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Dalla A alla Z. Altre storie e storie altre

Dalla A alla Z. Altre storie e storie altre

A come archivio, zeta come zoom; a come anabattisti, zeta come zeloti. E ancora – con lo sguardo rivolto al presente, dove Clio e Marte non sono stati ancora messi “in soffitta” (con buona pace di Francis Fukuyama che, dopo il collasso del “socialismo reale”, s’interrogava sulla possibilità di un’epoca a-conflittuale che avrebbe condotto alla “fine della storia”) – a come Adua, zeta come Zimmerwald. Ma anche a come Alimonda (piazza) e zeta come zona (rossa). Sono degli esempi. Potremmo continuare per pagine, con una serie di a e di zeta che rendano l’idea di ciò che questa rivista e il progetto che ne è alla base intendono affrontare. Senza farla lunga, diciamo che “Zapruder” e il progetto Storie in movimento – nati dopo una fase di gestazione assembleare durata più di un anno – vorrebbero essere ambiti di confronto, controproposta e approfondimento culturali dai quali riflettere attorno a storie e storiografie altre. Interpretando le discipline storiche e i circuiti ad esse correlati come laboratori creativi e come arene di conflitto, vorremmo dare spazio a quanti/e non si riconoscono nelle tendenze oggi prevalenti nel panorama storiografico: quella banalmente ideologica, funzionale a un uso mediatico e politico-istituzionale degli studi, e quella – speculare in ogni senso e altrettanto carica di valenze ideologiche – tendente alla loro deideologizzazione. Vorremmo rompere i confini e le distinzioni tra storia militante e pratica scientifica, tra sapere alto e divulgazione di buon livello, individuando i rispettivi limiti (e pregi) e rimettendo in comunicazione luoghi e soggetti diversi della produzione del sapere storico. Vorremmo essere prefigurazione di una storia che nasca, oltre che dalla riflessione sul presente, dal desiderio di essere presenti, di esercitare qualche forma di azione e d’iniziativa. Storie in movimento dunque; che sta a significare non solo la vicinanza della storia ai soggetti sociali oggetto di studio, ma anche la dinamicità, la fluidità e la pluralità della disciplina: ci sono tante storie, diverse tra loro nello spazio e nel tempo, sempre in divenire poiché in relazione costante con un presente che le condiziona. Una rivista e un progetto intesi come rete comunicativa multipla, come laboratorio di studio e sperimentazione.

In questa prospettiva, riteniamo fondamentale l’esplorazione di nuove pratiche di ricerca e di comunicazione che contrastino gli atteggiamenti monopolistici dell’accesso alle risorse, il carattere individualistico e solitario della ricerca, la finalizzazione degli studi al “mercato accademico” e – ultimo ma non meno importante – la perdita di dignità della disciplina e di chi è costretto/a a operarvi in queste condizioni. Vorremmo inoltre dare spazio anche a coloro che, dopo anni d’indifferenza, si collocano – senza troppe remore – al fianco dei movimenti anticapitalisti e antiliberisti, delle mobilitazioni contro la guerra, delle lotte delle donne, dei lavoratori e di quelle antimperialiste dei popoli del Sud del mondo. Ovviamente, in “Zapruder” ci sarà spazio per tutti. Anche per coloro che non condividono necessariamente le nostre aspirazioni. Altrimenti partiremmo col piede sbagliato. La nostra rivista e il nostro progetto non vogliono trasformarsi in strumenti di una rete relazionale autoreferenziale. Nonostante i nostri intendimenti siano chiari ed espliciti (quanto ambiziosi), “Zapruder” non vuole essere una rivista di tendenza. Non vuole veicolare letture del passato che canonizzino eventi, processi, dinamiche e interpretazioni. Vorrebbe invece diventare uno strumento di dibattito attorno alla storia del conflitto sociale, intesa a trecentosessanta gradi. Quindi la storia della conflittualità sociale dall’a alla zeta: dal sociale in senso stretto (classi e attori/trici sociali) al sociale in senso lato (dunque anche il politico, il culturale, il non pubblico, ecc.); dallo studio di eventi e dinamiche all’analisi di linguaggi e rappresentazioni; in termini cronologici, dalla “notte dei tempi” ai nostri giorni (rifiutando – ci teniamo a sottolinearlo – le periodizzazioni eurocentriche: storia antica, medievale, moderna e contemporanea); a livello espositivo, dai lessici più “canonici” a quelli più innovativi, dalla microstoria alle “grandi narrazioni”; infine, geograficamente parlando, dall’Italia al mondo intero con qualche incursione – come si evince da questo primo numero – verso altre dimensioni e altri pianeti. Il “materiale” e l'”immaginario”, l'”utopia” e la “scienza”, la “finzione” e la “realtà”. La a di anarchia e la zeta di Zorro.

