Continuano le chiusure di pagine sul social network proprietario più in vista del mondo e si sta (finalmente) aprendo uno spazio di discussione e ripensamento critico di questo e altri strumenti simili, soprattutto da parte di soggetti e collettività le cui logiche sono antitetiche all’anarco-capitalismo di Facebook. Che sia la volta buona per esplorare le alternative disponibili? Dopo una prima puntata sulle Zuccate, ospitiamo questo intervento di @zeropregi.
Perché Facebook non censura
di @zeropregi
L’oscuramento e la minaccia di sospensione di diverse pagine di collettivi o di informazione della sinistra antagonista hanno di nuovo portato al centro dell’attenzione il cambio della linee guida di Facebook (ma anche di Instagram, che ha la stessa proprietà) riguardo alcuni argomenti prettamente politici. Se le pagine delle destre neofasciste sono state chiuse per «incitamento all’odio», la motivazione di aver violato gli “standard della comunità” è stata usata per tutte le pagine che hanno manifestato solidarietà al popolo curdo, in questi giorni sotto attacco da parte della Turchia. La “giustificazione” del gruppo di Zuckerberg probabilmente è legata al fatto che in diversi paesi, in primis gli Usa, il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan, ndr) è considerato organizzazione terroristica e che secondo quanto riportato negli Standard della community al punto 2 della parte I, «per impedire e interrompere atti di violenza reali, non permettiamo la presenza su Facebook di organizzazioni o individui che proclamano missioni violente o che sono coinvolti in azioni violente. Questo include organizzazioni o individui coinvolti nelle seguenti attività: Terrorismo […]. Rimuoviamo inoltre contenuti che esprimono supporto o elogio di gruppi, leader o individui coinvolti in queste attività».
Dunque sostenere il popolo curdo è per l’algoritmo e la policy di Facebook e – forse messi in moto da un’azione congiunta di segnalazioni provenienti da forze filoturche – una violazione delle regole. Erano “terroristi” i curdi legati al Pkk anche quando fino a un anno fa, attraverso le milizie Ypg e Ypj (Unità di protezione popolare e Unità di protezione delle donne, ndr), combattevano e respingevano l’Isis nelle stesse zone dove ora l’esercito turco è entrato per spazzare via l’esistenza del Rojava. È infatti almeno dal 2012 che Facebook chiude o sospende pagine che manifestano sostegno o solidarietà nei confronti delle organizzazioni curde, come riportato dalla stessa DinamoPress in un articolo del 2015.
Per riassumere la questione faccio affidamento al post di una delle pagine colpite (come Globalproject e Contropiano, ripristinate in seguito alle proteste), Milano in Movimento (MiM), che ha scritto: «Non siamo gli unici, decine di pagine di solidarietà al Kurdistan sono state bloccate e questa situazione ci porta di nuovo a riflettere su quanto noi militanti abbiamo fatto affidamento, per la divulgazione delle nostre idee, ad una piattaforma di advertising, gestita da privati, che può manovrare e manipolare il consenso politico di interi Paesi senza alcun filtro», ma poi subito dopo aggiunge: «Se Milano in Movimento dovesse davvero chiudere, una parte di Milano smetterebbe di essere rappresentata. Noi facciamo informazione di parte e rappresentiamo i movimenti nella nostra città. A fare questo a Milano ci siamo solo noi, e tu Zuckerberg vuoi tapparci la bocca come nelle peggiori dittature o, peggio, distopie».
Uso queste parole perché da esse emergono due punti pertinenti, che meritano di essere sviluppati e discussi. Se il primo punto, ovvero se sia il caso di affidarsi a una piattaforma privata per veicolare contenuti/informazione, mi trova in sostanza d’accordo e credo che sia ‘il’ ragionamento da portare avanti a quindici anni dalla nascita di questo social network, il secondo invece mi lascia piuttosto perplesso nonostante sollevi temi reali, nella loro innegabile complessità.
Ma procediamo per gradi, cominciando proprio da quest’ultima questione.
Parlare di censura riguardo al comportamento dell’azienda della Silicon Valley è qualcosa di discutibile (qua propongono assurdamente di renderlo pubblico). Facebook è una piattaforma privata che ha come obiettivo quello di produrre profitto attraverso una serie di strumenti (in primo luogo la vendita dei dati ottenuti dalla profilazione degli utenti a fini pubblicitari) e il suo cambio di linee guida è stato determinato più da strategie di profitto che dalla voglia di pace, democrazia e nonviolenza. Da anni si accetta che Facebook faccia profitto attraverso il nostro traffico, i nostri dati, le nostre interazioni, ‘like’ o post a pagamento.
