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Tra classics e cancel culture: intervista a Sasha-Mae Eccleston

Il numero 63 di «Zapruder», Romane eunt domus, si incentra sul rapporto fra storia antica e contemporanea. Il periodo “classico” è infatti ancora centrale nel nostro immaginario quotidiano, ed è la posta in gioco e a volte uno degli strumenti di conflitti. In questa intervista realizzata da Simone Ciambelli, uno dei curatori del numero, affrontiamo il nesso fra discipline classiciste, cosiddetta cancel culture e campo accademico. Buona lettura!

Surfin’ USA: Aristotele & co. tra classics e cancel culture

a cura di Simone Ciambelli

L’antichità greco-romana è tutt’altro che un passatempo intellettuale per pochi iniziati: presente nell’immaginario comune, occupa uno spazio di rilievo nel discorso pubblico ed è in grado di informare anche alcuni discorsi del potere politico contemporanei. La storia antica è tutt’altro che morta e vive nel nostro presente, per anticipare uno dei leitmotiv del numero appena uscito curato da me, Francesco Reali e Francesco Casales. In particolare, ultimamente si è registrato un notevole incremento di articoli, libri, incontri pubblici attorno al rapporto tra la cosiddetta cancel culture e il ruolo dei “classici” nella nostra società; un dibattito – se così possiamo chiamarlo – che in Italia campeggia sulle pagine di giornali dai più diversi sentimenti politici e che ha coinvolto personalità di rilievo dell’accademia e del mondo culturale (ci siamo anche noi!). Seppur con diverse sfumature la domanda di fondo è sempre la stessa: i “classici”, il “nostro” fondamento culturale, sono a rischio? La nostra risposta è no: a rischio è se mai il concetto di “classico”, ma senza ulteriori spoiler vi rimandiamo alla lettura del numero… qui, invece, indaghiamo un poco l’origine di questa (infondata) paura.

Il tutto nasce oltreoceano nelle e attorno alle università statunitensi. Proprio negli Stati uniti dove il legame con il mondo antico romano e greco, quasi esclusivamente per un nostro pregiudizio geografico, ci sembra essere più labile. Niente di più sbagliato: dall’architettura degli edifici di potere all’architettura democratica e repubblicana tutto trasuda classicismo, ovviamente in salsa neoclassica. Il rapporto privilegiato con i Greci e i Romani ha radici assai profonde che precedono addirittura la nascita effettiva degli Stati uniti, un rapporto che è congenito alla democrazia americana. Come riconosceva lo stesso Tocqueville nella Democrazia in America la letteratura greca e latina è particolarmente utile nelle società democratiche, ma paradossalmente deve essere profondamente elitaria perché le masse «turberebbero lo stato in nome dei Greci e dei Romani invece che fecondarlo con il loro lavoro» (Toqueville 2021, 480). Così l’intellettuale francese, osservando i meccanismi della giovanissima democrazia americana, in poche righe sembra dettare una linea politica elitista che è giunta immutata sino a noi: 

il greco e il latino non devono essere insegnati in tutte le scuole, ma è necessario che coloro che, per naturale tendenza o per fortuna, sono portati a coltivare le lettere o predisposti a gustarle, trovino scuole in cui ci si possa rendere perfettamente padroni della letteratura antica ed essere penetrati interamente del suo spirito. Poche università eccellenti varrebbero meglio, per raggiungere lo scopo, di una moltitudine di cattivi collegi o di studi superflui che si compiono malamente, impedendo di fare bene gli studi necessari.

In accordo con gli altri curatori del volume abbiamo deciso che per andare a indagare più a fondo il dibattito che è giunto dal nostro lato dell’oceano dovevamo confrontarci con qualcuno che è immerso nell’ambiente culturale e accademico americano, qualcuno che esercitasse una certa visione critica su quello che le stava accadendo intorno. Abbiamo posto queste domande a Sasha-Mae Eccleston, docente e ricercatrice alla Brown University. Sasha è di origine giamaicana, si è trasferita nel New Jersey seguendo i suoi genitori all’età di quattro anni. Ha studiato alla Brown University e ha poi proseguito le sue ricerche in diverse università, tra le quali Oxford e Berkeley. Le sue ricerche vertono principalmente sulla letteratura latina, con uno sguardo particolare ad Apuleio, alla ricezione delle opere antiche e alla filosofia morale. Sasha è cofondatrice di Eos – Africana Receptions of Ancient Greece & Rome; assieme a Dan-el Padilla Peralta è cofondatrice anche di Racing the Classics, progetto finanziato da una fondazione privata nato dall’esperienza di conferenze internazionali incentrate sullo sviluppo della teoria critica dalla razza negli studi classici.
L’intervista è avvenuta in inglese, la traduzione è mia.

