############################################################################ NEWSLETTER DEL PROGETTO STORIE IN MOVIMENTO Numero 2 - gennaio 2003 ############################################################################ SOMMARIO * Bologna 1- 3 novembre 2002: assemblea dei soci aderenti al progetto "Storie in Movimento" di Paola Zappaterra * Uso ed interpretazione delle categorie di conflittualità e controllo di Carlo Modesti Pauer * La storia messa al lavoro: sull'uso pubblico del passato in tema di conflitto e controllo sociale di Eros Francescangeli * Il peso del lavoro di Gabriele Polo SCHEGGE * Apertura del nuovo sito di Storie in movimento * Campagna abbonamenti a "Zapruder" e adesioni a Storie in movimento * Presentazione del Progetto Storie in movimento al Forum di Firenze * Rubrica su Carta INIZIATIVE SEGNALAZIONI ############################################################################ Bologna 1-3 novembre 2002: ASSEMBLEA DEI SOCI ADERENTI AL PROGETTO STORIE IN MOVIMENTO di Paola Zappaterra La riunione dei promotori aderenti al progetto "Storie in movimento" si è tenuta a Bologna nei giorni 1-3 novembre. L'adesione è stata buona con la presenza complessiva di una cinquantina di persone. Nel pomeriggio di venerdì 1 novembre è stata discussa la proposta della carta costitutiva di "Storie in movimento". E' stato innanzi tutto sottolineato come la necessità di una carta costitutiva si ponesse per le caratteristiche stesse della nostra iniziativa: un appello per la nascita di una rivista di storia sottoscritto da più di 260 persone sparse in tutt'Italia e all'estero che si era andato concretizzando in un progetto culturale più complessivo. La carta costitutiva posta in discussione e approvata a Bologna non è uno statuto da depositare da un notaio ma il complesso di regole che tutti insieme decidiamo di darci per funzionare nel modo più trasparente possibile e riuscire a fare un po' di strada assieme. Il dibattito si è svolto in maniera molto vivace attorno all'ipotesi di mantenere due redazioni separate (rivista cartacea e produzioni multimediali) e di creare un gruppo di coordinamento di tutto il progetto che prescindesse in qualche misura dalle redazioni e con un ruolo autonomo rispetto alle stesse. Questa accentuazione non è stata condivisa da tutti con la stessa accezione, permane giustamente una sensibilità più strettamente legata al nostro obiettivo originario, quello di editare una rivista, e la preoccupazione di una eccessiva "burocratizzazione" e rigidezza di una struttura organizzativa troppo "invadente". Così anche la separazione tra "rivista" e "multimedia" non è stata interpretata da tutti nello stesso modo: tutti abbiamo condiviso la valutazione che nella "questione multimedia" così come si è delineata a partire dall'assemblea di maggio c'è un nodo politico, e cioè quello dell'importanza e del rapporto che noi abbiamo con nuove e vecchie e tecnologie (dalla fotografia in poi) che stanno trasformando il lavoro dello storico sia dal punto di vista della ricerca che da quello della comunicazione. Nel dibattito quindi sono emerse posizioni diverse rispetto a quale soluzione organizzativa adottare come "Storie in movimento" per affrontare questo nodo. Ha prevalso la soluzione, come già detto, di due redazioni "separate" di sette persone ciascuna, più un comitato di coordinamento composto da nove persone, quattro provenienti dalle redazioni, quattro esterne più un tesoriere Alla necessità di "socializzare" competenze ed esperienze sul multimedia, e alla volontà "politica" che queste possano diventare patrimonio di tutti si cercherà quindi di rispondere con il lavoro di stimolo della redazione "multimediale". Un altro punto su cui la discussione si è soffermata è quello dello snellimento della struttura complessiva della nostra associazione, nel senso di garantire a tutti i soci la più ampia facoltà di aggregarsi all'interno di "Storie in movimento" e di evitare organigrammi troppo rigidi (i punti in discussione erano quelli riguardanti ruolo, consistenza, funzioni dei gruppi locali territoriali); confidando e scommettendo sulla possibilità che la democrazia interna possa essere garantita da scambio e partecipazione e non solo da meccanismi di rappresentanza, fatte salve, naturalmente, le regole fondamentali di funzionamento dell'assemblea, che conserva, con una scelta molto netta e precisa, sovranità su tutte le scelte fondamentali dell'associazione. In questo senso è utile ribadire che il comitato di coordinamento non è in alcun modo un organismo di rappresentanza, così come non lo sono le redazioni: non ci sono istanze direttive al di fuori dell'assemblea ma soltanto articolazioni organizzative e di lavoro. La giornata di sabato è stata tutta dedicata alla discussione seminariale volta a individuare tematiche e possibili articolazioni di interventi per i primi tre numeri della rivista e per le altre iniziative del progetto (produzioni multimediali, seminari, mostre, ecc.). Il programma prevedeva una relazione introduttiva a cura di Carlo Modesti Pauer sull'uso e l'interpretazione delle categorie di "conflittualità" e "controllo". Si è poi entrati nel merito con il dibattito sulle due relazioni previste su "La storia messa al lavoro" (a cura di Eros Francescangeli) e "Piazza" (a cura di Paola Ghione). Gabriele Polo che avrebbe dovuto svolgere il tema "Produzione, lavoro e forme del consumo" non è potuto essere presente ma ci ha inviato la relazione che riportiamo nella presente lettera informativa assieme ai testi degli altri relatori. Sulla centralità dell'"uso pubblico della storia", molti hanno sottolineato come sia necessario fare un passo avanti rispetto alla denuncia delle strumentalizzazioni, e lavorare alla decostruzione di queste operazioni in parallelo all'avvio di un dibattito su cosa intendiamo per lavoro storico, per uso pubblico della storia, su quale debba essere il discrimine tra pratica storiografica e militanza, sulla crisi della trasmissione del sapere storico; oltre a tentare di costruire anche ricerche puntuali, che intervengano nel "merito". E' stato ribadito come sia necessario usare in "modo critico" la categoria di uso pubblico della storia, che può avere anche accezioni diverse dalla pura manipolazione di segno reazionario, e richiamarsi alle forme di espressività popolare su cui si è lavorato nei decenni passati. Fondamentale resta, rispetto alla confezione della rivista, lo sforzo per la ricerca di un filo conduttore che restituisca al nostro lavoro limpidezza di interpretazione e capacità di intervento nel presente attraverso il nostro lavoro sul passato (ad esempio: cercare di mettere a confronto modalità diverse in epoche diverse di "messa al lavoro" della storia, posto che siamo convinti di trovarci di fronte a un inedito uso pubblico della storia, per