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In ricordo di Paola Di Cori

Ci ha lasciato anche Paola Di Cori, storica femminista e femminista storica, studiosa, docente, voce pubblica e “compagna di viaggio” di «Zapruder». Le sue ricerche focalizzate sugli studi di genere, sulla storia delle donne e del femminismo, si distinguono per lo sguardo largo, provocatorio e calato nel dibattito presente.

Da sempre attenta a quanto si muoveva nel contesto internazionale, Paola ha introdotto e “tradotto” alcuni degli elementi che avevano caratterizzato il dibattito storico e femminista americano sul gender[ref]1. cfr. Dalla storia delle donne a una storia di genere, «Rivista di storia contemporanea», n. 1, 1985, pp. 548-599, saggio che precede la pubblicazione del contributo di Joan W. Scott Il «genere»: un’utile categoria di analisi storica[/ref]. L’intento era quello di stimolare anche in Italia la discussione «dal  punto  di  vista  che ci  sta  tanto  a  cuore:  quello  della  trasmissione.  Che  è  poi  il  versante politico  ed  etico  del  nostro  lavoro», come ricorda nel dialogo a più voci pubblicato sul numero 33 di «Zapruder».

Paola era intervenuta su uno dei primi numeri di «Zapruder» per dire la sua sul neonato percorso di Storie in Movimento. Ci seguiva con curiosità partecipe e voleva ribadire i temi che riteneva centrali nel fare storia nel e del tempo presente: «1) la questione della soggettività e dei soggetti; 2) la questione del rapporto tra sfera pubblica e ricerca storica (rapporto talvolta declinato esclusivamente come uso pubblico della storia; ma si tratta anche di ben altro)»[ref]2. Consultabile qua[/ref].

Per salutarla, ripubblichiamo l’articolo scritto per “Relazioni pericolose” (5/set-dic 2004), nella rubrica La ricerca che non c’è, sul rapporto tra neofemminismo e ricerca storica. Un contributo critico, una denuncia, un’analisi valida ancora oggi, che ben mostra la potenza del suo pensiero e dell’approccio non vittimista.

Ciao Paola!

Silenzio a più voci

Neofemminismo e ricerca storica: un incontro mancato

di Paola Di Cori

 

Nella seconda metà degli anni ’70 le femministe impegnate in ricerche di storia lamentavano di dover procedere con grandi difficoltà e spesso muovendosi a tentoni nel proprio lavoro. Tutto sembrava mancare: una tradizione di studi, archivi, biblioteche, riviste, seminari specializzati, spazi di discussione e di scambio su problemi di un’area nuova e non ancora scientificamente legittimata; i conflitti dentro e fuori le istituzioni con un universo disciplinare maschile compatto e ostile, politicamente progressista ma culturalmente arretrato, erano assai accesi.

Dieci anni dopo la situazione era del tutto cambiata, come mostrarono con un effetto di grande visibilità pubblica due convegni (a Bologna alla fine dell’86, e a Modena nel marzo ’87); superata ormai la fase adolescenziale, si avviava così un processo di aperto confronto – non privo di ambivalenze e contraddizioni – con istituzioni accademiche, tendenze della storiografia, gruppi politici e referenti partitici discendenti dal movimento delle donne. Un altro decennio trascorse, in cui furono raggiunti alcuni obiettivi importanti sul piano dei risultati di ricerca e dell’affermazione della storia delle donne nelle università, ma a spese di una biografia collettiva: avevamo lavorato molto per ridare lustro e dignità scientifica alle donne dei secoli passati e alle generazioni di antenate, di bisnonne e di madri; non avevamo fatto quasi nulla per ricostruire la storia di noi stesse. A confronto con quanto si è pubblicato e si pubblica sul movimento delle donne negli anni settanta in altri paesi europei, per non dire di quelli anglofoni, la produzione italiana degli anni novanta è stata di fatto inesistente e il femminismo progressivamente allontanato dalle università, dalle pagine culturali di quotidiani e di riviste. Alcune storiche testate («Memoria», «Reti», «Lapis», «Noi donne») chiusero nel corso degli anni novanta senza essere sostituite da altre nuove; e perfino l’aggettivo femminista venne utilizzato con imbarazzo, sospetto, titubanze. Tranne qualche raro caso (brilla su tutti Movimento a più voci di Maria Schiavo, uscito nel 2002) , in una lenta agonia, esempio supremo di autocensura, nel corso di questo periodo si era infatti ridotta a mormorio appena percepibile la memoria storica del femminismo. Quest’ultima, deprivata del suo capitolo più recente e straordinario, è apparsa in tempi recenti simile a una grande diva del muto invitata a fare un brindisi augurale al nuovo millennio, ieratica e autorevole nei suoi abiti fuori moda ma tanto lontana: cammeo luccicante nelle ricostruzioni della storia generale; reliquia nostalgica di tempi ormai lontani nelle iniziative “trent’anni dopo” per le militanti di allora; sogno irraggiungibile di un’era di utopie dissacranti per le più giovani; paese di Cuccagna della politica delle donne, ahimè, per tutte quante.

Quali, tra molte, alcune ragioni di tanto silenzio, al quale, insieme anche a studiose di scienze sociali, tutte le storiche fenmministe e le femministe storiche – con pochissime eccezioni – abbiamo contribuito seppure con sfumature e in forme molto diverse?

