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«Il silenzio è sconfitto»

La persistenza del fascismo nella destra italiana

di Giovanni Pietrangeli

L’anniversario della strage di Acca Larentia (7 gennaio 1978), è quasi ogni anno motivo di dibattito e polemiche, sia all’interno della destra neofascista romana, sia nel mondo politico. Quest’anno a tenere banco è stata la denuncia di aggressione ai danni di alcuni giornalisti del settimanale «L’Espresso», da parte di esponenti di Forza nuova e Avanguardia nazionale. Tuttavia, nel marasma di commemorazioni frammentate che da qualche anno caratterizzano l’anniversario, l’appuntamento più discreto (tanto da essere in programma, dopo un primo rinvio, per il 20 gennaio) è stato forse accompagnato dalla comunicazione più densa di significato. I sodali del vice presidente della Camera dei deputati Fabio Rampelli, di Fratelli d’Italia, hanno lanciato un loro raduno con la consueta grafica del gabbiano stilizzato, che rimanda alla loro “corrente” interna al Movimento sociale italiano, poi Alleanza nazionale.

Alla grafica si accompagna una frase che racchiude il senso attribuito dai neofascisti italiani alle commemorazioni:

Hanno sparato senza guardarci negli occhi, eravamo mostri, non uomini. Nessuna giustizia per noi, solo l’oblio. Ora siamo storia d’Italia, il silenzio è sconfitto.

Una dichiarazione di vittoria e continuità con l’esperienza neofascista della prima Repubblica, con quel Movimento sociale italiano che, come ricordano Elia Rosati e Aldo Giannuli in una recente Storia di Ordine nuovo, era stato ombrello e contenitore di organizzazioni e singoli militanti legati a doppio filo con la strategia della tensione: primi fra tutti, Ordine nuovo e Pino Rauti, ma a cui si potrebbero aggiungere Valerio Fioravanti e i Nar, le sedi romane di Balduina e via Siena e il loro contributo allo squadrismo romano.

L’emersione dall’oblio del ricordo dei propri morti e il loro riconoscimento come parte integrante della storia d’Italia è stato uno dei principali campi su cui si è giocata la battaglia politica per il pieno riconoscimento della legittimità del neofascismo, in tutte le sue declinazioni politiche. Ancora Elia Rosati, in un articolo pubblicato su «Zapruder» 42, descrive la memoria dei militanti morti come «trincea» del neofascismo italiano, in uno scontro guidato in primis proprio da An:

Gli eredi del più importante partito neofascista europeo – ora Alleanza nazionale – potevano insomma permettersi di alzare il tiro e lo fecero in primis impegnandosi in un aspro conflitto sulla memoria storica dipingendo la nuova fase politica come una possibilità di pacificazione nazionale, con l’avallo anche di alcune importanti voci del mondo ex comunista. […] L’importanza della vicenda Ramelli non diminuì, anzi continuò ad essere la breccia da cui aggredire e minare l’identità antifascista repubblicana. Il fatto di non riconoscere dignità e spazio nella memoria condivisa alla destra italiana veniva spesso associato alla contrapposizione militante degli anni settanta, alludendo anche – senza nominarla apertamente – alla lotta di Liberazione.

Il manifesto dei “rampelliani”, insomma, sembra rivendicare dunque l’esito vittorioso di uno scontro politico e culturale durato almeno due decenni. Negli ultimi mesi, la spregiudicata comunicazione del ministro dell’Interno Matteo Salvini sul tema dei migranti, le evidenti discriminazioni promosse nei provvedimenti governativi rivolti alla gestione delle migrazioni e alle politiche sociali, la rivendicazione di toni “muscolari” e le citazioni del Ventennio, hanno fatto sì che da più parti ricominciassero a suonare i campanelli di allarme sul ritorno del fascismo in Italia. Va detto che molte dichiarazioni e inchieste, lungi dall’affrontare il nocciolo della questione, sono state mosse da intenti di bassa tattica politica. Tuttavia, hanno aperto un confronto culturale che sta producendo risultati importanti per contenuti e risonanza. Un esempio è certamente il recentissimo volume di Alberto De Bernardi, Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche. Presentandolo ai microfoni della trasmissione «Fahrenheit» di Radio tre, De Bernardi sottolinea l’inadeguatezza della definizione di fascismo rispetto alle nuove forme che la politica di destra avrebbe assunto in Italia. Una inadeguatezza che si riflette nell’incapacità a elaborare una critica profonda di contenuti, pratiche e forme di organizzazione che la destra mette in campo. Ai microfoni De Bernardi ha proposto una distinzione tra il fascismo e le attuali forze al governo:

