice rifiuto di un principio di selezione sportiva: la Caf era stata la prima organizzazione panafricana della storia, in anticipo di sei anni rispetto alla fondazione dell’Organisation of african unity, e si era posta la missione di unire il continente, allora in piena lotta anticolonialista, attraverso il calcio. La denuncia dell’intransigenza della Fifa, che mai raccolse gli appelli a tenere in considerazione gli ingenti costi economici di un girone transcontinentale, e la protesta riguardo alla sottorappresentazione dell’Africa nel torneo si inserirono perfettamente in questo contesto e indussero le squadre africane a restare unite. Il loro sacrificio si rivelò fruttuoso: dall’edizione successiva alla Caf fu assicurato il posto richiesto, incrementato gradualmente fino ad arrivare ai 5 attuali14, e il Sudafrica venne estromesso dalle competizioni FIFA fino alla fine dell’apartheid.

Se la storia del boicottaggio africano è, per evidenti ragioni di matrice colonialista, ancora poco conosciuta in Occidente, non altrettanto si può dire della partita fantasma di Santiago, uno degli episodi più citati quando si affronta il rapporto tra calcio e politica. Durante le qualificazioni ai Mondiali del 1974, il Cile si trovò ad affrontare l’Unione Sovietica nello spareggio Conmebol-Uefa. L’andata, terminata 0-0, si giocò a Mosca il 26 settembre 1973, due settimane dopo il colpo di stato di Pinochet e la morte di Salvador Allende; il ritorno era in programma il 21 novembre all’Estadio nacional di Santiago del Cile, che il regime fin dai primi giorni aveva trasformato in centro di detenzione e tortura degli oppositori politici. I sovietici chiesero alla Fifa di disputare la partita in campo neutro e la federazione rispose inviando due ispettori in Cile; come sottolineano Riccardo Brizzi e Nicola Sbetti, «i due membri scelti da Zurigo per il viaggio, lo svizzero Helmut Käser e il brasiliano Abilio d’Almeida, erano però di orientamento talmente conservatore da vedere di buon occhio la dittatura instaurata in quelle settimane da Pinochet»15: la loro conclusione fu che il Cile era un paese perfettamente tranquillo e che lo stadio era «usato come centro d’orientamento per stranieri senza documenti validi»16. A quel punto, non volendo giocare in un impianto che grondava letteralmente sangue, l’Urss comunicò alla Fifa la propria rinuncia. La vicenda si trasformò in farsa quando la squadra di casa fu costretta a scendere in campo contro nessuno e a segnare un gol a porta vuota, realizzato dal capitano Francisco “Chamaco” Valdés (per ironia della sorte un uomo di sinistra, tra i fondatori del sindacato dei giocatori cileni). La Roja in Germania pareggiò due partite, ne perse una e fu subito eliminata.

Un altro importante capitolo della storia dei boicottaggi mondiali fu scritto in occasione dell’edizione di Argentina ‘78, una delle più controverse di sempre a causa della crudeltà e della durezza del regime militare al potere nel paese. Un ampio movimento di protesta si strutturò a partire dal fondamentale lavoro del Comité pour l’organisation par le boycott de l’argentine de la coupe du monde de football (Coba), fondato nel giugno 1977 a Parigi da militanti antifascisti ed esuli argentini, che riuscì a imbastire un’efficace campagna mediatica a cui aderirono anche artisti e intellettuali come Jean-Paul Sartre, Roland Barthes, Simone Signoret e Yves Montand. Pur non riuscendo a coinvolgere i principali partiti e sindacati, il Coba ottenne ampio riscontro nell’opinione pubblica e nella popolazione; emblematico fu il caso di due bagagisti dell’hotel Meurice di Parigi, licenziati per essersi rifiutati di portare le valigie al vice ammiraglio argentino Armando Lambruschini (in città per trattare l’acquisto di armi) e in seguito reintegrati grazie alle proteste guidate dal quotidiano «Libération». Il culmine dell’azione di boicottaggio si ebbe il 23 maggio, due giorni prima della partenza della nazionale francese per Buenos Aires, quando il ct Michel Hidalgo subì un tentativo di rapimento a cui sfuggì togliendo la pistola all’unico membro armato del commando; il blitz fu poi rivendicato da anonimi antifascisti francesi, che avrebbero voluto scambiare Hidalgo con 100 prigionieri politici per ogni giocatore della nazionale (2.200 persone in totale).