smascherarne meglio caratteristiche e meccanismi di funzionamento). La seconda parte della discussione è invece entrata più strettamente nel merito della definizione del primo numero della rivista. E' stata una discussione molto complessa e difficile, dal momento che doveva entrare nel vivo del lavoro pratico e di redazione e di cui è quasi impossibile rendere conto con organicità. Sostanzialmente, si è parlato delle delimitazioni e del taglio da dare (scontri di piazza o piazza, più genericamente) e della forte suggestione che ci viene dai fatti di Genova (riteniamo comunque non debbano essere esplicitatamente argomento di un saggio). Si è discusso sulla necessità di lavorare nei fatti all'allargamento dell'ambito cronologico come da statuto e manifesto, nonostante la prevalenza di contemporaneisti al nostro interno, anche per non schiacciare sulle forme a noi più vicine di prassi dell'uso conflittuale della piazza tutta la nostra interpretazione. E' stato posto anche l'accento quindi, sulle dimensioni simboliche, rituali, identitarie dell'uso dello spazio urbano della piazza e sugli attori che vi insistono (i repressori, i movimenti, la "gente", anche se la definizione di questi attori, pone, naturalmente, notevoli problemi). Da ultimo, è importante ricordare che il primo numero della rivista dovrà riflettere nel modo più fedele e qualitativamente alto possibile la nostra proposta e la nostra identità, perché è il primo veicolo di contatto e comunicazione del nostro progetto a un "pubblico" più vasto. Domenica mattina la discussione è stata dedicata ad alcune scelte più strettamente editoriali. Si trattava di decidere, sulla base di proiezioni e ipotesi emerse dai contatti avviati con gli editori e dal lavoro svolto in questi mesi dal comitato di coordinamento provvisorio, verso quale ipotesi di tiratura, prezzo e modalità di vendita orientarsi (ricordo che abbiamo già optato per un quadrimestrale). L'indicazione comune è stata quella di mantenere il prezzo più basso possibile, come preciso segnale verso tutti i non addetti ai lavori e in particolare gli studenti più giovani. Con questo vincolo, le proiezioni fatte ci hanno portato a optare per l'uscita in libreria, riservandoci in corso d'opera di valutare l'uscita in edicola, anche se è stato ribadito che edicola e libreria prefigurano in parte pubblici e ricezioni diverse, che vanno a condizionare le nostre scelte (non è facile riconfigurarsi per l'uscita in edicola se la rivista è pensata per la libreria). Abbiamo scartato per vincoli precisi di legge l'ipotesi dell'autoproduzione (abbiamo bisogno di un editore, i contatti più avanzati sono con l'editrice Odradek), mentre il settimanale "Carta" ci "trainerebbe" (con l'offerta di abbonamento congiunto e collegandoci alla sua rete distributiva). Dirimenti restano la possibilità di avere un magazzino (avremo comunque molte rese e una rivista con la nostra periodicità va conservata a lungo) e la libertà nelle scelte sulla veste grafica, che molti hanno ribadito deve essere particolarmente, curata, "calda", agile e gradevole anche senza cedere a tentazioni "commerciali". Ricordo infine che l'interesse e la disponibilità della Fondazione Feltrinelli ad avviare un rapporto con noi (anche se l'editrice ha dato risposta negativa alla possibilità di pubblicare la rivista) si concretizzeranno, come primo passo, nell'indicazione a tutte le librerie Feltrinelli ad ospitare la presentazione del primo numero, nonché in un layout di favore sugli scaffali. Domenica, chiusa "ufficialmente" l'assemblea, le due redazioni si sono riunite per cominciare a mettere in campo il menabò del primo numero della rivista e prime ipotesi di lavoro su produzioni multimediali. scarica manifesto http://www.storieinmovimento.org/docu_mani.html comitati redazionali e coordinamento http://www.storieinmovimento.org/info_elen_reda1.php carta costitutiva http://www.storieinmovimento.org/part_cost.html elenco firmatari dell'appello http://www.storieinmovimento.org/info_elen_ade1.php --------------------------------------------------------------------------- USO ED INTERPRETAZIONE DELLE CATEGORIE DI CONFLITTUALITA' E CONTROLLO di Carlo Modesti Pauer "Ciascuno si faccia il suo metodo, non c'è bisogno di esperti per questo. Se non sei in grado di costruirti un metodo, lascia la storia" F. Braudel L'utilizzo delle categorie di "conflittualità" e "controllo" proposte nell'ambito del dibattito svoltosi all'interno del Comitato di coordinamento che ha organizzato l'assemblea di novembre, è qui suggerito non già in un banale elenco descrittivo, né prendendo in considerazione una possibile esemplificazione in un qualunque contesto storico (sarebbe una superflua e insufficiente anticipazione del lavoro da svolgere per gli articoli della rivista). Si considerano invece alcuni aspetti della possibile metodologia derivante dall'uso delle parole chiave: un abbozzo di discorso in cui il piano della realtà si confonde con quello della rappresentazione, anche all'interno della fonte stessa. La fonte (il fatto), per quanto precisa e nitida, non può restituire la realtà, essa è piuttosto strumento per una interrogazione, canale di comunicazione col passato per attivare una domanda di conoscenza nel presente, ma è comunque una rappresentazione quella che operiamo mettendo in gioco una determinata strumentazione euristica e la frase di Braudel ci dice che la libertà è massima. Di cosa parliamo però quando diciamo libertà? Altrove è stato detto: "dire la verità del potere", qui diciamo che la griglia concettuale, tra le molteplici adozioni, offre la possibilità di combattere l'epistemologia dominante, complice di altri poteri, che occulta la conflittualità nella storia, la riorienta, la sterilizza, la anestetizza; trascende i corpi e racconta degli spiriti, o li smembra per analizzarne minuziosamente gli organi. Mettere in produzione le parole della conflittualità significa dunque verificare che uso strategico ne viene fatto nelle diverse epoche storiche, per evidenziare quali rappresentazioni governano le società attraverso le medesime epoche. Ri/leggendo la storia attraverso questa griglia, si sgretola la metafisica della narrazione per evidenziare la dinamica plurale dei rapporti storico-sociali e quindi il movimento e le linee di fuga della storia, il farsi plurale del futuro. Vediamo di entrare nel merito. Scrivere la storia, può voler dire molte cose, troppe talvolta. Il tentativo di agire a partire dalla più sincera onestà intellettuale, sembra dunque quello di dover prendere le mosse dallo svelamento delle strategie che i poteri adottano per divenire tali. Porsi il problema del controllo, se si vuole indagare il conflitto, le sue forme, le sue possibilità, è inevitabile. Confrontarsi con l'irruzione della violenza nella storia o col problema