A questo punto, qualche lettore si sarà già chiesto perché (se non cos’è) Zapruder. È presto detto. Il signor Abraham Zapruder è colui che quasi quarant’anni fa filmò l’uccisione di John F. Kennedy a Dallas (il 22 novembre 1963). Tra le varie ipotesi, si è scelto Zapruder non tanto perché tale nome sia rappresentativo di un fenomeno di conflittualità sociale, quanto perché, al pubblico italiano, dice e non dice, ha un suono vagamente ironico, non è didascalico, incuriosisce ed è una sorta di telecamera sulla storia. Ma mister zeta rappresenta anche il limite della fonte (nuova o vecchia che sia), la sua manipolabilità, il suo uso strumentale, la sua parzialità. La zeta che caratterizza la nostra testata è invece un omaggio al film Z di Costantin Costa-Gavras, del 1969. Radice del verbo greco zào (zào), vivere, la zeta – con il significato di “è vivo” – era la lettera che i giovani greci scrivevano sui muri dopo l’assassinio del loro leader Gregorios Lambrakis, avvenuta a Salonicco quarant’anni or sono, il 22 maggio 1963. Fuor di retorica e senza assilli da anniversario, una delle tante date simbolo per la storia della conflittualità sociale. Nell’arco dei quattro mesi che ci separano dall’uscita del secondo numero, ci sarebbero molte altre date da menzionare allo scopo di rifletterci sopra da prospettive differenti da quelle sin’ora adottate: dal sessantesimo del crollo del regime fascista (25 luglio 1943) e dell’inizio della Resistenza (8 settembre), al cinquantesimo dell’uccisione sulla sedia elettrica dei giovani coniugi Ethel e Julius Rosemberg, “giustiziati” come spie sovietiche il 20 giugno 1953; dal trentesimo del golpe – made in Usa – in Cile con la conseguente mattanza di oppositori politici (11 settembre 1973), al venticinquesimo dell’uccisione di Peppino Impastato, militante della nuova sinistra impegnato nella lotta ai poteri mafiosi, avvenuta il 9 maggio 1978 (lo stesso giorno in cui viene trovato il corpo del presidente della Dc Aldo Moro). Ma rischieremmo di cadere nella trappola mediatica della rincorsa delle “scadenze” in funzione commemorativo-celebrativa, finendo per proporre spunti di riflessione che, quasi inevitabilmente, si trasformerebbero in interventi riconducibili ad un genere saggistico-letterario che lascia il tempo che trova. Pur non tralasciando l’esame del nodo memoria-oblio attorno ad eventi paradigmatici (che è nostra intenzione affrontare in opportune sedi seminariali), noi puntiamo ad altro: i primi tre numeri di questa rivista affronteranno i vari argomenti monografici (il secondo numero verterà sull’uso pubblico del passato finalizzato alla propaganda di guerra, mentre il terzo porrà l’attenzione sulle forme della produzione e del consumo) filtrandoli attraverso il binomio conflittualità e controllo. In poche parole, è nostra intenzione vagliare i temi che tratteremo nel nostro primo anno di vita utilizzando questa griglia concettuale. Il fine – certamente non esclusivo – è quello di mettere a nudo gli aspetti epistemologici che cercano di offuscare la presenza della conflittualità sociale nella storia, assecondando i desiderata di una pluralità di poteri riconducibili – se ci è concessa la schematizzazione – alla dicotomia tra dominanti e dominati. Rileggere la storia attraverso questa griglia euristica, significa pertanto mettere in discussione anche le narrazioni che vanno per la maggiore, evidenziare le dinamiche dei rapporti sociali, nonché i sobbalzi e le linee di fuga del passato: storie, memorie e oblii.