Che il cosiddetto hate speech negli Stati uniti sia un tema di discussione è un dato oggettivo, ma per Zuckerberg e soci l’odio che produce profitto può essere comunque compatibile con la piattaforma. Come recita un interessante articolo,
il discorso del signor Zuckerberg è stato spinto più recentemente da una policy radicale che Facebook ha svelato il mese scorso. In esso, la società ha affermato che non modererà il discorso dei politici o controllerà i loro annunci politici perché i commenti dei leader politici, anche se falsi, sono degni di nota e nell’interesse del pubblico ascoltare e discutere.
Cecilia Kang e Mike Isaac, «The New York Times, 17 ottobre 2019
Il linguaggio razzista di un politico quindi è accettabile soprattutto perché – continua l’articolo – «il signor Zuckerberg ha dichiarato di aver preso in considerazione l’idea di vietare le pubblicità politiche da Facebook. Ma ha detto che la pubblicità politica potrebbe essere considerata parte del discorso e decidere quali questioni siano politiche e quali no sarebbero troppo scivoloso. Ha aggiunto che gli annunci politici rappresentano 55,8 miliardi di dollari di entrate annuali per Facebook».
Quasi cinquantasei miliardi di dollari l’anno. Certo, pagine come quella di Casapound o Forza Nuova con i loro post a pagamento rappresentano le briciole di questa cifra… ma l’insieme di queste alimenta gli interessi di una piattaforma che ha il profitto come obiettivo, anche se spacciato per libertà di parola.
Le criticità di Facebook le conosciamo tutte e da anni: il collettivo Ippolita[ref]1. Ippolita, Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo, Milano, Ledizioni, 2012.[/ref] ha spiegato per filo e per segno il perché sarebbe opportuno “uscirne”. Non lo abbiamo fatto? Pace. Non sappiamo rinunciarci? Ok. Però non è che queste criticità vengano meno e basti “un uso consapevole” del mezzo per non essere parte del problema. Vero è che, soprattutto per le pagine dei collettivi o dei network antagonisti, quella viene ritenuta una finestra sul mondo, e rinunciarci può costare. Soprattutto perché viene ritenuta una possibilità di andare oltre al proprio villaggio. Quanto riescano ad andarci onestamente non lo so, ma facciamo che sia così.
Non nego che questa sia una questione dirimente, peccato che tutti questi problemi ce li stiamo ponendo ora che Zuckerberg “si è ripreso il pallone” e ha smesso di farci giocare sul suo campetto. Ma soprattutto, se la presunta censura non colpisce me ma chi è accanto a me, il problema non esiste? Ad esempio nei giorni in cui Facebook chiudeva le pagine dei neofascisti, Twitter sospendeva i più importanti account di informazione cubani senza averne spiegato le ragioni e pochi si sono posti in maniera critica la questione generale, ma ci siamo piuttosto affrettati a esultare per una “vittoria” democratica contro il neofascismo.
D’altro canto, come scrive Bruno Saetta su valigiablu,
Il punto è che oggi aziende come Facebook, Apple, Google, hanno la capacità di incidere su gran parte della popolazione mondiale e forniscono servizi che non si possono più non considerare essenziali per la partecipazione sociale di base. Attraverso Facebook, e non solo, i cittadini esercitano la libertà di espressione e il diritto all’informazione, attuano il diritto alla partecipazione sociale. L’incidenza delle aziende del web su questi diritti è, quindi, ben più vasta rispetto a quanto potrebbe mai fare un semplice editore o media company. Avete mai visto un cittadino esercitare la libertà di espressione su un giornale o in televisione?
Bruno Saetta, «valiguablu», 12 settembre 2016
Dunque Facebook è uno spazio privato che ha sussunto dinamiche pubbliche ma che pubblico non è, e in un senso o nell’altro ridurre questa complessità porta ad analisi falsate a seconda dell’interesse del momento.
Per questo non sono convinto quando si scrive nel comunicato congiunto di lancio della conferenza stampa contro la “censura di Facebook ai media indipendenti” che «come testate che hanno da sempre sostenuto istanze di libertà e democrazia reale, ribadiamo che continueremo a essere in prima linea nel documentare e sostenere le lotte per la giustizia, l’uguaglianza e i diritti in ogni angolo del mondo. Allo stesso tempo ci appelliamo a chiunque creda nei valori e nell’azione di una informazione libera e indipendente di denunciare questo grave atto di censura attraverso tutti gli strumenti a sua disposizione». Nessuno sta impedendo la libertà di stampa, i siti non sono stati chiusi né i server sequestrati (come, ad esempio, accadde invece nel 2002 a Indymedia). Semplicemente una piattaforma privata ha deciso che quei contenuti non sono compatibili con il suo spazio. Giusto o sbagliato, è una piattaforma privata e con questo bisogna fare i conti.