Per avviare una proposta di discussione – scopo principale di questi brevi appunti – azzarderei una ipotesi interpretativa che si muove lungo due direttrici: la prima è a carattere generale, e mira a individuare, nel lungo periodo, un ampio contesto esplicativo di natura socio-politico-culturale di cui qui è possibile dare solo qualche cenno veloce; e, in secondo luogo, un buon numero di concause presenti soprattutto a partire dagli anni ottanta, l’insieme delle quali ha contribuito a consolidare quello che, a buon diritto, può essere considerato come un vero e proprio blocco della e intorno alla memoria del femminismo. Per quel che riguarda il primo punto mi richiamo, anche se solo in parte, a quanto ho scritto in un saggio del 1996 (Culture del femminismo. Il caso della storia delle donne, in Storia dell’ Italia repubblicana, vol. III. L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio,t.2. Istituzioni, politiche, culture, Einaudi, 1997, pp. 803-861). Analizzando le caratteristiche della generazione di donne che avevano cercato di coniugare femminismo e ricerca storica a livello professionale, indicavo un problema di emancipazione fragile delle donne in Italia, se messa a confronto con altri paesi, e conseguentemente l’esistenza di una tenace dipendenza dalle istituzioni; poco importa che fossero accademiche, storiografiche, familiari, politiche, sentimentali o affettive. Chiusa la fase militante, chi svolgeva lavoro all’università o avrebbe voluto fare ricerca, si dedicò alla costruzione di un profilo professionale che, sebbene ruotasse intorno ad argomenti riguardanti le donne – tuttora considerati temi poco qualificanti – riusciva a soddisfare criteri di ammissibilità da parte dell’establishment. Nel tentativo di raggiungere obiettivi di carriera e di promozione personale, e al tempo stesso di conservare un indispensabile equilibrio psicologico – coinvolgendo quindi sia il piano della identità scientifica e pubblica sia quella emotiva e privata-, l’ordine delle priorità fu radicalmente modificato. Il desiderio di legittimazione, di riconoscimenti, di cooptazione, finì per pesare in maniera preponderante sulle scelte fatte in ambito scientifico, a tutto scapito della creazione di spazi autonomi e dello sviluppo di studi indipendenti da condizionamenti accademici.

E sullo sfondo, gli anni ottanta. Un deprimente cocktail di neoconformismo e carrierismo, di crescita dei consumi e crollo della partecipazione politica; un periodo emblematicamente rappresentato dalle intese tra Craxi, Andreotti e Forlani, funzionali a coprire la presenza di un gigantesco sistema di corruzione nazionale, e a imporre nel paese uno stile di lavoro che svuotava di ogni significato l’espressione «beni di interesse pubblico». In questo clima – che riguardava naturalmente anche le università, il sistema educativo e l’istruzione in genere, oltre alla gestione del patrimonio artistico e culturale; vale a dire i principali settori entro cui operavano le storiche provenienti dal femminismo – le prime a essere sacrificate furono le ricerche riguardanti i movimenti (compresi i temi relativi alle ideologie e alla carica utopica entro cui erano maturati) degli anni sessanta e settanta; ma a rimanere coinvolto in questo processo è stato l’intero sistema delle comunicazioni, dell’istruzione e della divulgazione seria. Né la fragilità fu unicamente femminile, né si trattò solo di donne che si occupavano di storia, anche se sono state queste ultime a perdere colpi, soprattutto sul piano della rappresentazione dei generi nella sfera pubblica (come giudicare l’iniziativa dei volumetti Italiane – desolanti per la modestia di concezione e di intenti – promossi dalla ministra Prestigiacomo e distribuiti gratuitamente nelle edicole nel marzo-aprile 2004, che si avvalgono della consulenza di diverse studiose della Società italiana delle storiche?).

Tra le conseguenze più vistose del processo avviato negli anni ottanta, lungo il decennio successivo si affermò con l’implacabile forza delle verità inoppugnabili l’idea che i legami tra scienza e politica erano un residuo ideologico da lasciarsi alle spalle; caso mai, qualcosa da affrontare fuori dai luoghi di studio, di ricerca e di didattica. I tentativi di autoriflessione critica furono considerati alla stregua di esercizi un po’ nostalgici e poco utili a costruire una storia delle donne scientificamente solida; l’autobiografia restituita alla letteratura. Rinvigorite da una persistente ossessione disciplinare, che impone la rigida ubbidienza di regole corporative antiquate (e in Italia scrupolosamente osservata), queste leggi non scritte ma rispettate ebbero tra gli effetti immediati quello di rendere marginale e invisibile proprio lo studio dei fenomeni dell’attualità e del passato prossimo, che furono considerati oggetti impropri per l’interpretazione storica, un’area infida e giudicata di pertinenza sociologica, politologica, o magari filosofica; ancor meglio: terreno prediletto soprattutto di chi pratica professionalmente il giornalismo colto, si muove con disinvoltura nei centri del potere e della rappresentanza politica, e prospera nei circoli a questi vicini.

A rimanere fuori gioco, tuttavia, non è stato solo il femminismo ma la possibilità stessa di interpretare il presente (delle donne e anche degli uomini); il quale, non analizzabile dal punto di vista della ricerca in storia, si è trasformato con il passare del tempo in qualcosa di indefinito
e contraddittorio, apparentemente senza radici. Ogni interesse relativo a processi e mobilitazioni di carattere politico ha subìto infatti significativi spostamenti verso contesti non italiani, epoche più lontane, e molto spesso precedenti gli anni settanta.

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