StorieInMovimento.org

Purtroppo ancora presenti…

Come ogni anno anche questo 29 aprile neofascisti di Milano e del resto d’Italia si ritroveranno per commemorare Sergio Ramelli. Questo appuntamento è particolarmente significativo della politica della memoria della destra nostalgica italiana. Della “trincea della memoria” del neofascismo italiano aveva scritto Elia Rosati per «Zapruder» 42 “Ostinate e contrarie. Memorie e celebrazioni dell’altra Italia”.

Buona lettura/rilettura!

L’eterno Presente! La trincea della memoria storica del neofascismo italiano, il caso Sergio Ramelli

Elia Rosati

Il rapporto tra il neofascismo italiano del dopoguerra e la sua memoria è un tema centrale per capire come esso si senta una comunità di destino fedele ad un’ideologia e ad un preciso pantheon guerriero, che ne scandisce la vita, costruendo un calendario della memoria parallelo[1]. Da questo discende, anche, un preciso punto di vista storico tipico del mondo della destra radicale italiana che, vedremo, seppur negli ultimi vent’anni abbia trovato una formidabile occasione – a rimorchio della vicenda berlusconiana – di farsi discorso pubblico, mantiene ancora alcune caratteristiche antiche.
È quindi utile in primis concentrarsi sul delineare e decostruire l’auto-narrazione storica di una galassia politica caratterizzata da frazionismi, individualismi e arroccamenti identitari esasperati, ma capace comunque di sentirsi unita idealmente, a differenza – per esempio – del mondo dell’estrema sinistra. “Camerata” è colui che condivide una stessa trincea – nell’occhio del neofascista – che è parte dello stesso esercito, ma anche che ne sente la responsabilità e compartecipa al suo senso dell’onore; un punto, quest’ultimo, particolarmente importante nella costruzione dell’auto-narrazione neofascista.
Infatti esistono degli elementi comuni di fondo a tutta la visione e l’autodescrizione del neofascismo italiano che possiamo sintetizzare in un’ostentata incompatibilità – antropologica prima che storica – sia con l’Italia repubblicana sia – per dirla con Julius Evola – con il mondo moderno, vissuto come figlio del liberalcapitalismo e del suo braccio armato giacobino-massonico-bolscevico.
Parliamo quindi di una comunità di destino impegnata in una guerra alla realtà esistente, condotta da una galassia fiera anche se sconfitta, che non potrà mai sottrarsi al suo compito ancestrale – pena la dissoluzione – nell’aristocratica consapevolezza che etsi mortuus urit[2].

I fascisti si trovano, già dopo il 25 luglio, ad essere dei «proscritti legati ad una patria ideale che non ha più nulla che spartire con il paese della realtà»[3], una condizione prima ontologica che politica di cui saranno contemporaneamente orgogliosi rappresentanti e vittime. Questo produrrà un’autonarrazione esistenziale simile ai «soldati perduti»[4], di Ernst von Solomon: un tratto di fondo ineliminabile.

«Le radici profonde non gelano» (J.R.R. Tolkien, Il Signore degli anelli)

Volendo decostruire alcuni elementi al di là delle diverse fasi, la memoria identitaria della destra avrà sempre – però – due caratteristiche: la diffidenza per l’analisi storica ed il costante ricorso alla mitizzazione. Per quanto riguarda il primo elemento, parliamo di una condizione frutto di un pregiudizio culturale antilluminista: vi è infatti un’ostilità congenita verso il rigore scientifico ed il concetto stesso di analisi storica; all’occhio del neofascista l’esempio evenemenziale può solo testimoniare la fedeltà ad universali valori dello spirito (siano essi di volta in volta: sangue, razza, terra, nazione, comunità…) ma niente di più. Non è in fondo possibile quindi sottoporre ad indagine – come erroneamente fanno gli intellettuali borghesi «figli dello scetticismo illuminista»[5] – qualcosa che è «soltanto evocabile e demandato alla custodia del Guerriero»[6].
Del resto – come osserva Germinario – se davvero l’estrema destra italiana avesse analizzato storicamente il fascismo in tutte le sue fasi avrebbe dovuto inevitabilmente «prendere atto di una sconfitta epocale», «rovinosa» e «talmente profonda» da distruggere la «cittadella nostalgica»[7] faticosamente costruita dal Msi. Strettamente connesso con quanto detto, vi è poi – come si accennava – l’aspetto mitopoietico, cioè la cifra con cui gli eventi vengono incasellati e celebrati nella memoria collettiva dei fascisti, fornendo carburante ai tentativi di uso pubblico della storia da parte neofascista. Anche in questo caso, come attentamente osservato da Jesi, si tratta di una manipolazione ideologica del passato che «non solo è fondata nel presente ma […] prevede un preciso assetto del presente e del futuro»[8].
Chiave di volta per cogliere questa peculiare e costante operazione mitopoietica è il concetto di «idee senza parole»[9] di Oswald Spengler, in base al quale un “gesto”, “un comportamento” in modo esoterico parla a chi è qualitativamente in grado di ascoltarlo, “additando” e “designando” il futuro.
Il neofascismo utilizzerà tutto questo, elaborando una radicale mistica della morte volta a creare «una mitologia funeraria egemonica, totalizzante, posta come unico punto di riferimento vero delle norme che obbligano ad agire o a non agire, delle modalità di approccio a se stessi, agli altri uomini, al mondo, della visione della storia e della natura»[10].
Un insieme di eroi, oggetti, luoghi connessi alla sconfitta, ma incorruttibili, grandiosi e nascosti ai più; un pantheon, come si è detto, nel quale potranno trovare spazio tutti gli esempi guerrieri che la destra radicale necessiterà nel suo irriducibile ed orgoglioso scontro con il mondo dei vincitori. Tuttavia, dato fondamentale, questa ostentata estraneità al mondo moderno non si tradurrà mai in un’indifferenza verso la fase politica, sociale ed economica corrente[11]; come ben dimostrerà l’azione concreta ed il ruolo cercato e giocato dal neofascismo nostrano nella storia epubblicana.
Dal maggio 1945 apparve subito necessario iniziare a costruire un immaginario duraturo che giustificasse un’identità antisistemica[12], dispiegatasi prima nel terrorismo dei Fasci d’azione rivoluzionaria (Far) e sviluppatasi poi con la nascita del Movimento sociale dal dicembre 1946 in poi[13]. È però interessante notare come il Msi fin dalla sua gestazione venga concepito faticosamente da uno dei suoi padri[14] – Pino Romualdi – come un insieme di anime diverse riunite in una trincea comune: un tratto di fondo di una fotografia di famiglia che farà spesso capolino nella storia del neofascismo.
Un partito, una trincea di soldati perduti, dove potrà mai trovare modo di radunarsi nello spazio pubblico?
Dove potrà ricomporsi e stringersi?
Coerentemente con la sua mistica della morte, la destra costruirà i propri «templi della fede»[15] nei cimiteri, spesso in zone remote e raccolte nell’ex Rsi, a cominciare dai suoi più fulgidi esempi di guerrieri dell’idea, i combattenti della Repubblica sociale.