È esistito in Italia un campo più o meno piccolo, più o meno influente, più o meno significativo di neofascismo. Ora, il neofascismo è chiaro che oggi costituisce una componente dell’area sovranista populista, per il semplice fatto che ha molti punti di contatto con quel mondo, ha molti punti di contatto con la tavola di valori del nazionalismo, piuttosto che del sovranismo. Perché ovviamente essere neofascista significa sposare ideologie razziste, sposare ideologie antisemite, significa sposare ideologie che coincidono o in qualche modo chiamano in causa quelle che il populismo oggi utilizza, ma sono due cose distinte […] Oggi Salvini è una destra pericolosa per il nostro Paese, come è altrettanto pericolosa la destra populista del Movimento 5 stelle […] pensare però di esorcizzarlo dicendo che è tornato Mussolini, ecco questo ritengo che sia completamente sbagliato.

Che avessimo davanti qualcosa di nuovo rispetto al fascismo in orbace, figlio della nazionalizzazione delle masse della prima metà del Novecento, non è una idea nuova. Già un decennio fa, Guido Caldiron si chiedeva:

Come descrivere l’orizzonte culturale di una destra che vince nelle urne come nella società, che si presenta nel segno del moderatismo politico ma che in realtà contiene ed esalta al suo interno le radici e le spinte più radicali […]?

La sua definizione di Populismo globale, titolo da cui è tratta la citazione, ben si adatta alle tante espressioni, apparentemente contraddittorie, di forme politiche reazionarie, bellicose nei toni e nelle pratiche, intrinsecamente conservatrici e tradizionaliste: dall’Israele confessionale voluto da Netanyahu, alla democrazia limitata di Putin e Orban, dalla sfida che Daesh lancia al mondo musulmano, alle reminiscenze segregazioniste degli Stati uniti. Alberto De Nicola, sulla piattaforma web «Dinamopress» propone un’altra efficace definizione ancora: «ciclo politico reazionario», pur non rinnegando che la specificità italiana, in questo quadro, è ancora tendenzialmente di «ritorno al fascismo».

Perché non riconoscere questa specificità? Se Caldiron dieci anni fa, nella cornice del populismo globale, sottolineava tuttavia la persistenza della Weltanschauung tradizionale del fascismo e del nazismo citando Oswald Spengler, Furio Jesi e in ultima istanza Marcello Veneziani, e allo stesso tempo le biografie, la comunicazione, la postura pubblica dei politici e dei militanti rivendicano questa continuità, come nel caso del manifesto citato in apertura, perché cercare definizioni alternative?

Non solo infatti permane una continuità ideale e spirituale, ma permangono anche alcuni elementi caratteristici della politica del fascismo del XX secolo: il più evidente, la visione organica della società, dove non c’è spazio per “devianza”, che si parli di famiglia, di misure di welfare o spazi urbani, e conflittualità, se non come violenza reazionaria. Più in chiaroscuro rimane l’elemento razziale: se in parte si è infatti diradato il pregiudizio biologico, le narrazioni ereditate dall’idea dello “scontro di civiltà” sono ancora radicate e permeate di elementi che richiamano alle teorie antigiudaiche e dell’eterodirezione dei grandi fenomeni storici della nostra epoca come le migrazioni. In un momento in cui la realtà supera quotidianamente la fantasia, ministri e rappresentanti della maggioranza parlamentare possono utilizzare lo stesso identico lessico di organizzazioni fino a pochi anni fa marginali nel panorama politico: basti pensare alla minaccia di invasione e alla “sostituzione etnica”, una tesi articolata per la prima volta da Renaud Camus che, come ha avuto modo di sottolineare Guido Caldiron, coniuga «una visione paranoica a una dimensione cospirativa la cui posta in gioco è riassumibile nella sopravvivenza o meno di quello che si afferma essere il profilo dell’Europa (bianca)». In questo quadro, come ricorda Enzo Traverso in La metamorfosi delle destre radicali nel XXI secolo, contributo uscito nel gennaio 2019 per la Fondazione Feltrinelli, l’islamofobia ha rimpiazzato in larga misura l’antisemitismo classico. Tuttavia, nella cornice generale, il “burattinaio” (per riprendere la copertina di un periodico edito da Casapound Italia e che è stato volentieri distribuito dal ben più diffuso «Libero») rimane il ricco ebreo cosmopolita: George Soros. Così se è vero che specialmente in Francia, osservatorio privilegiato da Traverso, l’islamofobia promossa dall’estrema destra è il prodotto avariato di un sedicente attaccamento ai valori dell’Illuminismo, in Italia le radici culturali rimangono spesso quelle sanfediste, in ultima istanza legate al mito mai decaduto di Mussolini e in alcuni casi sincretizzate con il reducismo saloino, anche se apparentemente in contraddizione con il fondamentalismo cattolico.