I temi d’indagine, gli ambiti di ricerca e gli approcci metodologici emersi dalle assemblee e nei luoghi di discussione telematica sono molteplici. Accanto all’attenzione verso le classi sociali, la “stagione dei movimenti”, i conflitti generazionali, le avanguardie culturali e le subculture, vorremmo analizzare – anche in relazione al loro uso pubblico o alle politiche della memoria messe in atto nei loro confronti – altri soggetti e fenomeni conflittuali: il movimento femminista; le dicotomie fascismo/antifascismo e razzismo/antirazzismo (segmento di studi pesantemente “messo al lavoro” dagli ambienti politici e giornalistici); ma anche, per fare qualche esempio, i movimenti ereticali e – più in generale – eterodossi; i populismi, gli spontaneismi, le dissidenze e i movimenti dei ceti medi; le cosiddette devianze e marginalità sociali, nonché le “istituzioni totali” a queste connessi. Benché non neutrali, desidereremmo analizzare gli ambiti menzionati con metodo scientifico, senza scivolare acriticamente nell’idolatria per tutto ciò che è marginale, riconoscendo come patrimonio da mettere a frutto in ogni senso – anche criticamente se sarà il caso – filoni di pensiero e di riflessione che hanno contribuito grandemente a rinnovare negli ultimi decenni il fare storia: primo fra tutti la storia di genere, ma anche, per esempio, la storia sociale, la storia orale, la pratica della con-ricerca.
Tra i vari temi che affronteremo non possono mancare – è il presente a imporcelo – le fasi di crisi e recrudescenza politica. Quindi anche e soprattutto la guerra. Andiamo in stampa mentre la prima fase della tragedia irachena si è consumata e si cerca di affermare la pax angloamericana. Come storiche e storici non possiamo non notare che il dopo guerra fredda ha visto consolidarsi un nuovo ordine mondiale entro le cui coordinate lo stato di belligeranza sembra essere la norma. Indipendentemente dal colore dei governi (la guerra contro la Jugoslavia del 1999 e l’ultima contro l’Iraq ne sono la prova), gli Stati uniti d’America e le altre potenze occidentali hanno ripreso la corsa agli armamenti, i quali, con differenti modalità, sono stati e sono tuttora utilizzati in conflitti bellici (definiti “operazioni di polizia internazionale” oppure “guerre umanitarie” o, ancora, “preventive”) di diversa natura: dalla regione dei Grandi laghi africani all’Afghanistan, dalla Palestina alla Colombia. Parimenti, dietro il paravento di progetti di assistenza allo sviluppo, anch’essi – s’intende – “umanitari”, assistiamo al rilancio di politiche di penetrazione economico-finanziaria: dietro sigle nemmeno tanto ammiccanti quali Nepad, Nafta, o dietro programmi di “risanamento” a medio termine si celano pratiche neocoloniali ai danni dei paesi poveri del mondo. Anche e soprattutto in questo caso la storia è alacremente messa al lavoro da un esercito (non sempre “prezzolato”) di giornalisti-storici o storici-giornalisti. Accanto all’inossidabile mito delle “magnifiche sorti” del capitalismo, riacquista terreno quello di un occidente campione di civiltà, libertà, democrazia e benessere (inteso come abbondanza di merci). Di contro, si ripropone – andando a ritroso nel tempo – l’immagine dell’altro (ovviamente non tutti gli altri, solo quelli giudicati in termini negativi) come arretrato, dissoluto, sanguinario; un “nemico esterno”. L’obiettivo di questa propaganda giornalistico-storiografica (di guerra) è palese: presentare la cultura occidentale vittima e ostaggio di tali “nemici”, coltivare nella pubblica opinione la rabbia e l’orgoglio per giustificare interventi civilizzatori presenti e futuri. Ma anche quello di presentare le forme di dissenso che si sono opposte o si oppongono a tali logiche come potenziale “nemico interno”. In questo caso, analizzare il passato alla luce del presente significa allora tornare ad affrontare, da differenti angolature, temi quali la “presenza” coloniale europea in Africa (parlando, ad esempio, di eventi rimossi collettivamente come il massacro di Debrà Libanòs e confutare il mito – duro a morire – degli “italiani brava gente”), l’imperialismo e le guerre contro i popoli del Sud del mondo, i colpi di stato e le dittature filo occidentali in America latina, le rivolte anticolonialiste e antimperialiste, i movimenti di liberazione nazionale, ma anche la storia delle migrazioni e dei migranti (non solo italiani), le forme di adattamento culturale, l’islamismo, gli internazionalismi (da quello cattolico a quello comunista) e i nazionalismi (da quello palestinese a quello sionista).
Il prisma attraverso cui guarderemo questi ambiti non sarà solo quello tipico delle grandi narrazioni di una storia con la esse maiuscola. In chiave multidisciplinare e interdisciplinare, è nostra intenzione porre attenzione anche alla sfera privata, alla vita quotidiana, ai percorsi individuali, alle microstorie. Rendendo giustizia a documenti ancor’oggi sottovalutati. Facendo nostre le esperienze di Gianni Bosio e Danilo Montaldi, un’attenzione particolare sarà rivolta alle fonti altre (archeologiche, orali, fotografiche, audiovisive, digitali, ecc.). “Zapruder” sarà la forma che assumeranno questi contenuti e queste pratiche. Una forma spuria, fatta di rubriche a geometria variabile: uno Zoom mediante il quale si scandaglia il tema monografico del quadrimestre, corredato da una mini-rubrica Dietro le quinte per raccontare cosa c’è dietro un lavoro di ricerca; uno o più saggi fotografici, dato che si può fare storia anche con le immagini; alcune Schegge (a volte piacevolmente impazzite) non sempre riconducibili alle tematiche portanti del numero e molte altre agili rubriche, fra cui La storia al lavoro, un osservatorio sugli usi pubblici della storia.