Gli eroi son (quasi) tutti giovani e belli

Se però i monumenti dei repubblichini sono spazialmente confinati in luoghi periferici[16], esistono invece all’interno delle principali città italiane dei sacrari più recenti, legati al ricordo di militanti neofascisti morti tragicamente nell’Italia repubblicana: una seconda tappa nella costruzione identitaria dell’altra-memoria del neofascismo nostrano – dopo l’omaggio alla Repubblica delle camicie nere – ma, come si vedrà, molto selettiva.
Infatti a differenza dei soldati perduti della Rsi, le vicende che coinvolsero i fascisti – in primis il Msi – in parlamento come nelle piazze imposero una riflessione sull’importanza della storia intesa come arma all’interno del discorso pubblico: la destra – per la prima volta, forse – comprese l’importanza di farsi senso comune e non più solo aristocratica memoria di pochi incorruttibili. Il neofascismo in realtà ebbe molti militanti morti nella storia repubblicana,
ma quelli ricordati e sacralizzati saranno solo i caduti negli anni settanta e di stretta osservanza missina.
A Milano – ad esempio – nell’immediato dopoguerra vennero uccisi due miltanti delle Sam[17] (e dei Far)[18] e un ex generale repubblichino (rispettivamente Enrico Meneghini, Felice Ghisalberti e Ferruccio Gatti ); a Pisa nel 1948, durante le violente manifestazioni seguite all’attentato a Togliatti, morì il giovane missino Vittorio Ferri, senza contare la controversa morte a Roma di Achille Billi[19]; mentre nel periodo 1950-53 – gli anni di Scelba e delle campagne per Trieste italiana – persero la vita in scontri di piazza con la polizia ben sei militanti missini (Pietro Adobati, Antonio Zavadil, Francesco Paglia, Erminio Bassa, Saverio Montano e Leonardo Manzi).
Di questi nomi non resterà traccia dal punto di vista dell’uso pubblico della storia, ma rimarranno un feticcio di gruppi di militanti molto periferici. Questo cambio di strategia negli anni settanta si può spiegare in base al mutato contesto sociale e politico.
Tra il 1968 ed il 1976, infatti, il neofascismo italiano si trovò a vivere un periodo intensissimo, in primis il Movimento sociale: tra fermenti neosquadristi, strategia della tensione, scontri di piazza, grandi successi/tonfi elettorali e un’infruttuosa lotta con i liberali di Malagodi e Bignardi per diventare l’unico partito d’ordine alla destra della Dc[20].
Giorgio Almirante – segretario ininterrottamente dal 1969 al 1986 – provò a gestire questa fase, sfruttando con spregiudicatezza tutte le carte in suo possesso, in primis le piazze[21], con il perenne problema di governare emotivamente le varie fazioni interne al suo mondo, anche costruendo un nuovo capitolo dell’altra-memoria. Un’operazione mitopoietica selettiva portata avanti lucidamente dal segretario, tramite l’aggiornamento del pantheon degli eroi con nuovi caduti, esclusi, anch’essi, dalla memoria civile e dalla pietas pubblica, perchè fascisti: un concetto riportato alla luce più recentemente da un noto libro sull’argomento di Telese, intitolato Cuori Neri[22].
I nuovi eroi divennero infatti: Graziano Girallucci e Giuseppe Mazzola (17 Giugno 1974, Padova), Sergio Ramelli (29 Aprile 1975, Milano), Mikis Mantakas (28 Febbraio 1975, Roma), Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni (7 Gennaio 1978, Roma, strage di Acca Larentia), Francesco Cecchin (16 Giugno 1979, Roma) e Paolo Di Nella (2 Febbraio 1983, Roma); come si può facilmente riscontrare dall’altissimo numero di sezioni e associazioni intitolate a questi personaggi.
Il nuovo capitolo dell’altra-memoria non considerò sia altri militanti missini uccisi da oppositori politici – come Emanuele Zilli, Carlo Falvella, Ugo Venturini, Enrico Pedenovi, Martino Traversa o Angelo Mancia – sia ovviamente i neofascisti armati appartenenti alla destra extraparlamentare caduti – come gli avanguardisti nazionali Salvatore Vivirito e Giancarlo Esposti, il sanbabilino Riccardo Manfredi, l’ordinovista Ivan Boccacio, i Nar Alessandro Alibrandi e Franco Anselmi o il terzoposizionista Nanni De Angelis.
Il Msi almirantiano costruì insomma una narrazione metastorica selettiva secondo la quale: la violenza politica dei lunghi anni settanta[23] aveva trovato nell’ “uccidere un fascista non è reato” il suo filo rosso; cominciando dai missini padovani morti nella sede del partito – in seguito ad un’azione delle Brigate rosse – fino a quello che è considerato a destra come l’ultimo strascico violento degli anni settanta, la morte di Di Nella.

