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Wherever you are, score a goal against every border

Dal calcio londinese, un contributo che fa riflettere sull’inclusività attraverso lo sport e il lavoro delle squadre popolari: la storia di un giovane calciatore kurdo che incontra, per poi perdere, una squadra e la sua dirigenza.

di Matteo Marchello

Non eravamo sicuri che Akar fosse il suo vero nome, ma in fondo nemmeno ci importava. Sapevamo poche cose di lui e forse solo di due eravamo assolutamente certi: si trovava a Londra come richiedente asilo e sapeva giocare a pallone decentemente. Tanto ci bastava.

Nel 2016 eravamo alla nostra prima esperienza da dirigenti di una squadra di calcio, un ruolo che avevamo deciso di assumere per ragioni politiche più che per vocazione sportivo-manageriale. L’intenzione iniziale era stata quella di estendere l’attivismo politico al calcio, mettendo in piedi una squadra che ci permettesse di utilizzare lo sport come megafono per le nostre attività sociali. L’idea di per sé non era particolarmente rivoluzionaria: conoscevamo abbastanza bene il modello proposto da alcune squadre di calcio popolare, dove le decisioni sono prese da un’assemblea composta da persone con lo stesso potere decisionale. 

Ci eravamo messi in testa di fondare una squadra che potesse veicolare un messaggio contrario a qualsiasi forma di discriminazione, dimostrando che si può combattere razzismo, omofobia e sessismo anche in un campionato di Sunday League, una lega che raggruppa vari campionati amatoriali ai quali partecipano prevalentemente “pub teams”. La maggior parte di queste squadre sono composte da pochi salutisti e moltissimi appassionati di pallone in cerca di smaltire la sbornia della sera precedente. E poi c’eravamo noi che gestivamo il Downs Fc con l’entusiasmo di chi è convinto di fare la rivoluzione 5 cm alla volta ogni domenica mattina. 

Nonostante la mancanza di esperienza – deficit molto grave in ambienti come quello, dove la grande maggioranza degli addetti ai lavori si conosce da almeno 30 anni – in tre mesi riuscimmo a mettere in piedi un progetto dignitoso. Partendo da zero creammo lo stemma, realizzammo la divisa, iscrivemmo la squadra nella lega adeguata, trovammo l’allenatore e persino un numero congruo di calciatori. In particolare, quest’operazione si rivelò particolarmente complessa. Non avevamo un bacino di calciatori politicamente già formati da cui attingere, pertanto parlammo del progetto a un paio di calciatori interessati e lasciammo che fosse il loro passaparola a completare la rosa.

Prima dell’esordio la squadra era completa, persino le maglie erano arrivate ed erano tutte dello stesso colore. Inoltre, sebbene fossimo noi a lavarle a rotazione, riuscivamo sempre a portarle a destinazione in orario ogni domenica mattina in tempo per il riscaldamento. A gennaio potevamo dire che era tutto funzionante e incasellato in una qualche forma di confortante routine.  

Tuttavia, l’attuazione dei principi politici che ci animavano si rivelò essere abbastanza difficoltosa. Non avevamo messo in conto la mancanza di qualsiasi formazione politica dei calciatori in squadra; luoghi comuni, prese in giro e comportamenti assolutamente incompatibili con il nostro credo politico erano pratica comune nello spogliatoio, luogo al quale non avevamo accesso. I calciatori ci pensavano due volte prima di schierarsi per combattere battaglie delle quali in fondo non comprendevano l’utilità e nemmeno la portata. 

Ci eravamo convinti che dare l’opportunità a ragazzi di periferia di giocare a pallone senza pagare nulla fosse, di per sé, un’attività sufficientemente politica. Volevamo rendere la nostra banda di calciatori della domenica l’incarnazione dell’idea di un calcio auto-organizzato, che fosse in grado di cambiare la narrativa intorno a questo sport. E a un certo punto arrivammo veramente vicini a farlo per davvero.

Un amico ci disse che un ragazzo curdo, che aveva conosciuto a Calais durante un torneo organizzato nella “giungla”, il campo profughi sulle coste francesi, era riuscito ad attraversare la Manica e in qualche modo, era arrivato a Londra dove aveva raggiunto alcuni parenti e sperava di iniziare una nuova vita. In attesa del riconoscimento del suo status di rifugiato, necessario per poter iniziare a lavorare, avrebbe, come prima cosa, giocato a calcio. Non sapeva ancora con quali modalità, dato che non aveva contatti diretti nel mondo calcistico, ma l’avrebbe fatto. Quello sarebbe stato l’inizio del processo di ricostruzione della routine che era stata interrotta mesi prima, all’inizio della traversata che lo aveva portato dal Kurdistan iracheno ai sobborghi londinesi dove viveva. 