Fascisti su marte

Se la crisi degli anni Duemila ha funzionato da volano, il ventennio berlusconiano ha avuto un importante ruolo come crogiolo e momento di sintesi di tutte queste «identità irrisolte dei postfascisti», per citare un volume che nel 2007 affrontava, da destra, il tema scottante del «pollaio di valori» a cui ormai faceva riferimento l’intera galassia nostalgica. In Il passo delle oche, il giornalista Alessandro Giuli, di fronte alla confusione valoriale propose la rivalutazione di Julius Evola che sebbene «non abbia mai esercitato un’influenza decisiva nelle scelte tattiche dei missini […] ha rappresentato una figura immancabile nella formazione del militante classico missino». Per concludere, se a livello globale il “ciclo politico reazionario” si alimenta di narrazioni, valori e pratiche dalla genealogia molteplice e contraddittoria, quindi “populista”, in Italia è forse ancora presto per mandare in soffitta la definizione di fascismo per quanto concerne la stragrande maggioranza della destra, da Casapound alla Lega, passando per il “presentabile” centro-destra riferimento del Partito popolare europeo, per altro in una geometria di influenze e relazioni tra i vari movimenti sempre più variabile.

La ormai secolare storia del fascismo italiano ha avuto la capacità di innestarsi nei linguaggi e nei valori del “populismo”, proponendosi, nelle vesti mimetiche dei partiti della seconda Repubblica, come interprete di quello che viene rivendicato come il senso comune delle persone. L’elemento populista, in questa prospettiva, sta nell’uscita dalla rivendicata residualità e nella autorappresentazione come sintesi degli interessi di tutti, senza distinzione di classe, purché italiani e rispettosi delle supposte consuetudini della comunità. Il giurista Luigi Ferrajoli ha descritto in poche righe questa autorappresentazione, all’interno della quale sono radicati i caratteri di continuità con la storia del fascismo italiano:

[La] negazione della distinzione tra rappresentanti e rappresentati, tra Stato e società. Secondo questa ideologia, che ha assunto connotati sempre più apertamente populisti, la democrazia politica consisterebbe, ben più che nella rappresentanza della pluralità delle opinioni politiche e degli interessi sociali e nella loro mediazione parlamentare, nella scelta elettorale di una maggioranza di governo e con essa del suo capo, identificati con l’espressione diretta ed organica della volontà e della sovranità popolare sulle quali si fonderebbe la legittimità dei pubblici poteri.

Non è dunque una questione di inutile reductio ad hitlerum. Il manifesto dei “gabbiani” per il quarantunesimo anniversario della strage di Acca Larentia è là a testimoniarlo: la «trincea della memoria» è diventata offensiva a tutto campo per ridare lustro e cittadinanza a un’idea dei rapporti sociali e della politica in piena continuità con il Novecento. L’elemento del “populismo” che rivendica la piena legittimità degli eletti come rappresentanti del “popolo” nel suo complesso, lo allinea con il resto del panorama internazionale e con lo spirito dei tempi, ma non ne modifica la natura, semmai la rende più radicale.

Il fascismo del XXI secolo non avrà il volto di Mussolini, Hitler o Franco […] ma sarebbe sbagliato dedurne che le nostre democrazie non siano in pericolo.

Questa citazione, ancora dal saggio di Traverso per la Fondazione Feltrinelli, densa di preoccupante incertezza, ci è utile per spostare la questione dall’identificazione del problema, e delle parole per raccontarlo, alla ricerca di una soluzione.

Fugato il dubbio, speriamo, sulla persistenza fascista nella destra italiana, non solo come folklore, ma come visione generale, a dover essere rimesso in discussione è il suo antagonista: l’antifascismo. A dover essere rimessa in discussione non è la sua genealogia, non la sua contiguità con gli ideali di emancipazione e libertà, ma è prima di tutto la sua cassetta degli attrezzi. Paradossalmente si torna indietro di mezzo secolo, quando utilizziamo le rappresentazioni “monumentali” della Resistenza come clava per rivendicare una scelta di campo. I richiami alle “città medaglia d’oro” sono ormai superati dai fatti. Non si possono contrapporre solo valori a un apparato, tanto ideologico quanto politico, così forte come quello dell’estrema destra italiana. La materialità delle relazioni, le pratiche del mutualismo e della solidarietà contrapposte all’egoismo sociale, la ridefinizione profonda dei rapporti tra i generi, l’inflessibilità di fronte allo squadrismo sono le dimensioni entro le quali riorganizzare non solo la difesa dell’attuale democrazia, ma una sua radicale ridefinizione in chiave antifascista.

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