dell'identità e delle sue infinite aggettivazioni, si rivela produttivo nell'attività dello storico antagonista, militante, scalzo, rivoluzionario, libertario... È in questo senso, ad esempio, che dovrebbe essere letto questo pensiero di Duby: "Giacché è la vita che io osservo, ogni teoria che mi tenga prigioniero mi sembra paralizzante, impoverente, e faccio di tutto per liberarmi dalla sua influenza. La mia libertà è al culmine quando pongo le mie domande" (cors. ns.). Perciò, allo stato di cose presenti grossolanamente definito "globalizzazione", la strada da percorrere è più che mai quella della conoscenza, che in via pragmatica e transitoria prende appunto la forma estetica dello svelamento e della decostruzione, entro i confini di una narrazione storica orientata alla riorganizzazione concettuale dei frammenti scoperti dalla ricerca e dall'analisi, di cui la rotta genealogica si propone come un itinerario percorribile, assieme al patrimonio teorico delle "scuole" di pensiero che vedono, come ad esempio il marxismo, la necessità di adottare una strumentazione ermeneutica basata su differenti metodologie o, al limite, filosofie della storia. Non è, per onestà intellettuale, il caso di "buttare il bambino con l'acqua sporca". Il piano della comunicazione diviene il luogo comune entro cui confrontarsi, e come addetti ai lavori, e come veicoli di conoscenza verso l'altro da sé, mettendo in gioco le proprie esperienze "professionali". In un contesto spettacolare, quale è, indubitabilmente, il terreno di gioco nel quale entra in lizza una rivista di storia rivolta ad un pubblico quanto più vasto possibile, è necessario registrare e intercettare le tensioni etiche e le domande politiche provenienti dalle pratiche del quotidiano. Il bisogno di comunicazione, nella sua stringente etimologia, è un urgenza facilmente verificabile, prova ne è la stessa adesione all'appello per questa rivista in dirittura d'arrivo. Essa è "sentita" proprio perché allo stesso modo è "sentito" il bisogno di "dire" che ciascuno verifica quotidianamente al di fuori della propria specificità. In questo senso il dibattito interno ha provvisoriamente definito le parole della griglia in discussione. Infatti l'ambito della comunicazione è anche lo spazio privilegiato dei dispositivi di controllo operanti per la conservazione dei poteri, esso è dunque strategico, sia nel senso della scrittura storica - entrare nella sfera della comunicazione con un progetto pubblico (ad es. storie in movimento) - sia come oggetto d'indagine immerso nel divenire storico - studiare la comunicazione nella sua multiforme fenomenologia direttamente entro i limiti della storiografia, o indirettamente adottarla come chiave di lettura. In questo caso si vedrà come il rovescio della medaglia presenti la dimensione del controllo. Termine questo che a sua volta è possibile concatenare al precedente, ma che si propone anche autonomamente. Nel presente delle nostre esperienze il controllo riassume una condizione comunemente vissuta, mostrando un consistente peso politico/culturale. Il dispositivo panottico delle videocamere di sorveglianza che governa i flussi di vita contemporanei rimanda immediatamente, l'osservatore erudito, alla progettualità del disciplinamento benthamiano segnalando l'esigenza dello smascheramento. Disgraziatamente l'uomo della strada non è propriamente un osservatore erudito, ma non vuol dire che non vi sia una latente domanda di comprensione alla quale si può tentare di rispondere. Oppure la forma che il controllo sul lavoro, più sfuggente ma centrale quanto il comando, assume nell'attuale fase di trasformazione del modo di produzione capitalista. Chi scrive sta curando la tesi di uno studente impegnato in una ricerca video sulla crisi della Fiat. Il giovane (24 anni), al ritorno da Termini Imerese, è rimasto visibilmente turbato dall'aver registrato - alla domanda posta ad ognuno delle decine di operai intervistati: "lei per chi vota?" - l'impressionante maggioranza schiacciante tributata a Forza Italia. La richiesta di chiarimenti si condensava attorno alla convinzione: "è un imprenditore che ha lavorato bene e farà il bene di chi lavora. Bisogna dargli tempo". Un appiattimento così marchiano sugli slogan del "presidente operaio", indurrebbe a pensare che il controllo dei media non è un'idea balzana di qualche sopravvissuto alla modernità. Il controllo è una categoria duttile e funzionale al tentativo di dare una memoria a questo e molto altro. Il tema della violenza non dovrebbe sollevare perplessità essendo strettamente collegato a quanto sin qui detto. Il cd. dopo Genova è un condensato, ovvio vista la particolarità del caso, delle forme possibili che questa può assumere. Non c'è bisogno di pensare che la violenza è la levatrice della storia o, al contrario, che il dovere della politica è la rimozione della violenza, per assumere il termine come grimaldello per forzare le beffarde serrature della menzogna apposte dalla storiografia dominante. Il controllo ingaggia poi volentieri la violenza come parametro morale sia per giustificare la violazione della privacy, come nel caso delle telecamere panottiche, sia per disinnescare o ri/orientare il conflitto. È tale, una delle strategie del potere adottate a Genova, dove la violenza è stata piena e materiale, dal divieto d'accesso alla zona rossa, fino al tributo del sangue innocente di Carlo Giuliani. Nel campo della conflittualità convergono i termini della questione, come si vede anche con l'ultima delle parole individuate. Tracciare un itinerario storico favorendo l'emersione del ruolo, del significato, dello statuto e della ragione dell'identità ha le radici nel complesso concatenamento degli eventi presenti. Come non pensare alle deliranti evocazioni gettate sul mercato con la pubblicazione del diario pornografico della Fallaci? L'immeritato successo di certa immondizia, ma soprattutto l'enorme spazio concesso dai media anche se solo a fini pretestuosi, mostra quantomeno la presenza di angosce identitarie, evidentemente latenti nelle pieghe della storia, che possono essere oggetto di controllo e indirizzo in funzione conflittuale: l'uso imperialista delle etnie locali in opposizione all'identità nazionale (come nel caso dell'ex Jugoslavia); la ridistribuzione del voto ebraico (che rimanda all'identità sionista) nel quadro elettorale degli usa in chiave antiaraba; il feudale richiamo all'identità cristiana nella nascente costituzione europea, cardine della definitiva legittimazione morale del neofascismo al potere. Questi sono solo i più immediati esempi di un dispositivo linguistico che in/forma, dall'interno del processo di contraffazione strategica della comunicazione, l'uomo della strada. È lui il corpo della midcult, il simbionte della civiltà delle macchine digitali, della