Il caso di Sergio Ramelli

Tuttavia l’occasione con cui sperimentare la propria narrazione storica si concretizzò il 5 maggio 1975, durante il funerale per la morte di Sergio Ramelli[24], il futuro cuore nero ufficiale del partito.
La vicenda – oggettivamente tragica – venne presentata come un caso storico paradigmatico: chiaro il movente ed il colpevole – l’antifascismo militante – incorruttibile e pura la figura della vittima – giovanissima, sconosciuta alle cronache, perseguitata a scuola dalla sinistra extraparlamentare, colpita di notte sotto casa e lasciata lì semimorente.
Perfetto lo scenario: la città del sindaco partigiano Aldo Aniasi, delle chiavi inglesi, dei Katanga, del mito dell’autunno caldo[25], ma soprattutto la capitale di quella borghesia liberale preoccupata di cui Almirante ricercava ossessivamente la fiducia elettorale, maggiormente dopo la crisi della Destra nazionale[26] ed il grave imbarazzo per il giovedì nero del ‘73[27].
Infatti il 12 aprile del 1973 a Milano una manifestazione nazionale del Msi, vietata e poi disconosciuta dal partito stesso[28], degenerò in forti scontri che tennero in ostaggio la parte nord est del centro cittadino per diverse ore.
Durante gli incidenti di piazza alcuni sanbabilini uccisero con una bomba a mano l’agente di Ps Antonio Marino[29]: nel giro di pochi istanti tutta la campagna missina per presentarsi come partito d’ordine crollò; in una manifestazione del Msi era stato ucciso un poliziotto.
Fu così che la vicenda tragica di Sergio Ramelli, deceduto in seguito ai traumi ricevuti dopo una agonia di quarantotto giorni (il 29 aprile 1975), offrì la cinica occasione per un riscatto mediatico e storico.
Il Msi almirantiano in quel periodo – dicevamo – arrancava vistosamente, dopo i fasti elettorali del 1972, schiacciato dalla strategia andreottiana di asse con i liberali e l’impatto politico pubblico non solo del giovedì nero, ma soprattutto della strage di Brescia del 1974[30].
Il giovane camerata milanese divenne quindi l’eroe al quale intitolare sezioni giovanili e striscioni in tutto il paese, mentre le immagini della bara sorretta da un commosso Giorgio Almirante – oltrechè dai deputati Franco Servello e Giorgio Pisanò – faranno il giro d’Italia grazie alla televisione[31].
Il Msi potè quindi prendersi la scena ed avere il palcoscenico per narrarsi come forza politica generosa e dotata di senso di responsabilità verso la nazione, un pezzo genuino d’Italia – tanto da essere considerato scomodo – contro cui era in atto da sempre una azione repressiva, anche giudiziaria.
Il partito lasciò proprio al deputato milanese Franco Servello il compito di mettere il tutto nero su bianco in un pamphlet del 1976, Il complotto, in cui si denunciava una «strategia marxista» di corruzione dello stato che comprendeva «sindacati, magistratura, cultura, grande industria, strumenti dell’informazione»[32]. Seguiva poi una rilettura negazionista di tutto il coinvolgimento neofascista nella strategia della tensione e l’accusa alla Resistenza di essere stata un «cavallo di troia dei comunisti»[33] per introdursi nello stato con il beneplacito degli
Alleati.
Il Msi-Dn – secondo Servello, invece – si batteva come unico baluardo contro il comunismo, visto che una Dc succube del complotto era imbrigliata da un centrosinistra alle dirette dipendenze di Mosca[34].
Il deputato milanese si spingeva poi a parlare di Mussolini, della Rsi, del falso golpe Borghese, della Spagna franchista, e del ruolo dell’esercito (dai ragazzi del ‘99 in poi!): esempi virtuosi dell’Italia e dell’occidente.
La morte del giovane missino milanese viene inserita anch’essa in questa maldestra carrellata storica, in quanto esempio di «uno studente che osa esprimere una convinzione contraria al commando permanente della sua scuola», oggetto di una «soppressione fisica» che ne fa «il martire diciassettenne Sergio Ramelli»[35].
Al di là poi della eco di quegli anni, sul caso Ramelli – successivamente anche dal punto di vista giudiziario – si costruirà l’autonarrazione storica più forte degli anni settanta per la destra radicale italiana, capace di essere condivisa trasversalmente anche dai movimenti extraparlamentari e terroristici neofascisti.
È estremamente interessante da questo punto di vista come il Msi gestì una nuova indagine sull’omicidio Ramelli nella metà del 1985 che in base alle dichiarazione di tre lottarmatisti rossi lombardi, poi pentiti, portò i giudici del tribunale di Milano Maurizio Grigo e Guido Salvini a mandare alla sbarra diversi ex esponenti di Avanguardia operaia, tra cui i responsabili dell’omicidio del giovane neofascista.
Per una casualità[36] venne ritrovato inoltre nel dicembre 1985 un ingente quantitativo di materiale cartaceo e fotografico – occultato in un abbaino – appartenente – secondo gli organi inquirenti – ad un “archivio” della sinistra extraparlementare milanese degli anni settanta che comprendeva anche informazioni utili all’inchiesta Ramelli. Con tutta probabilità si trattava di carte inizialmente appartenute ad Avanguardia operaia e poi probabilmente utilizzate come database da varie organizzazioni[37].