Il Coba non riuscì a raggiungere il proprio obiettivo, ma ebbe il grande merito di portare nel dibattito pubblico il tema dei mondiali sotto la dittatura e ispirò movimenti simili in altri paesi europei come i Paesi Bassi, dove il Solidariteits komitee argentinië-nederland (Skan) denunciò ampiamente cosa stava avvenendo in Argentina e riuscì a coinvolgere alcuni giocatori della nazionale. A differenza del Coba, per lo Skan e altre organizzazioni, come Amnesty international e gli stessi guerriglieri argentini Montoneros, il torneo non doveva essere boicottato, ma andava sfruttato per puntare i riflettori sulle nefandezze del regime e per accusarlo davanti a un pubblico globale; un obiettivo solo in parte soddisfatto, sia a causa dello scarso coinvolgimento dei calciatori, sia soprattutto per il vergognoso atteggiamento di gran parte dei media al seguito della manifestazione, che dipinsero il ritratto di un paese ordinato e senza alcuna tensione interna (e in questo gli italiani furono in prima fila, tranne qualche meritoria eccezione come quella di Gianni Minà e Gian Paolo Ormezzano)17.

Argentina ‘78 segnò l’ultimo tentativo di boicottaggio internazionale di un Campionato del Mondo, anche se nel 1982 vi fu un’ipotesi in tal senso da parte dell’Organisation of African Unity per protestare contro la presenza della Nuova Zelanda, uno dei pochi paesi che continuava ad avere relazioni sportive (soprattutto nel rugby) con il Sudafrica18; alla fine, comunque, Camerun e Algeria giocarono il Mundial senza troppe polemiche. Un’ulteriore minaccia al regolare svolgimento del torneo fu rappresentata dalla guerra delle Falkland (combattuta tra Regno Unito e Argentina da aprile a giugno 1982, e chiusasi dunque a poche settimane dall’inizio della Coppa), che mise in serio pericolo la partecipazione di Inghilterra, Irlanda del Nord e Scozia. Alla fine il governo di Margaret Thatcher, che voleva evitare un possibile confronto calcistico con gli argentini, non pose veti alla presenza in Spagna delle tre britanniche, ma «vi furono scontri tra tifosi inglesi e spagnoli (che simpatizzavano con gli argentini, contestando la sovranità di Londra su Gibilterra) […] e la televisione britannica boicottò tutte le partite dell’Argentina»19.

Da quel momento iniziò una lunghissima “pax mondiale”, interrotta solo nel 2013 dalle forti proteste in Brasile a causa delle spese folli per la costruzione delle infrastrutture per la Coppa del 2014, assolutamente sproporzionate rispetto agli investimenti in welfare del paese; il movimento di protesta, che accusò il governo per gli sgomberi violenti di alcune favelas e l’abnorme impiego di forze dell’ordine, non riuscì però a produrre un vero impatto sull’opinione pubblica internazionale anche a causa dell’atteggiamento dei media, che all’avvicinarsi dei Mondiali sposarono sempre più la narrazione della Fifa e dipinsero le rivendicazioni sociali come «minacce alla Coppa del Mondo 2014, la maggior parte delle quali mise in ombra importanti discussioni avvenute nella sfera pubblica locale»20.

L’edizione 2018 svoltasi in Russia fu invece ricca di polemiche sul paese organizzatore, sia dal punto di vista delle problematiche interne (razzismo, omofobia, mancato rispetto dei diritti umani), sia dal versante della politica estera (le accuse di corruzione in fase di assegnazione del torneo e le tensioni con l’Ucraina a causa dell’annessione della Crimea); l’avvelenamento dell’ex spia russa Sergej Skripal’ e della figlia Julija a Salisbury, in Inghilterra, fece parlare di boicottaggio da parte della Gran Bretagna, ma anche in questo caso le minacce non si tradussero in azioni concrete, eccezion fatta per l’assenza dal torneo di rappresentanti della famiglia reale e del governo britannico.

Alla fine di questa breve rassegna si impone una riflessione sull’efficacia dei boicottaggi come arma politico-sportiva. Nessuna iniziativa di questo tipo è mai riuscita a impedire lo svolgimento di un grande evento sportivo; clamoroso, in tal senso, è il caso delle Olimpiadi di Berlino del 1936, che non riuscirono a essere fermate da un ampio movimento di opposizione a livello globale nonostante fossero organizzate dai nazisti, coloro che, tra le altre cose, avevano escluso ebrei e minoranze etniche dallo sport tedesco in totale spregio dello spirito olimpico. I boicottaggi non hanno neppure mai avuto concrete conseguenze a livello geopolitico: l’assenza a Mosca ’80 degli Usa e di altri 66 paesi loro alleati, ad esempio, non indusse l’Urss a lasciare l’Afghanistan, né ebbe particolari ricadute sull’andamento della guerra fredda. In molte occasioni, tuttavia, proteste organizzate a livello internazionale hanno avuto il merito di spostare almeno parzialmente l’attenzione mediatica sulle vicende extrasportive, contribuendo in vari modi al cambiamento reale dell’esistente. L’esempio della Caf nel 1966 è notevole, ma ancor più significativo è il trentennale boicottaggio dello sport sudafricano praticato a ogni livello e in quasi tutte le principali discipline, che mise sotto pressione la classe politica bianca ed ebbe una parte non secondaria nel processo che portò all’abolizione dell’apartheid.