dromocrazia, dell'estasi della comunicazione, della vittoria del simulacro, che dà respiro (ma soprattutto molto denaro) ad una baronia accademica cialtrona ma astutamente organizzata al grido di "analfabeti di tutto il mondo unitevi!". Nella polifonica, proliferante, autopoietica identità midcult è in gioco un modo alt(r)o di fare storia; un altro modo è possibile...necessario... Lo slittamento continuo dell'identità politica, in epoca di crisi della sua forma attuale, ha indotto anche una parte dell'antagonismo verso la simulazione del conflitto, quando è giunto il momento della rinuncia alla violenza reale. Il fatto che la questione è però nuovamente oggetto di dibattito, dimostra quanto l'acquisizione di un identità pacifista non sia data per scontata. Recepire un problema del genere trova, nello scenario della storia raccontabile, nozioni quali identità e conflitto, violenza e controllo, conoscenza e comunicazione, in grado di costituirsi come valido aiuto nell'attraversare il passato proprio di quei movimenti antagonisti richiamati sin dall'appello originario e ora ben presenti nel manifesto di Storie in movimento: "Un progetto che sta dentro i movimenti perché ne esercita una critica e allo stesso tempo promuove nuove immagini e nuovi immaginari, segnala alcune priorità e le mette all'attenzione di saperi, scritture, culture diverse facendole parlare tra loro nello spazio pubblico." ---------------------------------------------------------------------------- LA STORIA MESSA AL LAVORO: SULL'USO PUBBLICO DEL PASSATO IN TEMA DI CONFLITTO E CONTROLLO SOCIALE di Eros Francescangeli (Traccia della relazione) Uso pubblico della storia: tutto ciò che si svolge fuori dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori. La storia nei mezzi di comunicazione di massa, nelle arti (letteratura, musica), nella scuola (e nei libri di testo per le scuole), in partiti, enti, istituzioni, movimenti. Secondo la definizione (di partenza) di Jürgen Habermas (per il quale la storia e il suo uso pubblico non devono convergere), fa un uso pubblico della storia chi "si propone obiettivi politico-pedagogici espliciti: costruire il consenso attorno ad alcuni valori decisivi per la convivenza civile" (J. Habermas, L'uso pubblico della storia, in Rusconi, 1987). Quindi: costruire consenso (o dissenso) utilizzando il passato. Guerra delle memorie: decidere cosa debba essere ricordato (memoria) e cosa debba essere rimosso (oblio) è una pratica per stabilizzare la società e controllarne le spinte antisistemiche (pratica di potere) oppure per trasformarla liberando le energie antisistemiche (pratica di contropotere). Da ciò consegue "l'importanza che il potere politico ha sempre assegnato al controllo del passato come strumento privilegiato per il controllo del presente" (Gallerano). Infine, pur con significative differenze (es. tra regimi democratici e dittatoriali), il potere tende a unificare la memoria di una data comunità marginalizzando le voci di dissenso. Doppia valenza dell'uso pubblico della storia: terreno di confronto di/per un sapere socializzato ma anche manipolazione delle coscienze. A titolo esemplificativo, si centrerà l'attenzione sull'Italia. Se l'uso pubblico (politico) della storia non è una novità (ma è coetaneo della storia stessa), in questi anni c'è stato un salto di qualità: in Italia, il crollo dei sistemi politici sorti dalla rivoluzione d'Ottobre e la fine della prima repubblica (da "mani pulite" alla trasformazione di Pci, Dc e Msi-Dn) ha determinato processi consci o inconsci di riscrittura della storia. In primo luogo attorno a snodi ad alto contenuto "ideologico" (comunismo/anticomunismo, fascismo/antifascismo, liberalismo/antiliberalismo). Questa seconda "crisi di fine secolo" ha prodotto, almeno agli inizi, due tendenze sostanzialmente convergenti secondo cui l'anomalia italiana si risolverebbe in un deficit di liberalismo al quale si dovrebbe far fronte con una serie di riforme istituzionali tentendi al consolidamento di un regime liberaldemocratico bipolare. Anziché individuare limiti e aporie del liberalismo e del neoliberismo, tutta la storia d'Italia è interpretata alla luce di questa supposta carenza. Unite nella condanna dei sistemi di tipo fascista e comunista (molto spesso incasellati nella medesima categoria di "totalitarismo") destra e sinistra moderate hanno però ingaggiato un braccio di ferro storiografico teso a dimostrare l'inaffidabilità democratica dell'avversario, approfittando di ogni "scivolata". Accanto ai consueti"ritorni di fiamma" sostanzialmente tesi a normalizzare, presentando "meglio" (ovvero in chiave liberaldemocratica e riformistico-innovatrice) il proprio passato (es: la sinistra moderata rimuove i momenti più alti di conflittualità sociale e la carica antistituzionale dei soggetti antagonisti, presentando quest'ultimi come eterne "vittime"; mentre la destra moderata tende a giustificare gli aspetti illiberali e antidemocratici dei regimi fascisti, imperialisti o clerico-moderati come reazione al pericolo comunista), la tendenza alla convergenza verso il pensiero unico neoliberista opera anche e soprattutto, paradossalmente, in senso speculare, in un quasi perfetto gioco delle parti. L'obiettivo della "riconciliazione nazionale" viene perseguito rendendo omaggio all'avversario, concedendogli la dignità un tempo sottrattagli: ex fascisti che omaggiano i partigiani o le vittime dei campi di sterminio; ex comunisti (o ex azionisti) che nobilitano i repubblichini o le forze d'occupazione dell'Italia fascista. Il gioco "funziona" solo a patto che non ci siano autoassoluzioni. Pena la bagarre. Il caso della decisione di intitolare il piazzale d'ingresso dell'aeroporto di Ciampino a Italo Balbo ha fatto insorgere l'intellettualità di sinistra. Nessuno protestò, però, quando il governo Prodi (con tanto di discorso commemorativo del sottosegretario alla Difesa Massimo Brutti) eresse un busto al medesimo gerarca, di fronte alla sede dell'Aeronautica militare. Quanto detto non significa affatto che tra le "due destre" (per dirla con Revelli), i due schieramenti neoliberisti, regni la pace e che l'intensità e la frequenza (e dunque la ricaduta in termini di "pericolosità") dell'uso politico della storia sia la medesima. Tutt'altro. Concordi sulla necessità di convergere, i due schieramenti non sono d'accordo su dove debba essere collocato il punto di convergenza. Da qui il già citato braccio di ferro storiografico teso non tanto (o non solo, a giudicare dall'affaire El Alamein: commmorazioni, interventi, fiction, ecc.) alla ricerca nel passato della legittimazione per le scelte del presente, quanto alla delegittimazione/rimozione/mistificazione del proprio e altrui passato (come ha notato Santomassimo). Inoltre, l'incancrenimento della lotta politica tra i due schieramenti