Il processo Ramelli, che arrivò alla sentenza di primo grado il 16 maggio 1987, fu un evento ampiamente mediatizzato, condotto con abilità dall’avvocato di parte civile Ignazio La Russa – storico esponente del Msi lombardo – coadiuvato da una forte campagna stampa del «Secolo d’Italia», che aveva come inviata a seguire la vicenda giudiziaria la giornalista missina Flavia Perina[38].
L’Italia si sentiva nella sua materialità storica distante dagli anni settanta, questo permise al Msi di gestire integralmente l’impatto comunicativo della vicenda, con l’ambizione di imporre una lettura di quella fase storica che lo legittimasse come forza autenticamente democratica, ritenuta troppo spesso un facile capro espiatorio. Il tutto avvenne screditando e dipingendo i militanti di sinistra alla sbarra come degli agiati giovani borghesi, cultori della spranga, diventati poi dei professionisti affermati senza mai un attimo di ripensamento sui loro crimini politici[39]: una descrizione caricaturale di tutto l’estremismo rosso extraparlamentare, che non dispiacque anche a «l’Unità»[40].
Il 1987 vede poi anche il primo corteo missino per commemorare Ramelli il 29 aprile, con l’immancabile “presente” – accompagnato dal saluto romano – nel luogo dell’aggressione mortale, dove da tempo esisteva un piccolo murales creato dai militanti missini. Va ricordato infatti che il Msi aveva completamente riassorbito, tranne pochissime eccezioni sottoculturali – la galassia naziskin – , tutto l’arcipelago del neofascismo italiano – a piede libero – sopravvissuto agli anni settanta, coltivando negli anni ottanta una nuova base giovanile muscolare e militante[41], cresciuta nella trincea della memoria.

Meno male che Silvio c’è

Tuttavia anche se la destra provò col processo Ramelli a rovesciare la visione degli anni settanta e a ripulire la propria immagine, le possibilità di produrre una cesura nella memoria storica condivisa del paese avvenne solo con la seconda repubblica. La discesa in campo di Berlusconi[42], l’alleanza con il Msi e la Lega e la vittoria alle elezioni del 1994 aprirono le porte della stanza dei bottoni agli eredi diretti del neofascismo, un fatto assolutamente impensabile fino a pochissimi anni prima; in sé e per sé questo avrebbe già comportato un grande cambiamento.
Si profilò una possibilità complessa per i successori di Almirante e Romualdi: raccogliere la sfida di diventare senso comune, di entrare nella storia patria ufficiale senza la necessità di abiurare il proprio passato o stravolgere la propria identità[43]. È significativo per esempio che ancora nell’ottobre del 1992, solo quindici mesi prima di andare al governo, ricorda Ignazi, il Msi di Gianfranco Fini organizzò una manifestazione per commemorare in piazza Venezia il settantesimo anniversario dalla marcia su Roma[44].
Gli eredi del più importante partito neofascista europeo – ora Alleanza nazionale – potevano insomma permettersi di alzare il tiro e lo fecero in primis impegnandosi in un aspro conflitto sulla memoria storica dipingendo la nuova fase politica come una possibilità di pacificazione nazionale, con l’avallo anche di alcune importanti voci del mondo ex comunista.
Tuttavia anche se la battaglia vera si spostava sul tema della Resistenza, l’importanza della vicenda Ramelli non diminuì, anzi continuò ad essere la breccia da cui aggredire e minare l’identità antifascista repubblicana.
Il fatto di non riconoscere dignità e spazio nella memoria condivisa alla destra italiana veniva spesso associato alla contrapposizione militante degli anni settanta, alludendo anche – senza nominarla apertamente – alla lotta di Liberazione.
Quelli che venivano dipinti come sprangatori sanguinari diventavano in questo gioco di sponda i figli zelanti dei partigiani: e se gli eredi sbagliano, è colpa sempre dei padri, in fondo.
Il martire Sergio Ramelli tornerà quindi spesso, in tutta la penisola, nelle aule dei consigli comunali o provinciali, nei discorsi ufficiali, nelle interviste, negli slogan, nei programmi elettorali e sui muri, quasi sempre nelle polemiche sulla toponomastica ingaggiata da decine di amministrazioni di centrodestra negli anni berlusconiani: si tratti della targa posta nella scuola superiore della vittima[45] o della richiesta di intitolazione di una via[46].
A tutto questo si sommò inoltre la capillare e costante battaglia culturale intrapresa da Silvio Berlusconi contro la memoria della Resistenza ed il suo simbolo civile più noto, la festa del 25 aprile: una campagna nella quale il leader politico non si risparmiò, andando spesso ben al di là delle posizioni di Alleanza nazionale[47].
Dal 1994 ad oggi è indubbio che anche quest’azione convergente tra ex missini e Berlusconi abbia pesato nella riscrittura della memoria civile collettiva, in un’Italia sempre più distaccata dalla propria storia resistenziale[48].
È significativo infatti che il revisionismo berlusconiano abbia rappresentato tra il 2001 ed il 2008, come osservato da Caldiron, un preziosissimo elemento di coesione interna della litigiosa coalizione di centrodestra[49].