Oggigiorno il contesto sociopolitico, caratterizzato dall’individualismo sfrenato e dall’assenza di solidarietà, certamente non aiuta la crescita di movimenti di ampio respiro. Il caso dei mondiali del Qatar ha mostrato la debolezza di un modello forse non più adatto ai tempi: per un momento è sembrato che potesse realmente strutturarsi un fronte consapevole in difesa dei diritti dei lavoratori schiavizzati nell’emirato, ma la realtà è che, fuori dalle “bolle” in cui troppo spesso tendiamo a rinchiuderci, la questione non ha appassionato granché l’opinione pubblica. Ripensare i termini dell’opposizione a eventi sempre più mastodontici, corrotti e irrispettosi degli esseri umani rappresenta una delle sfide che attendono chiunque voglia tentare di cambiare il modello capitalistico che domina lo sport e le nostre stesse vite.

Note

1. Il «Guardian» aveva iniziato a scrivere delle violazioni dei diritti dei lavoratori in Qatar già nel 2013. (torna su)

2. L’abbandono dei britannici, ufficialmente a causa della disputa con la federazione internazionale riguardo alla definizione del dilettantismo, fu in realtà dovuto al timore del «crescente controllo che la FIFA esercitava sulle singole associazioni nazionali» (R. Brizzi-N. Sbetti, Storia della Coppa del mondo di calcio (1930-2018): politica, sport, globalizzazione, Firenze, Le Monnier, 2018, p. 15). (torna su)

3. Il British Home Championship (noto anche come British International Championship) è il torneo internazionale più antico del mondo. Disputato annualmente tra le 4 Home Nations, si tenne per 100 anni, dalla stagione 1883/84 a quella 1983/84, con due sospensioni a causa delle guerre mondiali. (torna su)

4. M. Taylor, The Leaguers: The Making of Professional Football in England 1900-1939, Liverpool, Liverpool university press, 2005, p. 217. (torna su)

5. La Celeste aveva vinto i tornei olimpici del 1924 e del 1928, considerati come dei veri e propri antesignani dei Mondiali, ed era quindi percepita come la squadra campione in carica. (torna su)

6. R. Brizzi-N. Sbetti, Storia della Coppa del mondo cit., p. 30. (torna su)

7. In Uruguay andarono Francia, Belgio, Romania e Jugoslavia. (torna su)

8. T. Crouch, The World Cup. The complete history, Londra, Aurum, 2006, p. 27. (torna su)

9. Gli inglesi peraltro fecero una pessima figura, venendo eliminati nel girone preliminare anche a causa della clamorosa sconfitta per 1-0 contro gli Stati Uniti, i cui calciatori erano in gran parte dilettanti. (torna su)

10. R. Brizzi-N. Sbetti, Storia della Coppa del mondo cit., p. 66. (torna su)

11. B. Glanville, The Story of the World Cup, Londra, Faber and Faber, 2010, p. 167. (torna su)

12. La stella della squadra era Osei Kofi, uno dei più grandi giocatori africani di sempre. Tra il 1968 e il 1969 Kofi segnò 4 reti in due amichevoli al leggendario portiere inglese Gordon Banks, che dopo il secondo incontro lo paragonò a George Best. (torna su)

13. La nazionale di calcio sudafricana era stata bandita dalla CAF nel 1958 a causa della politica dell’apartheid. (torna su)

14.  P. Dietschy, Making football global? FIFA, Europe, and the non-European football world, 1912-74, «Journal of Global History», 2013, n. 8, pp. 295-96. (torna su)

15. R. Brizzi-N. Sbetti, Storia della Coppa del mondo cit., p. 117. (torna su)

16. Ivi, p. 118. (torna su)

17. Per una dettagliata ricostruzione della campagna di boicottaggio vedi The boycott to the 78 World Cup. A failure that was a real success. (torna su)

18. Per lo stesso motivo 27 paesi africani (più Iraq e Guyana) avevano disertato le Olimpiadi di Montréal del 1976. (torna su)

19. R. Brizzi-N. Sbetti, Storia della Coppa del mondo cit., pp. 133-34. (torna su)

20. H. Levy, Reporting the 2014 World Cup: football first and social issues last, «Sport in Society», 2016, n. 5-6/20, DOI: 10.1080/17430437.2016.1158477, p. 8. (torna su)

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