elettorali concorrenti (o meglio tra le rispettive componenti interne meno disponibili alla conciliazione) sospinge ad un uso pubblico della storia, soprattutto da parte del centro-destra, assai audace. Come avviene in altri ambiti (giustizia, amministrazione, stato sociale, politica estera), pare che la compagine governativa - complice la debole opposizione di gran parte del centro-sinistra - voglia andare ad una sorta di resa dei conti per garantirsi posizioni di forza che assicurino la permanenza al governo dell'attuale compagine. In un simile contesto (vieppiù arroventato dall'imminenza del nuovo conflitto globale contro l'Iraq), in modo inedito rispetto al passato, il potere (in primo luogo quello politico, ma anche quello giudiziario) irrompe direttamente nel campo degli studi storici e della loro organizzazione-divulgazione. Dalla rimozione della sovrintendente dell'ACS, ai processi contro storici e militanti rei di denunciare il ruolo antidemocratico di istituzioni o personalità politiche, dai tentativi di imbrigliare dal punto di vista normativo l'insegnamento della storia, alla perdurante vendetta retroattiva nei confronti della generazione degli "anni di piombo" (cfr. i casi paradigmatici, pur politicamente antitetici, di Sofri e Persichetti), i casi di "sconfinamento" non si contano. Assai preoccupanti sono, in tal senso, i tentativi di limitare la libertà d'insegnamento attraverso l'istituzione di una sorta di "indice" dei libri di testo sconsigliati poiché "faziosi" (in quanto "marxisti", "di sinistra", ecc.) e le continue "attenzioni" (non certo disinteressate) del potere politico verso la scuola e i centri formativi. Accanto a giornalisti, commentatori e showman, anche gli storici di professione mettono la storia al lavoro. Come notato da Gallerano già a metà degli anni Novanta, si potrebbe argomentare che "esista un rapporto non casuale tra gli sviluppi recenti della ricerca e l'intensificarsi dell'uso pubblico della storia. Basta guardare a come tornino, al centro del lavoro degli storici, temi dati per usurati e ormai improponibili", ovvero, ad esempio, quelli dello Stato-nazione e delle identità nazionali ed etniche (ma anche guerre e singole battaglie!), e, soprattutto come essi "vengano affrontati con intento pedagogico e prescrittivo", secondo un modello "giudiziario" (di attribuzione di torti e ragioni) e privilegiando la macro-storia di tipo politico o socio-politico, per dirla con Ginzburg. Gli storici di professione che fanno un uso pubblico della storia tendono, a livello formale, a mantenere quell'apparente "distacco" che ammanta d'imparzialità il loro operato (che ne riceve giovamento in termini d'efficacia). Oltre ai suaccennati temi, la storia è pesantemente messa al lavoro (per le necessità del presente) anche su altri snodi storiografici rilevanti, la trattazione dei quali prenderebbe, singolarmente, lo spazio di una relazione: fascismo e antifascismo (per delegittimare il secondo e rivalutare gli aspetti modernizzatori, nazionalpopolari e/o autoritario-liberisti del primo); comunismo e anticomunismo (delegittimazione del primo - in tutte le sue varianti, finanche quelle antiautoritarie - e rivalutazione del secondo, in un fronte unito che va da Tremaglia a Veltroni); guerra-pace/occidente-oriente (tese a veicolare, nemmeno velatamente, la superiorità culturale dell'occidente, l'imbecillità dei "pacifisti in buona fede", la criminalità di antineoliberisti e antimperialisti). A quest'ultimo snodo vengono sovrapposte, artatamente, le dicotomie sionismo/antisionismo e "giudaismo"/"antigiudaismo", allo scopo, in questo caso, di presentare - sia in Israele che nel resto del mondo - antisionisti e/o postsionisti (e, persino, pacifisti e antilikudisti) come antisemiti o come "oggettivamente collusi" con il terrorismo arabo. In Israele questo trattamento è riservato anche agli storici come Ilan Pappe che indagano sul rapporto violenza/fondazione dello Stato d'Israele. Ma vi è anche un uso pubblico di queste vicende (la repressione militare e culturale in Israele): il sionismo come forma di fascismo (o, peggio, di nazismo). Questioni collegate: 1) a livello pubblico l'icona di Adolf Hitler (personificazione del nazismo) viene utilizzata metaforicamente per la raffigurazione dell'avversario (Milosevic, Clinton, Saddam Hussein, Bush, Bin Laden, Sharon). Effetti collaterali: il nazismo è, in un processo di banalizzazione, relativizzato e assolutizzato al tempo stesso (cioè se ne nega l'unicità-specificità assumendolo, al contempo, come "male assoluto" - corpo estraneo alla cultura occidentale - al cui confronto il fascismo italiano e gli altri crimini del capitalismo sono poca cosa); 2) la questione dell'Olocausto (negazionismo, revisionismo, memoria del genocidio finalizzata - in particolare in Israele - all'uso pubblico); 3) il rapporto tra fascismo e nazismo (tendenza marcata alla separazione delle responsabilità) e il mito degli italiani brava gente, alimentato anche dalla storiografia moralistico-resistenziale secondo la quale i "cattivi" (es. i "ragazzi di Salò") cominciano a manifestarsi solo dopo l'8 settembre '43 (cosa ci facevano a Cefalonia gli italiani massacrati dai tedeschi? Perché non si "giudica" moralmente anche coloro che non si ribellarono - magari disertando, unendosi ai partigiani jugoslavi (come fecero alcuni) - alle invasioni italo-tedesche di Francia, Russia e nei Balcani?). Nei confronti di questa offensiva: rispondore o meno? Se la risposta dovesse essere positiva (come è auspicabile), non si tratta comunque di fare un uso pubblico della storia contrapposto a quello del pensiero unico neoliberista. Non si tratta di smascherare le "amnesie" e le "mistificazioni", denunciando le loro "interessate" banalizzazioni, le loro giravolte, le loro politiche della memoria e dell'oblio. Non si tratta di "inseguire affannosamente le odierne pratiche di riscrittura del passato" (Gallerano). Gli strumenti del nostro progetto non sono, per il momento, il veicolo adatto (non ci consentono un efficace uso pubblico della storia). Si tratta, piuttosto (focalizzando l'attenzione sul tema "conflittualità e controllo"), di analizzare i meccanismi propri di tali pratiche per comprenderne stereotipi ed eventuali elementi di novità, al fine di "consapevolizzare" il nostro referente (lettrici/ori della rivista o dei nostri contenuti telematici, spettatrici/ori di una performance, coloro che fruiranno delle nostre produzioni audiovisive e multimediali). ---------------------------------------------------------------------------- IL PESO DEL LAVORO di Gabriele Polo Dopo due decenni di oscuramento mediatico, il lavoro subalterno (nelle sue varie forme) e i suoi protagonisti tornano a suscitare un qualche interesse. La semplificazione della "fine del lavoro" appare in tutta la sua