Una nuova fase

Dal 2008-09 ad oggi però si è consumata un’indubbia nuova forzatura storica nello spazio pubblico da parte della destra radicale, dovuta anche alla capacità mediatico-attivistica di nuove formazioni politiche neofasciste, dotate di un appeal giovanile molto più spiccato, che ha consentito loro di raccogliere i frutti del revisionismo berlusconiano.
Sicuramente questo nuovo passaggio è stata determinato dalla autonomizzazione del movimento-partito Casa pound Italia (Cpi), autoproclamatosi fascisti del terzo millennio: una realtà che ha portato nel mondo neofascista una grande attenzione per gli immaginari e il proselitismo comunicativo.
Nonostante Cpi abbia un’attenzione particolare alla mitopoiesi e all’uso spregiudicato di riferimenti storici, è interessante soffermarsi però su un contesto meno settario, ma unificante.
Un nuovo scattare una foto di famiglia del neofascismo, aggiornata sicuramente, ma comprendente ancora tutti: non a caso il martire Ramelli tornerà prepotentemente sulla scena pubblica. Tutta la destra radicale milanese dal 2009 infatti – sfruttando ancora una volta l’anniversario della morte di Sergio Ramelli – concepì un’ambiziosa sfida: una nuova possibilità di giocare sul piano mainstream per quel mondo che Roberto Chiarini ha spesso definito destra occulta[50].
Il 29 aprile tutte le sigle dell’estremismo nero meneghino[51] (Azione giovani, Casa pound Italia, Forza nuova e Hammerskin-lealtà azione) presero l’abitudine di organizzare delle iniziative stabili[52] che culminassero in un corteo serale silenzioso in onore di tre martiri della violenza antifascista: Sergio Ramelli – ovviamente – ma anche Enrico Pedenovi e soprattutto Carlo Borsani.
Lo stesso svolgimento della manifestazione allude ad una scenografia marziale, i partecipanti si schierano e marciano rigidamente in file da cinque, preceduti solo da uno striscione “onore ai camerati caduti”, da dei portabandiere – che
utilizzano tre stendardi con la croce celtica – e, davanti a tutti, da alcuni militanti provvisti di tamburi, utilizzati per scandire il ritmo del passo del corteo[53].
La scelta di ricordare in una manifestazione pubblica non solo il giovane militante, ma anche un esponente del Msi più anziano, ucciso da Prima linea (1976) ed un noto milite della Rsi (fucilato dai partigiani nel 1945) sfruttando formalmente la comune data di morte – il 29 aprile appunto – rappresenta una vera e propria offensiva della memoria unica e particolarmente ambiziosa.
Seppur negli ultimi due anni questa composizione politica non riesca più, anche grazie al clamore suscitato da alcune inchieste della magistratura e alle contro iniziative antifasciste, a marciare in corteo, viene comunque mantenuta la mobilitazione – spesso un concerto di musica alternativa d’area – ed il rito del presente nei luoghi delle targhe commemorative ai tre militanti fascisti uccisi.
Il caso delle manifestazioni neofasciste del 29 aprile a Milano appare insomma un perfetto esempio di uso pubblico della storia declinato nell’oggi e figlio del generale sbandamento della memoria collettiva del nostro paese.
Non è un caso che l’annuale anniversario rappresenti anche l’occasione per ristampare libri d’area d’inchiesta sulla vicenda di Ramelli, Pedenovi e Borsani da proporre in iniziative sparse su tutto il territorio nazionale, oppure sperimentare nuove forme comunicative come la graphic novel[54] annunciata per le mobilitazioni del 2017.
La vicenda del ricordo militante di Sergio Ramelli appare quindi uno specchio della crescente attenzione per l’uso della memoria da parte del neofascismo negli ultimi decenni; una strategia che può ancora riservare delle sorprese.