Copia esatta in bronzo della statua di Augusto di Prima Porta conservata ai Musei Vaticani. Collocata nel campus della Brown University (Providence RI), la statua è stata donata nel 1906 da Moses Brown Ives Goddard. Da notare la sgrammaticata scritta sul piedistallo Cesar Augusto, una sorta di italianizzazione di Caesar Augustus. (Foto dell’autore).

In Italia guardiamo con interesse a quanto sta avvenendo qui negli Stati uniti dove il dibattito attorno agli studi classici è molto attivo e in fermento. Due casi specifici sono stati intercettati dai media italiani ed esposti al grande pubblico: la chiusura del dipartimento di Classics in un’università nera di prestigio come Howard e il fatto che il major in Classics a Princeton non richieda più la conoscenza del greco e del latino. Qual è il tuo punto di vista su questi due casi e qual è il ruolo della stampa in America nella narrazione di queste vicende?

È sempre difficile conoscere la realtà di una situazione e di un’istituzione dall’esterno: quindi sto facendo delle ipotesi come tutti gli altri. Nel caso di Howard, credo che ci sia profonda preoccupazione. C’è la pretesa di preoccuparsi della Black education, della Black mobility e della Black self governance. Ma l’idea che Howard stesse cancellando i corsi di studi classici ha distratto l’opinione pubblica da quanto di simile stava accadendo anche in altre università: la chiusura dei dipartimenti di studi classici in linea con le misure di austerità. Ho sempre letto queste storie su Howard con un certo scetticismo, perché penso che gran parte degli indignati non avrebbero mai scritto di Howard prima. Non hanno mai contribuito al finanziamento di Howard né si sono mai interessati ad essa come luogo di istruzione superiore [NdA il sistema della università private americane si sostiene principalmente attraverso donazioni da parte di individui o fondi privati]. Quindi la loro preoccupazione per le finanze di Howard e per l’istruzione offerta a Howard sembra essere la sola cosa che preoccupa una maggioranza raziale. La chiusura dei dipartimenti di studi classici è sempre attorniata da grande scetticismo e da assenza di contestualizzazione. Le università spesso ripetono che agiscono solo in base ai numeri, ma molto spesso i dipartimenti umanistici si pagano da soli. Howard è l’unica università del genere a disporre di questi dipartimenti. Per utilizzare un gergo proprio del marketing, c’è la sensazione che stiano cercando di rimanere competitivi tra le altre università HBCU. Ora, ovviamente, non voglio che il lavoro dei classicisti di quel dipartimento sia messo a rischio, ma voglio che non si usi Howard, o che soprattutto i media stranieri usino Howard per far leva sull’elitarismo dei classici o addirittura sull’elitarismo nero. In altre parole, quella politica della rispettabilità secondo cui l’unico modo in cui i neri si guadagnano il rispetto è valorizzando le cose che sono contrassegnate e razzializzate come bianche: questo è il modo in cui dimostriamo di essere umani. Inoltre, penso che ci siano anche diverse nozioni tecniche che si perdono nella differenza tra classi, corsi o major; sto ancora cercando di capire quali sono. Se questi corsi sono ancora attivi e gli studenti li ricevono in un corso di laurea differente, invece che in classics, cosa si è perso? La situazione di Princeton, a mio avviso, è diversa perché è un istituto privato prevalentemente bianco incluso nella Ivy League e una delle università più antiche del Paese. Quindi la gente è molto interessata alla “conoscenza” che viene prodotta a Princeton la quale è un indicatore di uno status d’élite. Questo è il motivo per cui credo si siano scaldati gli animi in questo contesto. 

Copia esatta in bronzo dell’auriga di Delfi collocata nei pressi del Philadelphia Museum of Art (Philadelphia, PA). L’iscrizione sulla base recita: «From the cradle of democracy in the ancient world to the cradle of democracy in the new world. From the people of Greece to the people of America. Judge Gregory G. Lagakos chairman. July 4, 1977». La statua fu donata in occasione del bicentenario degli Stati Uniti dal governo greco su impulso di Gregory Lagakos, giudice americano di origine greca. (Foto dell’autore).