portata ideologica e torna in chiaro una cosa semplicissima, persino banale: il lavoro continua a essere il problema con cui le donne e gli uomini devono fare quotidianamente i conti. Ciò che l'oscuramento ventennale - utile a distruggere diritti, poteri e conquiste - ha invece ottenuto è la scomparsa di una qualsiasi rappresentanza politica dello scontro sociale (cioè di classe) che il lavoro porta con sé, e questo rimane un problema aperto, che paradossalmente si scontra con un rinnovato protagonismo che le contraddizioni del lavoro pongono oggi al potere politico ed economico. Di più: il lavoro, il suo controllo, sono oggi oggetto in tutto il mondo occidentale, e in particolare in Italia, di un percorso di ridefinizione di ruolo e di ricostruzione del suo controllo, come appare evidente dallo sforzo legislativo che il governo italiano sta mettendo in atto sul mercato del lavoro (le deleghe, il libro bianco, l'articolo 18) e come risulta dall'offensiva padronale sulle forme contrattuali che regolamentano la vendita di forza-lavoro (l'obiettivo, è chiaro, è la completa deregulation e un rapporto puramente individuale tra chi "vende" e chi "compra" il lavoro). Curiosamente, ma per l'Italia non tanto, è stata ed è una categoria "vecchissima" come i metalmeccanici, ad essere al centro di tale scontro, sollecitando - con il conflitto - l'attenzione anche dei nuovi movimenti verso il problema del lavoro subordinato. Questo è lo sfondo di fase su cui andare a indagare la relazione tra lavoro e controllo sociale. LE MACCHINE La rivoluzione capitalistica si palesa come forma di organizzazione "razionale" del lavoro umano, separando definitivamente il fare dalla conoscenza dell'agire umano (oltre che dal possesso del prodotto e dei mezzi di produzione, espropriazione che ereticamente considero secondaria). Uno dei passaggi fondamentali di quella rivoluzione è stato la parcellizzazione del processo produttivo attraverso l'introduzione di macchine non più di proprietà dei lavoratori che venivano concentrati in uno stesso luogo. La rivoluzione industriale inglese nasce anche come innovazione tecnologica-organizzativa che distrugge "l'economia morale" di stampo aristocratico, trasforma gli artigiani in operai impoverendoli materialmente e professionalmente. Oltre a uno spirito innovativo (dettato dalle esigenze di aumentare i profitti) del primo capitalismo industriale, in quel passaggio possiamo anche leggere la necessità di reagire alla resistenza prodotta dagli "artigiani" (nel tessile, come nell'agricoltura, i telai meccanici come le trebbiatrici) che diventerà attiva con il luddismo. La rivoluzione dall'alto sconfigge in breve tempo la "conservazione" dal basso: è un passaggio in cui si può leggere bene come innovazione tecnologica e repressione ai fini del controllo si accompagnino sempre e come la prima (l'innovazione) prepari una trasformazione profonda, che però, per essere vincente, ha sempre bisogno del secondo fattore (la repressione). Vediamo meglio, con un altro esempio. LA REPRESSIONE Ad ogni balzo dell'organizzazione del lavoro e dello sfruttamento, segue un periodo di adattamento sociale in cui maturano nuove contraddizioni, potenzialmente sempre esplosive (a volte esplodono, altre no). Se prendiamo in esame la storia di una grande azienda, oggi alla fine dei suoi giorni, la Fiat, troviamo alcune costanti. La prima è che tutte le innovazioni tecnologiche dell'organizzazione del lavoro e anche le innovazioni di prodotto sono state anche il modo capitalistico di reagire alla messa in discussione del suo potere. E' stato così dopo il biennio rosso (fordismo), dopo la liberazione (taylorismo e produzione di massa), dopo gli anni '70 (illusione pantecnologica, informatizzazione). La seconda costante è più propria del tema "controllo". Per contrastare il "potere operaio" in fabbrica (controllo dei ritmi e contrattualità) la Fiat ha avviato un lento processo di innovazione tecnologica, cercando di sottrarre alla forza lavoro il controllo di alcuni snodi della catena taylorista per abbassarne il potere d'interdizione. Ma solo con una grande operazione "militare", quale quella dell'autunno '80, la Fiat riesce a riconquistare il controllo sul lavoro: per farlo deve espellere migliaia di persone, ma soprattutto deve cancellare il sindacato dei consigli, far fuori i delegati che rappresentano il potere operaio sulla produzione. Solo dopo questa "pulizia etnica", la rivoluzione robotica e informatica può svilupparesi completamente, altrimenti non sarebbe stata possibile. Naturalmente questo chiama in causa un altro caposaldo del rapporto tra lavoro e controllo, quella della disponibilità del tempo di vita delle persone. IL TEMPO Per trarre profitto il capitale industriale deve poter disporre il più liberamente possibile della vita di chi vende la propria forza-lavoro. Deve cioè organizzare l'esistenza dei subordinati adeguandola alle esigenze della sua organizzazione del lavoro. Questo rapporto assume forme diverse, a seconda della composizione organica del capitale. Nella prima e seconda industrializzazione si trattava soprattutto di concentrare le persone in luoghi precisi (le fabbriche) e di averle a disposizione in termini precisi (gli orari), perché la composizione tecnica del capitale era quella dettata dal vapore prima e dalla corrente elettrica poi. I regolamenti di disciplina nascono così: di fronte a una forza lavoro spesso indisciplinata, i padroni hanno redatto tutta una serie di regolamenti di fabbrica (con relative punizioni), delle vere e proprie leggi speciali per costringere alla disciplina gli operai. Questo è avvenuto in varie versioni, da quelle più autoritarie, come la Fiat, l'Ansaldo o la Ford, a quelle più paternalistiche come è il caso, in Italia, di Rossi, Marzotto o Cosulich. Questi "padroni buoni", accanto ai regolamenti, avevano sviluppato un sistema di vita sociale che aggregava attorno alla fabbrica tutta la comunità (scuole, asili, teatri, dopolavori tutti servizi gestiti dall'azienda). La gestione del tempo, poi, travalicava i confini della fabbrica, basti pensare ai microconflitti come quello del "san lunedì": nelle zone tessili italiane del Veneto e del Piemonte gli operai si erano inventati un santo apocrifo - san lunedì, appunto - cioè una giornata di festa che serviva a smaltire i fumi dell'alcool accumulati la domenica. Contro il san lunedì, i padroni paternalisti come Marzotto o Rossi si diedero molto da fare e, oltre ai regolamenti, scesero in campo in prima persona, prima andando di osteria in osteria la domenica sera per mandare a casa i propri operai e non farli ubriacare troppo, poi con una pressione formidabile sulle mogli e le famiglie degli operai a scopo "educativo". Oggi, le nuove tecnologie, in primo luogo l'informatica, allargano i confini della fabbrica a