[1] In riferimento all’omonima pubblicazione annuale dalla più importante associazione combattentistica fascista attiva in Italia, la Federazione nazionale combattenti della repubblica sociale italiana (Fncrsi).
[2] Citazione da uno dei testi più utilizzati nell’educazione politica dei militanti neonazisti europei dagli anni sessanta ad oggi, la raccolta degli stralci dei diari di guerra del collaborazionista belga Léon Degrelle (1906-1994), personaggio divenuto leggendario per aver partecipato da volontario straniero all’operazione Barbarossa e aver comandato nel 1945 la 28° SS Freiwillige Panzergrenadier Division “Vallonie” nella difesa di Berlino, prima di fuggire nella Spagna di Franco. La raccolta citata, dal titolo originale Almas ardiendo, venne data alle stampe la prima volta in spagnolo negli anni cinquanta a cura di Gregorio Marañon, per poi venir pubblicata in francese in un’edizione rivista dall’autore come Les ames qui brûlen (Parigi, 1964); comparve per la prima volta in italiano per la casa editrice Ar di Padova dell’ordinovista Franco Freda nel 1977 con il titolo di Militia. Cfr. Léon Degrelle, Militia, Ar, 2008, p. 17.
[3] Marco Tarchi, Esuli in patria. I fascisti nell’Italia repubblicana, Guanda, 1995, p. 20.
[4] L’espressione compare nel romanzo autobiografico Die Geächteten dell’ex-freikorps Ernst von Salomon,
impegnato sul fronte baltico contro l’Armata rossa nel 1919, pubblicato in Italia da Einaudi, ironia della sorte, proprio nel 1943. Marco Revelli, nella postfazione all’edizione italiana del 1994, osserva che i soldati narrati da von Salomon rappresentano un perfetto esempio di «esistenzialismo guerriero che animò in entrambi i dopoguerra ogni esperienza nazional-rivoluzionaria». Cfr. Marco Revelli, Ernst von Salomon: le patologie dell’alterità, in Ernst von Salomon, I Proscritti, Baldini Castoldi, 1994, p. 483.
[5] Cfr. Adriano Romualdi, Una cultura per l’Europa, Edizioni Settimo Sigillo, 1986, pp. 72-74.
[6] Francesco Germinario, Da Salò al governo. Immaginario e cultura politica della destra italiana, Bollati Boringhieri, 2005, p. 40.
[7] Cfr. F. Germinario, L’altra memoria. L’estrema destra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhieri, 1999, p. 16.
[8] Furio Jesi, Cultura di destra, Nottetempo, 2011, pp. 23-24.
[9] Cfr. Oswald Spengler, Anni decisivi. La Germania e lo sviluppo storico mondiale, Bompiani, 1934, pp. 4-8.
[10] F. Jesi, Cultura di destra, cit., pp. 54-55.
[11] Cfr. F. Germinario, Da Salò al governo, cit., p. 45.
[12] Cfr. Paolo Nello, Il partito della Fiamma. La destra in Italia dal MSI ad AN, IEePI, 1998, p.13.
[13] Cfr. Giuseppe Parlato, Fascisti senza Mussolini, il Mulino, 2006, pp. 227-254; Giuliana de’ Medici, Le origini
del M.S.I., dal clandestinismo al primo Congresso (1943-1948)
, ISC, 1986, pp. 145-151.
[14] Ivi, pp. 250-254.
[15] Ivi, p. 177.
[16] La mappa delle altre Predappio è decisamente lunga, solo per citarne alcune tra quelle più note per le manifestazioni nostalgiche che vi si organizzano, vanno ricordate: il cimitero di Rovetta (Bg) della legione Tagliamento, il campo della memoria di Nettuno, la croce sul monte Manfrei (Sv) e i monumenti ai morti della Rsi all’interno dei cimiteri di Bergamo, Genova, Somma Lombardo, Trespiano (Fi), Monza. Si trovano poi molti cippi in memoria di esecuzioni sommarie di fascisti di Salò (spesso successive alla fine della guerra), diventati anch’essi luoghi di commemorazioni militanti come: lo stadio di Lecco, la biblioteca di Schio (Vi), la lapide di Saccol di Valdobbiadene (Tv) oppure la tomba di Roberto Farinacci a Cremona. Mentre una vera e propria oasi per i neofascisti è Piccola Caprera a Ponti sul Mincio (Mn): si tratta di un tenuta donata ai reduci della 136ª Divisione corazzata “Giovani Fascisti” nel 1959 da Fulvio Balisti (soldato nella prima guerra mondiale, legionario fiumano e vicepresidente del Pfr). Dal 1962 vi è presente un museo (riconosciuto ufficialmente dal 1999 dalla regione Lombardia), dei monumenti ed uno spazio per cerimonie e raduni, ancora gestito dall’associazione combattentistica del “Reggimento Giovani Fascisti” e attivamente
frequentato dalla destra radicale giovanile odierna.
[17] La storia delle Squadre d’azione Mussolini (Sam) è ancora un tema poco studiato: se da un certo punto di vista Sam fu più un generico nome di copertura per rivendicare delle azioni di sabotaggio in giro per l’Italia (per esempio cfr. Archivio centrale dello stato, ministero dell’Interno, Direzione generale di Pubblica Sicurezza, (d’ora in poi Acs, Mi, Dgps), Divisione Sis, Sezione II, b. 44, fasc. LP43, Venezia, Bande armate Sam, Relazione al Ministro dell’Interno, O. G. Romita, del 24 maggio 1946 oppure il più generale Acs, Mi, dgps, Divisione SIS, b. 66, fasc. Neofascismo, pp. 3-5.), ci fu anche un piccolo gruppo lombardo, capitanato da Domenico Leccisi, che adottò tale denominazione per primo e strutturò una campagna di propaganda armata duratura. L’azione più nota delle Sam di Leccisi fu indubbiamente il furto della salma di Mussolini dal cimitero di Musocco a Milano. Cfr. Acs, Mi, Dgps, divisione Sis, sezione II, b. 37, Trafugamento salma Mussolini. Molti anni dopo lo stesso Domenico Leccisi narrerà anche le gesta delle sue Sam (e del Partito democratico fascista) in un testo di memorie, cfr. Domenico Leccisi, Con Mussolini prima e dopo Piazzale