Questa rivista è rigorosamente no copyright. Non per vezzo. Perché riteniamo che la proprietà intellettuale sia – più che un furto – un grande fattore d’impoverimento culturale e d’imbrigliamento delle risorse. Infine, dato che un movimento è tale se è capace di mettere in discussione i propri confini, diciamo fin d’ora che le energie che ruotano attorno a “Zapruder” e a Storie in movimento saranno “costrette” a fare i conti con le proprie provenienze, i propri statuti epistemologici, i propri maestri e le proprie maestre. L’abolizione delle frontiere è per noi un obiettivo irrinunciabile. Come quello di non prendersi troppo sul serio. Perciò concedeteci di concludere questa presentazione con l’epilogo di Matrix, cult-movie di fine Novecento; tranquillizzando in ogni modo i lettori e le lettrici che non è nostra intenzione inaugurare un filone storiografico “matrixista”. Buon “Zapruder” a tutte/i.

So che mi state ascoltando. Avverto la vostra presenza. So che avete paura di voi, paura di cambiare. Io non conosco il futuro. Non sono venuto qui a dirvi come andrà a finire. Sono venuto a dirvi come comincerà. Adesso appenderò il telefono. E farò vedere a tutta questa gente quello che non volete che vedano. Mostrerò loro un mondo senza di voi. Un mondo senza regole e controlli, senza frontiere e confini: un mondo in cui tutto è possibile. Quello che accadrà dopo dipenderà da voi e da loro.

LA REDAZIONE

Zapruder n. 1, pp. 2-7.

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