tutto il territorio, così che la produzione estesa fa sì che tutto il tempo di vita diventi potenziale tempo di lavoro. Le nuove forme contrattuali che stanno entrando in vigore oggi rispondono proprio a questo: in primo luogo hanno forma sempre meno collettiva e sempre più individuale, in perfetta corrispondenza al fatto che la prestazione lavorativa sempre più spesso avviene in solitudine, spesso a casa propria. Ma anche quando il lavoro deve essere concentrato in un luogo collettivo, il rapporto dell'uso del tempo deve essere individuale: si pensi al job on call, il lavoro a chiamata. Tu te ne stai a casa e vai a lavorare solo quando il padrone ti chiama per costruire un frigorifero o una lavatrice, ma devi essere sempre disponibile (naturalmente ti pagano solo quando lavori). Oppure lavori anche a casa tua, ma a commissione, cioè l'azienda ti regala un cellulare che tu devi tenere sempre acceso per rispondere in tempo reale alla commissione (un progetto, uno studio, ecc). Anche in questo caso ti pagano solo per quello che fai. In tutti i casi devi essere sempre a disposizione dell'azienda, giorno e notte. Come forma di controllo non è male.... LA RESISTENZA I lavoratori (cioè tutti noi, perché penso che il sistema capitalistico industriale non si stia estinguendo, ma abbia modellato ai suoi fini tutto, dalla ricerca ai servizi) hanno sempre reagito alle espropriazioni - di attività manuale, di conoscenza, di intelligenza - cui sono stati oggetto cercando, prima di mantenere ciò che avevano e che il capitalismo toglieva loro, poi adeguandosi ai cambiamenti e cercando, a volte, di governarli. Individualmente tutti hanno cercato di ricavarsi una nicchia (con trucchi professionali o con le clientele servili), collettivamente hanno costruito le grandi organizzazioni di massa. Queste sono sempre state attraversate da una distinzione rappresentata dal concetto di autonomia: la storia dei sindacati gialli (soprattutto negli Stati uniti, dove l'unica organizzazione sindacale autonoma dai padroni, cioè gli IWW, è stata spazzati via da una feroce repressione militare proprio mentre nasceva il fordismo, lo ricordo per ribadire la stretta connessione tra repressione e sviluppo tecnologico) è storia di acquiescienza ai voleri del padroni. Il sindacato giallo serve solo a distribuire clientele agli iscritti in cambio della fedeltà all'azienda o al sistema (ciò che stanno diventando Cisl e Uil in Italia). All'opposto troviamo i sindacati di classe, la cui caratteristica storica è appunto l'autonomia dalla controparte e, in Europa occidentale, il concetto di confederalità, cioè di sindacato generale. La storia di questi ultimi è stata a lungo segnata dal bipolarismo mondiale e dal primato della politica sugli interessi sociali. La storia della Cgil è caratterizzata da una continua subalternità del sindacato al partito, cosa che ha prodotto non pochi danni. Ma al di là degli esiti, va ricordato come anche il sindacalismo di classe abbia giocato un ruolo nel controllo della forza lavoro, proprio perché doveva render conto, alla fine, al disegno più generale di società che il partito portava con sé. Gli interessi dei lavoratori erano solo uno schermo per dimostrare l'ingiustizia del sistema, ma al di là delle rivendicazioni economiche proprie del sindacato, le donne e gli uomini al lavoro non erano i soggetti del cambiamento. In Italia, il 68-69 ha messo in crisi quest'impostazione (l'autonomia operaia, non nel senso di gruppi ma di concetto politico), poi con l'80 tutto è stato spazzato via: chi si illudeva - come il Pci - di poter finalmente tornare a un controllo della sua parte di società per poi rappresentarne gli interessi attraverso una mediazione politica, ha scoperto presto che questo non era più possibile, e, alla fine, è stato spazzato via esso stesso. Il controllo sul lavoro è diventato assoluto, senza più mediazioni, gestito direttamente dalle imprese che la politica ha aiutato nella deregolamentazione del lavoro. Oggi siamo a questo punto. I lavoratori non hanno più nulla da scambiare (un lavoro sicuro con un salario più basso, ad esempio), tutto è in gioco, il controllo è sempre più individuale, ma nel trionfo apparente del capitale è insita una debolezza strutturale, quella di dover continuare a far ricorso al lavoro per trarne profitto, a dover fare i conti con le persone, il loro tempo, le loro resistenze. ############################################################################ SCHEGGE ############################################################################ APERTURA DEL SITO DI STORIE IN MOVIMENTO L'indirizzo del sito di "Storie in movimento" è: www.storieinmovimento.org Il sito è curato da Luca Fanelli. Sul sito è possibile trovare: l'appello costitutivo, il testo del nuovo manifesto uscito dall'assemblea di novembre, la carta costitutiva votata a Bologna, l'elenco dei firmatari. CAMPAGNA ABBONAMENTI A "ZAPRUDER" E ADESIONI A "STORIE IN MOVIMENTO" Il primo numero della rivista "Zapruder" sarà pubblicato verso maggio 2003. Intanto, sono stati definiti il prezzo di copertina, degli abbonamenti e delle adesioni all'associazione "Storie in movimento". Il prezzo di copertina di "Zapruder" (formato 18x25, 160 pp. circa) sarà di euro 8,50 (arretrati: 10 euro in Italia, 15 all'estero). Mentre le condizioni generali di abbonamento (3 numeri, indipendentemente da quando si attiva la sottoscrizione) sono le seguenti: Abbonamento ordinario: 22 euro Abbonamento all'estero: 32 euro Abbonamento sostenitore: 35 euro Abbonamento studenti e non occupati: 20 euro Abbonamento enti e istituzioni: 24 euro E' stato deciso di vincolare l'iscrizione a Storie in movimento (la quota di iscrizione per l'anno 2003 è stata stabilita in 10 euro) all'abbonamento alla rivista. I soci di Storie in movimento hanno (ovviamente!) diritto ad un piccolo sconto: Abbonamento ordinario soci e quota associativa 2003: 30 euro Abbonamento all'estero soci e quota associativa 2003: 40 euro Abbonamento sostenitore soci e quota associativa 2003: 42 euro Abbonamento studenti e non occupati soci e quota associativa 2003: 28 euro TUTTI I VERSAMENTI VANNO EFFETTUATI, senza alcun onere aggiuntivo (tasse e balzelli sono a carico del progetto), SUL: conto Bancoposta n. 36662534 (ABI 07601, CAB 0300) intestato a Ennio Bilancini, specificando nella causale: "Abbonamento Zapruder" oppure "Abbonamento Zapruder + quota SIM 2003", comunicando l'avvenuto pagamento a info@storieinmovimento.org Ai detenuti che ne facciano richiesta, la rivista verrà inviata gratuitamente. Quella dei prezzi bassi è una scelta "alla rovescia" (come, del resto, il nostro progetto), dettata dalla volontà di rompere la cortina fumogena che avvolge l'ambiente degli studi storici andando incontro ad un pubblico giovanile (studenti, ecc.). Ovviamente questa politica ha i suoi