Loreto
, Settimo Sigillo, 1991.
[18] A differenza delle decine di effimere organizzazioni armate fasciste attive nell’immediato dopoguerra, i Fasci d’azione rivoluzionaria rappresentarono un tentativo di federare e coordinare in modo stabile questi vari gruppi. I primi Far sorgeranno infatti per iniziativa e con la supervisione di Romualdi e rappresenteranno un iniziale organismo strutturato all’interno della galassia del neofascismo, su cui poi riformare un nucleo dirigente, una parte del quale darà vita al primo embrione del Msi. Sulle attività della prima fase dei Far, cfr. Acs, Mi, Dgps, Divisione Sis, sezione II, b. 40.
[19] Achille Billi, ex-bersagliere della Rsi e militante delle organizzazioni giovanili missine, venne misteriosamente ucciso la notte del Verano con la presenza di centinaia di neofascisti. Cfr. Funerali fascisti al missino
Billi
, «Corriere dell Sera», 9 aprile 1949 oppure Pietro Ingrao, Corruttori della gioventù, «l’Unità», 9 aprile 1949. Il questore Saverio Pòlito parlò di circa cinquemila fascisti presenti al Verano. Cfr. Acs, Mi, Dgps, 1949, b. 22, lettera del questore di Roma, 29 maggio 1949.
[20] Cfr. Simona Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Laterza, 1997, pp. 406-412 e 466-469.
[21] Cfr. Davide Conti, L’anima nera della Repubblica, p. 116 e ss.
[22] Cfr. Luca Telese, Cuori Neri. Dal rogo di Primavalle alla morte di Ramelli, 21 delitti dimenticati degli anni di
piombo
, Sperling&Kupfer, 2006.
[23] Per quanto riguardo le prese di posizione ufficiali del Msi si può fare riferimento alle raccolte dei discorsi parlamentari: (sulla violenza politica dei primi anni settanta) il Seme della violenza, edizioni gruppo
parlamentare del Msi-Dn, Senato della Repubblica, 1975 oppure (sulla strategia della tensione) Mario Tedeschi, La strage contro lo stato, Edizioni del Borghese, 1973.
[24] La sera del 13 marzo 1975 Sergio Ramelli (giovane militante del Fronte della gioventù milanese) venne
aggredito violentemente in agguato sotto la sua abitazione (in zona città studi) ad opera di un gruppo di
militanti dei Avanguardia operaia. Per le ferite riportate morì il 29 aprile dopo più di un mese di coma.
[25] Questa costruzione simbolica e storica a senso unico è ben rappresentata nel volume d’area Guido
Giraudo et. al., Sergio Ramelli. Una storia che fa ancora paura, Effedieffe, 1998, pp. 11-37. Cfr. anche Nicola
Rao, Il sangue e la celtica. Dalle vendette antpartigiane alla strategia della tensione. Storia armata del neofascismo,
Sperling&Kupfer, 2008, pp. 219-244.
[26] Cfr. D. Conti, L’anima nera della Repubblica, cit., pp. 201-205.
[27] Sul giovedì nero di Milano è stata pubblicata di recente una monografia dal taglio giornalistico, cfr. Saverio Ferrari, 12 Aprile 1973, il “giovedì nero” di Milano. Quando i fascisti uccisero l’agente Antonio Marino, Redstarpress, 2016.
[28] Sia l’indizione del corteo che le circolari interne del Movimento sociale e il materiale propagandistico
sono contenuti negli atti del processo seguito agli scontri, cfr. Acs Milano, Trib. Mi, AG, Assise RG.T 147/74,
Faldone 1, Loi+Altri.
[29] Cfr. Alfredo Pieroni, La marcia su Milano, «Corriere dell Sera», 13 Aprile 1973, articolo reperito in archivio.corriere.it (ultima consultazione 13 ottobre 2016).
[30] Cfr. S. Colarizi, Storia dei partiti dell’Italia repubblicana, cit., pp. 466-471.
[31] Cfr. Leo Siegel, Ramelli un morto che fa paura, «Candido», 5 maggio 1975.
[32] Franco Servello, Il complotto, Il Borghese e Ciarrapico, 1976, p. 168.
[33] Ivi, p. 19.
[34] Cfr. ivi, p. 169.
[35] Ivi, p. 170.
[36] Secondo le ricostruzioni giornalistica di Paolo Longanesi su «il Giornale» (primo cronista a dare la notizia) il ritrovamento di quello che passerà alla storia come “l’archivio di Avanguardia operaia” nell’abbaino di viale Bligny 42 sarebbe stato del tutto casuale e dovuto al gesto di un disoccupato che avrebbe occupato alla fine di dicembre quella soffitta (perchè senza casa).
[37] Cfr. Enrico Bonerandi, Dall’omicidio Ramelli spunta una pista: porta alle Brigate Rosse, «La Repubblica», 31
dicembre 1985, articolo reperito in ricerca.repubblica.it/archivio (ultima consultazione 17 settembre 2016).
[38] Ad esempio, cfr. F. Perina, Un processo a lungo atteso, il «Secolo d’Italia», 11 febbraio 1987, articolo reperito