Devo dire per onestà che Dan-el Padilla-Peralta [NdA professore associato in classics a Princeton, al centro di note polemiche per i suoi supposti tentativi di cancellazione dei classici] è un prezioso collaboratore di lunga data, quindi, è difficile che io sia neutrale quando si mette in dubbio la sua integrità. Credo che, se ho ben capito la situazione a Princeton, si sia voluto affrontare uno dei problemi fondamentali dell’ordinamento degli studi classici negli Stati uniti. Anche se si tratta della disciplina che studia il mondo greco e romano, per molto tempo nell’università è stata concepita piuttosto come lo studio della letteratura greca e latina, una disciplina filologica, in quanto i principali oggetti di studio sono testi scritti. In generale dobbiamo avere a che fare con testi scritti e sappiamo che, strutturalmente, a partire dal disinvestimento americano nell’istruzione pubblica, più si è poveri e meno si ha la possibilità di avere accesso a buone biblioteche pubbliche, e che più si è scuri, neri e poveri, minori sono le possibilità di frequentare una buona scuola superiore pubblica. Quindi non si entra a contatto con queste lingue fin da piccoli. Il modo in cui abbiamo strutturato l’istruzione nel campo dei classici, ma questo vale più in generale per l’istruzione negli Stati uniti, fa sì che la presenza di molti prerequisiti per l’acquisizione di una lingua antica siano un ostacolo. Funziona per tenere fuori le persone. Non le fa entrare. E quindi, non conoscendo tutti i dettagli di come Princeton ha formulato la proposta, sarei propensa a pensare: «Oh, hanno appena abbassato la soglia d’ingresso?».

I programmi e i dipartimenti che adottano queste misure sembrano seguire una logica diversa: non vogliono porre in secondo piano l’apprendimento delle lingue antiche, ma vogliono esplorare altri modi per sondare le capacità, le abilità e la propensione delle persone a prescindere dai loro limiti socioeconomici pregressi. Vorrei che tutta questa buona volontà finisse sulla carta stampata invece della facile argomentazione sulla cancellazione, perché l’altro problema, da un punto di vista di studi culturali, è che queste narrazioni sono centrate sull’élite bianca, non classificata come tale, e non sulle persone che vengono escluse.

Concordiamo tutti (o quasi) sul fatto che gli autori antichi o la storia antica più in generale non sono il problema. Ad essere imputato è lo statuto del tutto eccezionale che Classics ha avuto nella definizione stessa della western civilization. È necessario ora procedere a una decolonizzazione e quindi a una decanonizzazione per rifondare la disciplina, partendo ad esempio da una ridefinizione del suo stesso nome. Secondo te come va ripensata la disciplina, quale è il suo futuro? Lo pensi realisticamente possibile?

Penso che tutto sia possibile con un numero sufficiente di persone, energie, risorse economiche alle spalle. Cosa posso immaginare o cosa spero che venga fuori dalla ridefinizione? Prima di tutto, voglio dire che ci sono autori greci e romani problematici. La scarsa considerazione della cancel culture poggia sull’idea che le persone che chiedono la cancellazione di qualcuno non vogliano impegnarsi veramente o non vogliano riflettere su di loro, ma vivere in una bolla ermeneutica. Il secondo punto riguarda ciò che gli “studi classici” possono essere o fare. Penso che tu abbia ragione. Ancora una volta il nome di classics, poiché ovviamente ha un significato classista, non fa altro che reificare, enfatizzare ulteriormente i problemi di esclusione dagli studi classici. Penso che ci siano molte persone in questo campo che non avrebbero problemi a cambiare nome. Ho notato però che le persone diventano più reticenti e meno disposte a mettersi in discussione quando iniziano a rendersi conto di non sapere che cosa ci unisce effettivamente come disciplina. Credo che la chiarezza sfugga ad alcuni e li spaventi perché si sentono a loro agio semplicemente con i classicisti; quindi, togliendo loro questo aspetto e sondando la possibilità di cambiare i confini disciplinari, si sentono spiazzati. Invece, a me piace discutere di questo aspetto. Ci vuole fiducia nelle proprie capacità intellettuali e umiltà critica per ciò che non si sa fare. 

Cambiare il nome in realtà non è così impegnativo. Poi però bisogna iniziare a pensare, per esempio, a dove inserire questi studi, in che aree disciplinari. Poi ci sono anche preoccupazioni di tipo amministrativo. Si tratta di un più ampio discorso su cosa abbiamo fatto negli ultimi 200 anni e su cosa intendiamo fare ora; una riflessione troppo profonda che alcune persone non vogliono affrontare. Penso quindi che sia necessario ripensare la disciplina, il modo in cui includiamo le persone, abbattiamo i muri, il modo in cui ci impegniamo nella comunità. Forse, invece di concentrarci sulla produzione di un maggior numero di articoli, che in pochi leggono e che in ancor di meno digeriscono realmente, potremmo concentrarci su interventi pubblici per spiegare il nostro lavoro. Solo cose del genere ci permettono di ricevere feedback al di fuori delle università e indirettamente ci forzano a ripensare la struttura interna delle università stesse e al ruolo che questi istituti hanno nel tessuto urbano e nella vita pubblica.