Troppo spesso schiacciamo tutto su Facebook come se fosse “il male assoluto”, ma le stesse aziende che vivono della “stessa aria” per fare profitto (torniamo sulla profilazione e sui dati) come Amazon o Google, ad esempio, vengono dimenticate nei nostri ragionamenti. “Uscire da Facebook” ovviamente può non bastare se poi “viviamo” di servizi Google o di acquisti su Amazon. Parlare di censura su Facebook appare quindi discutibile e fuorviante quando Google, principale motore di ricerca, potrebbe “cancellarti” dai suoi indici e rendere il tuo sito pressoché irraggiungibile.
Come Simone Pieranni ha scritto su «il manifesto», «le scelte sono di Facebook, ma la benzina siamo noi, con i nostri dati. Siamo disposti a rinunciarci? Forse no. Di questi tempi denunciare la complicità del social con regimi come quello di Erdogan potrebbe essere il minimo richiesto». Questa riflessione pone una domanda fondamentale: per quanto sia il minimo denunciare il sostegno di queste multinazionali, social o non, ai regimi come quello di Erdogan, noi utenti siamo disposti a rinunciarci? O come ha scritto MiM vogliamo ancora fare «affidamento, per la divulgazione delle nostre idee, ad una piattaforma di advertising, gestita da privati, che può manovrare e manipolare il consenso politico di interi Paesi senza alcun filtro»?
Questa è la domanda. E i “ban” di Zuckerberg potrebbero essere l’occasione di cui avevamo bisogno per ripensare a come stare sul web e a quali strumenti usare. Esistono già strumenti alternativi, nonostante tutti i loro limiti: esiste Mastodon.Bida.im – una piattaforma di microblogging vista dagli utenti come un “il Twitter antagonista” –, il cui nodo/istanza italiano è gestito da oltre un anno dal collettivo Bida; esiste il Fediverso, che come recita il comunicato di Bida sulla sospensione delle pagine Facebook filocurde è «una galassia di social network basati su nodi decentrati e federati tra loro, popolati da milioni di persone: comunità in cui è possibile dotarsi di proprie regole» (qui si può trovare una descrizione efficace di ciascuno di questi social network); esistono i canali Telegram dove far arrivare direttamente i contenuti a chiunque sia interessato. Fa sorridere fare questi discorsi ancora oggi, proprio a pochi giorni dal ventennale della nascita di Indymedia, rete e comunità aperta per lo scambio di informazioni che aveva come motto e auspicio quello di become the media…
Secondo alcune analisi proprio per il meccanismo di visibilità gestito dagli algoritmi che premiano i contenuti più popolari o quelli che secondo l’intelligenza artificiale risultano più interessanti per ciascun utente, è difficile che i contenuti che ci sforziamo di produrre sulla piattaforma Facebook escano dalla cerchia di pubblico ristretta che si potrebbe già raggiungere in altri modi. Alla luce di ciò, anche rimettere in discussione la visibilità garantita dal social diventa prioritario. Viene spiegato bene in questo interessante racconto sul Fediverso:
“Eh ma come facciamo a raggiungere gente nuova senza Facebook?”: ecco un luogo comune che era davvero difficile da sfatare. Nel corso della mia esperienza non ho mai visto un evento Facebook raggiungere persone che non avessero già la possibilità di venire a conoscenza di quello specifico evento. Facebook ti mostra solo le cose a cui potresti essere interessata in base alle informazioni raccolte sul tuo comportamento e i tuoi gusti. Se una cosa piace ai tuoi amici, probabilmente interesserà anche te.
C.I.R.C.E.
Si chiama filter bubble, bolla di filtraggio. Molto difficilmente verrai in contatto con qualcosa di inaspettato a meno che… qualcuno non abbia pagato la piattaforma per raggiungere più persone possibile. Ma anche in quel caso verrai a conoscenza solo di eventi affini ai tuoi interessi, visto che i post in promozione su Facebook vengono indirizzati verso un pubblico selezionato dall’inserzionista stesso.
Perché dunque accontentarsi di una camera di risonanza che impedisce di sfondare il muro delle nostre abitudini e interessi e che per interessi di profitto non amplifica, come invece si crede, la portata dei nostri messaggi? Abbiamo dimenticato le email, le newsletter, i siti, le radio, i volantini e persino il passaparola, tutti strumenti che abbiamo saputo usare e innovare nel corso del tempo?
Per quanto riguarda invece le o i singoli utenti, ogni dubbio dovrebbe essere già fugato. Cosa abbiamo da perdere? Il poter postare inutili opinioni o meme o gattini? Rinunciare a relazioni sociali basate su chat e ‘mi piace’? Battute a parte l’occasione, e torno a ripetermi, è ghiotta. La posta in gioco è alta, trovare delle soluzioni per sottrarsi a questo circuito magari anche con creatività potrebbe essere lo spunto per cambiare il modo di vivere lo spazio quotidiano del web in cui inevitabilmente ci muoviamo.
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22 Novembre 2019 at 16:37