costi: per sostenerli, la rivista deve non solo vendere nelle librerie, ma soprattutto deve poter contare sulla vendita militante e sugli abbonamenti. Pertanto, si invitano tutti, oltre che ad abbonarsi e ad iscriversi all'associazione Storie in movimento, a promuovere la campagna abbonamenti e la vendita militante della rivista. Sarebbe importante anche creare dei gruppi locali di Storie in movimento, per raccogliere a livello locale abbonamenti, organizzare la vendita militante (banchetti presso le università, ai convegni, alle assemblee), preparare presentazioni della rivista. Per tutte le questioni inerenti alla promozione della rivista (abbonamenti, vendita militante, gruppi locali) potete rivolgervi a Fabrizio Billi, tel. 349-4245545, e-mail lol8302@iperbole.bologna.it, mentre per questioni inerenti all'attività redazionale della rivista (proposte di collaborazione, ecc.) potete rivolgervi ad Eros Francescangeli, tel. 349 1483650, e-mail zapruder@storieinmovimento.org PRESENTAZIONE DEL PROGETTO STORIE IN MOVIMENTO AL FORUM DI FIRENZE In occasione del Forum sociale europeo di Firenze, nel pomeriggio di venerdì 8 novembre, nella Fortezze da Basso, è stato presentato in occasione di una Conferenza stampa, il progetto Storie in movimento. Sono intervenuti Paolo Berardi Vernaglione, Eros Francescangeli, Paola Ghione e Paola Zappaterra che hanno illustrato alcuni aspetti del progetto e della costituenda rivista legata al progetto che si chiamerà: "Zapruder". RUBRICA SU CARTA A partire dal numero del 24 gennaio 2003 "Storie in movimento" ha iniziato a curare una rubrica di storia sulla rivista Carta. ############################################################################ INIZIATIVE ############################################################################ HISTORIA MAGISTRA. Associazione Culturale per il Diritto alla Storia organizza un Seminario di Studi su: INTELLETTUALI E GUERRA - Tra evo antico ed età globale. Informazioni presso il Dipartimento di Studi Politici di TORINO, via Giolitti, 33. I prossimi incontri: 30 gennaio (Si vis pacem para bellum: intervengono: G. Gandini, M. Vallerani). 6 febbraio (La nostra "guerra giusta" vista dagli altri. Interventi di: Mario Gallina, Adriano Prosperi). 20 febbraio (L'Impero. Partecipano: Sergio Roda, Giovanni Borgognone). 6 marzo (Filosofi davanti alla guerra, con Giuseppe Cambiano e Massimo Mori). 20 marzo (La bomba. Massimo Zucchetti, Antonio Alliano, Pierpaolo Portinaro). 3 aprile (Pensieri di guerra: Bruno Bongiovanni, Angelo D'Orsi). 10 aprile (L'esteta armato: Lionello Sozzi, Anna Chiarloni, Angelo D'Orsi). 8 maggio /Notizie di guerra: Nicola Tranfaglia, Luciana Giacheri Fossati, Enrica Bricchetto). 15 maggio (nuove minacce globali (Mario Vadacchino, Renato Monteleone). 22 maggio (Etnie e guerra: Walter Pohl) Friday and Saturday 30 and 31 May 2003 THE INSTITUTE OF CULTURE AND HISTORY (Faculty of Humanities, University Of Amsterdam) and THE INSTIRUTE OF SOCIAL HISTORY (Amsterdam) will organise an international seminar about the impact of globalisation on radical social movenments. The event will take place at the International Institute of Social History, Cruquiusweg 31. 1019 AT Amsterdam (The Netherlands) . +31 206685866. info@iisg.nl http://www.iisg.nl/research/antiglob.html ############################################################################ SEGNALAZIONI ############################################################################ *Damiano Palano, Il potere della moltitudine. L'invenzione dell'inconscio collettivo nella teoria politica e nelle scienze sociali italiane tra Otto e Novecento Vita e Pensiero, Milano, 2002 (pp. 602). Prezzo: 38 euro *Elena Petricola, I diritti degli esclusi nelle lotte degli anni settanta. Lotta Continua. Prefazione di Nicola Tranfaglia. Edizioni Associate. Editrice Internazionale.Novembre 2002, 15 euro *Le ragioni di un silenzio. La persecuzione degli omosessuali durante il nazismo e il fascismo, a cura del circolo Pink di Verona, Ed. Ombre corte, 2002 *Agli interessati di progetti sul web. THE HISTORY E-BOOK PROJECT E' un accesso elettronico americano dove è possibile scaricare importanti libri di storia sottoforma di e-books. Vi si possono trovare traduzioni in inglese di opere di storiografia mondiale, non troppo recenti a causa dei "copyrights" http://www.historyebook.org/ *E' da oggi visibile il sito www.torinoinguerra.it, un laboratorio di storia on line in fase sperimentale realizzato da Cliomedia Officina in collaborazione con l'Istituto storico della Resistenza di Torino per la Provincia di Torino. E' una banca dati con centinaia di documenti consultabili on line. Ma soprattutto è un tentativo di sperimentare, anche attraverso la modalità del concorso, le potenzialità di partecipazione, attraverso internet, ad un'attività di ricerca, approfondimento, scambio di idee. E' destinato agli studenti delle scuole medie superiori. Saremo grati a tutti coloro che vorranno esaminare il sito e magari vorranno farci pervenire opinioni e suggerimenti. ############################################################################ NEWSLETTER del PROGETTO STORIE IN MOVIMENTO ---------------------------------------------------------------------------- Segnalazioni e contributi vanno inviati a: Carla Pagliero, carla.pagliero@fastwebnet.it La newsletter del Progetto Storie in movimento è inviata agli aderenti del progetto e a tutti coloro che ne fanno richiesta. Gli indirizzi di posta elettronica presenti nella nostra rubrica provengono da richieste o segnalazioni pervenuteci, oppure da elenchi e servizi di pubblico dominio pubblicati in Internet. Per essere rimossi dalla lista inviare un messaggio vuoto con oggetto "cancellazione dalla newsletter" a: luca.fanelli@club.lemonde.fr ########################################################### PROGETTO STORIE IN MOVIMENTO ----------------------------------------------------------- Storie in Movimento: www.storieinmovimento.org Per contatti, informazioni, adesioni e abbonamenti: info@storieinmovimento.org MODULO DI ADESIONE: per aderire a Storie in Movimento compila il modulo di adesione in http://www.storieinmovimento.org/part_ader.html Telefono: 011 889244 (Carla Pagliero) - 075 44654 e 349 1483650 (Eros Francescangeli) LISTA DI DISCUSSIONE ----------------------------------------------------------- La lista di discussione (mailing list o ML) del Progetto Storie in movimento è una lista non moderata riservata agli aderenti. Per iscriversi (o revocare l'iscrizione) alla lista, collegarsi a: http://www.inventati.org/mailman/listinfo/rivistoriantago Una volta iscritti, l'indirizzo della lista è: rivistoriantago@inventati.org. Per le questioni tecniche relative alla presente newsletter e alla Lista di discussione potete rivolgervi a Luca Fanelli: info@storieinmovimento.org