in www.crdc.it/archivio_ramelli (ultima consultazione 23 ottobre 2016).
[39] Un esempio di quanto la lettura storica missina filtrò nel senso comune è rappresentato dalle cronache
del processo apparse sul Corsera come ad esempio quella che descrive gli imputati durante la prima udienza, cfr. Fabio Felicetti, Medici in grigio come tanti, «Corriere dell Sera», 17 marzo 1987.
[40] Basta leggere le cronache dell’inviato Paolo Boccardo, ad esempio cfr. P. Boccardo, Ricordo Ramelli che gridava no, no…, «l’Unità», 28 marzo 1987, articolo reperito in www.crdc.it/archivio_ramelli (ultima consultazione 23 ottobre 2016).
[41] Cfr. Alessandro Amorese, Fronte della Gioventù. La destra che sognava la rivoluzione: la storia mai raccontata,
Eclettica, 2013, pp. 36 ss.
[42] Cfr. Piero Ignazi, Vent’anni dopo. La parabola del berlusconismo, il Mulino, 2014, pp. 70-116.
[43] Cfr. Giovanni Orsina (a cura di), Storia delle destre nell’Italia repubblicana, Rubbettino, 2014, p. 120.
[44] Già nei giorni prima in sostegno a Cossiga e alle inchieste di tangentopoli il Msi aveva organizzato un’adunata di cinquantamila persone che transitò in piazza Venezia al grido di “duce duce!”, cfr. Alessandra Baduel, A Roma marciano i fascisti, «l’Unità», 18 ottobre 1992.
[45] Cfr. “Targa al Molinari per ricordare Ramelli” via libera del Governo, «Corriere dell Sera», 3 maggio 2007, oppure Ramelli dopo 34 anni il Molinari lo ricorda con una cerimonia, «Il Secolo d’Italia», 29 aprile 2009. Sulla commemorazione del 2010, invece cfr. Franco Vanni, Ramelli, al Molinari niente commemorazione, in «La Repubblica», 24 aprile 2010, oppure La destra ricorda Ramelli – tensione davanti alle scuole, «Corriere dell Sera», 24 aprile 2010.
[46] Recentemente Forza nuova il 6 luglio 2016 ha organizzato una manifestazione dislocata nell’anniversario
dei sessant’anni dalla nascita di Sergio Ramelli, censendo su facebook ventiquattro luoghi pubblici intitolati in Italia al giovane attivista missino milanese, cfr. https://it-it.facebook.com/events/104924203271788/
Da indagine web (condotta il 12 luglio 2016) una “via Sergio Ramelli” risulta presente nelle toponomastica
di Modena, Arezzo, Ragusa, San Severo (Fg), Crotone, Pedara (Ct), Codogno (Lo), Lisanza (Va), Mesenzana (Va), Desio (Mb), Vigevano (Pv), Pellegrina (Vr), Spianate (Lu), Castelfranco Emilia (Mo); mentre esiste un “largo S. Ramelli” ad Ospedaletti (Im) e i “giardini Sergio Ramelli” a Milano.
[47] Cfr. Aram Mattioli, “Viva Mussolini”, Garzanti, pp. 70-76.
[48] Cfr. Roberto Chiarini, 25 Aprile. La competizione politica sulla memoria, Marsilio, 2005, pp. 114-119.
[49] Cfr. Guido Caldiron, Lessico postfascista, Manifestolibri, 2002, p. 150.
[50] Cfr. R. Chiarini, Alle origini di una strana Repubblica. Perchè la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra,
Marsilio, 2013, pp. 15-16.
[51] Come inoltre queste manifestazioni abbiano coinvolto in una unica foto di famiglia tutte le anime delle destra milanese – compresi Fratelli d’Italia – è testimoniato anche dalle biografie degli inquisiti nei due processi seguiti alle denunce dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi) in base alla Legge Scelba (art. 5 legge n. 656/1952), da poco conclusisi. Cfr. Trib.Mi, Sentenza 1739/15, N. 12357/14 RG GIP, 10 Giugno 2015 e Trib. Milano, Sentenza 12338/15, N. 5588/15 RG T, 8 febbraio 2016.
[52] Va sicuramente ricordato come prima nel 2009 e nel 2010 vennero promosse delle manifestazioni sportive intitolate a Ramelli organizzate dall’arcipelago neofascista milanese ma con il patrocinio del Comune di Milano e della Provincia di Milano, cfr. Moratti e Anpi corone per i partigiani, «Corriere dell Sera» Ed. Milano, 23 aprile 2010, articolo reperito in archivio.corriere.it (ultima consultazione 18 ottobre 2016).
[53] Cfr. Corteo fascista nelle vie di Milano in centinaia con croci celtiche e tricolori, «La Repubblica» Ed Milano on line, 29 aprile 2010, articolo reperito in milano.repubblica.it (ultima consultazione 18 ottobre 2016). Sul polverone mediatico sollevato fin dal 2010 dal corteo neofascista ad esempio, cfr. Cesare Giuzzi, Condanna degli ex deportati contro la manifestazione del 29 Aprile, in «Corriere dell Sera», 3 maggio 2010, articolo reperito in archiviostorico.corriere.it (ultima consultazione 18 ottobre 2016).
[54] Cfr. Marco Carucci e G. Giraudo (con i disegni di P. Ramella), Sergio Ramelli. Quando uccidere un fascista non era reato, Ferrogallico, 2017.

Tagged with:     , ,

Related Articles

Post your comments

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Licenza

Licenza Creative Commons

Tutti i contenuti pubblicati su questo sito sono disponibili sotto licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale (info qui).

Iscriviti alla newsletter di SIM