Statua in marmo di Abraham Lincoln realizzata nel 1920 da Daniel Chester French e conservata all’interno del Lincoln Memorial a Washington DC. Da notare la presenza di due enormi fasci littori che sorreggono le braccia della sedia. (Foto dell’autore).

Sei attiva protagonista di due importanti iniziative legate al rapporto tra studi classici e il concetto di razza. Da un lato il progetto “EOS africana receptions of Ancient Greece & Rome” dall’altro le conferenze “Racing the Classics”. Ci parli di questi due progetti e del ruolo che possono avere nella ridefinizione della disciplina?

Sì, innanzitutto saluto i co-fondatori, perché sono entrambe iniziative co-fondate. La collaborazione è davvero importante per me. Quindi voglio sempre assicurarmi che sia chiaro: non ho fatto queste cose da sola. Eos è stato avviato da Mathias Hanses (Penn State University), Harriet Fertik (University of New Hampshire), Caroline Stark (Howard University) e da me. Credo che l’impulso iniziale sia stato dato da Harriet e Mathias, poi su loro invito mi sono aggiunta anche io e infine è arrivata anche Caroline.

Eos nasce come un gruppo che si interessava alla Black reception in senso lato e voleva solo sapere chi fossero le altre persone che lavoravano in questo ambito. Volevamo fondare una società di studiosi e studiose in modo da poter sapere chi siamo, sostenere il lavoro degli altri e delle altre, leggere il lavoro degli altri e delle altre, e fare le cose che fanno gli studiosi e le studiose, i panel delle conferenze, cose del genere. Con il passare del tempo, però, è sorto in me il desiderio di dire: «bene, ma non voglio solo occuparmi del settore così com’è attualmente costituito, voglio renderlo diverso, voglio spingerlo in una diversa direzione». Per questo motivo, io stessa sto cercando di non focalizzarmi sull’ospitare e ideare solo panel di conferenze. In parte perché negli ultimi 10 anni la diversity nell’accademia è stata inquadrata come una casella da spuntare per dire: «beh, abbiamo una presenza nera, siamo a posto» e quindi non si affrontano i veri problemi strutturali. C’è il pericolo, credo, che Eos possa riconfermare lo status quo invece di spingere il sistema a cambiare. Personalmente, quindi, non mi interessano i panel delle conferenze, ma mi interessa cosa stiamo facendo come gruppo per promuovere un’agenda diversa, per immaginare cose diverse, e non solo per rendere le cose diverse per un futuro vago e lontano, ma per migliorare le condizioni di lavoro per noi stessi ora. Questo è Eos.

Invece, le conferenze Racing the classics hanno avuto origine letteralmente in una conversazione al telefono tra me e Dan-el Padilla Peralta. Entrambi ci stavamo lamentando di qualcosa nelle nostre rispettive istituzioni (all’epoca ero in un’altra università). A un certo punto mi ha detto: «sto pensando a una conferenza», gli ho risposto: «va bene, ma se deve essere una conferenza, deve essere una cosa seria». Stavo cercando di capire in cosa fosse davvero disposto a impegnarsi, e da lì tutto è partito. È così per la maggior parte delle cose che riguardano noi due, iniziano sempre con una sorta di sfida sin dai tempi in cui frequentavamo gli stessi corsi. E così siamo arrivati a parlare di come poter avere delle discussioni incentrate sulla razza senza che ci sia una sorta di sensazione di disagio nell’aria o di rifiuto delle nostre idee, ritenute irrilevanti per questioni più ampie. Così la serie di conferenze Racing the Classics, ora confluite in un progetto finanziato da una fondazione privata, sono incentrate sull’uso e sullo sviluppo di teorie critiche della razza e dell’etnia. L’evento riunisce studiosi e studiose il cui lavoro sulla cultura greca e romana antica ha sviluppato una considerazione approfondita sulla razza, sull’etnicità e sull’intersezionalità, per organizzare laboratori di scrittura e costruire una rete di feedback critici per i progetti futuri; cerca di aprire nuove strade per ciò che riguarda la conoscenza in ambito classico e il modo in cui lavoriamo insieme per produrre tale conoscenza.

In copertina: Thomas Jefferson Memorial situato a Washington DC. L’edificio progettato da John Russell Pope e inaugurato nel 1943 ha come esplicito modello il Pantheon di Roma. (Foto dell’autore).

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