Cosa sognasse realmente Akar per il suo futuro non lo sapevamo. Così come eravamo all’oscuro delle ragioni profonde che lo avevano spinto con tanta determinazione nel Regno Unito. Il suo inglese era appena sufficiente per farsi capire, ma non era quello l’ostacolo principale. Akar non ci ha mai raccontato da cosa scappasse o in che modo lo avesse fatto perché noi non gliel’abbiamo mai chiesto. Probabilmente avevamo paura di attraversare la linea del privato, dando per scontato che una domanda del genere potesse mancare di sensibilità e riaprire cassetti della memoria che sarebbe stato meglio fossero rimasti chiusi.  

Il presente che Akar stava vivendo lo conoscevamo decisamente meglio. Sapevamo che era stato classificato come “Dublino” dall’amministrazione locale, cioè che non sarebbero state le autorità del paese di residenza a gestire la sua richiesta di asilo, bensì quelle del paese di primo approdo europeo, nel suo caso proprio l’Italia. Appena giunto nel Regno Unito era stato affidato a un centro a Woolwich Arsenal, nel mezzo del nulla post-industriale londinese con £20 settimanali a disposizione (una cifra irrisoria: l’abbonamento settimanale per i mezzi pubblici si acquista per una cifra superiore a £35) in attesa di essere trasferito coattivamente in Italia, dove qualche burocrate avrebbe deciso se la sua permanenza in suolo europeo fosse legittima o meno. Nel frattempo Akar non poteva avere alcun reddito e dunque neppure la possibilità di svincolarsi dal traballante sistema assistenzialista per cercarsi un alloggio indipendente. Doveva essere praticamente un inferno. 

Spesso capitava proprio a me di accompagnarlo la domenica mattina e durante i tragitti verso il campo avevamo modo di comunicare qualcosa. Erano discorsi molto semplici che mi permettevano di scoprire elementi del passato di Akar. Ricordo la mattina in cui decise di mostrarmi il suo profilo Instagram per scambiarci il contatto. Le foto della permanenza londinese si alternavano a quelle di amici e familiari diventati martiri nel conflitto; era sconvolgente come l’entusiasmo di un ragazzino si mescolasse al lutto in modo così naturale. La gioia individuale si intrecciava continuamente con il dramma di una comunità intera, segnata dai lutti che scandivano lo scorrere del tempo in modo quasi naturale. 

Akar giocava a pallone piuttosto bene, ma era abbastanza chiaro che si sentisse spaesato. In campo il mister lo impiegava a centrocampo, facendolo entrare nei minuti finali, perlopiù a risultato acquisito. Aveva un ottimo controllo di palla ed era dotato di un buon guizzo sul dribbling in uscita dalla marcatura. Si vedeva chiaramente che col pallone tra i piedi ci sapeva fare. Tuttavia non riusciva a essere parte della squadra: la mancanza di feeling con i compagni, anche a causa della barriera linguistica, lo rendeva totalmente un corpo estraneo. In campo si muoveva come se avesse fiducia solo nei propri mezzi, dando l’impressione di giocare per sé stesso e non per il gruppo. Voleva mettersi in mostra, non c’è dubbio, ma nel farlo otteneva l’effetto contrario: si isolava nelle sue doti tecniche, sufficienti a strappare elogi e riconoscimenti del suo talento, ma non abbastanza per regalargli un posto da titolare in squadra. I compagni vedevano nel suo individualismo un modo di essere egocentrico, mentre gli avversari reagivano con entrate dure e spesso scorrette in risposta al suo atteggiamento funambolico e irridente.

Dall’esterno dello spogliatoio avevamo la percezione che la sua presenza venisse tollerata dal resto del gruppo, che di fatto evitava di escluderlo apertamente soltanto per una sorta di riconoscimento nei confronti di noi dirigenti, che eravamo pur sempre coloro che permettevano loro di giocare ogni settimana a costo zero. Ero convinto che la loro ostilità  fosse motivata dalla disabitudine a interagire col “diverso” più che da un razzismo ideologico e consapevole. I nostri calciatori, infatti, erano in larghissima parte ragazzi neri, provenienti da famiglie tutt’altro che benestanti, che abitavano in council houses in quartieri popolari e affrontavano quotidianamente la discriminazione di chi viene considerato endemicamente figlio di un dio minore. I loro problemi erano principalmente economici,. Evitavano di interrogarsi sulla loro stessa intolleranza per semplicità; per loro la partitella della domenica era una delle poche valvole di sfogo dalla routine lavorativa e familiare, e preferivano che Akar fosse un problema di qualcun altro.

Questo velo di indifferenza in realtà omologava una sequenza di storie ed esperienze personali piuttosto dissimili tra loro e difficilmente accostabili. Per esempio, il mister, che ricopriva anche il ruolo di giocatore, era un ragazzotto inglese bianco di estrazione proletaria, che era riuscito a ottenere un lavoro da giornalista al Sun, tabloid di infima qualità e inesistente sensibilità politica. Arrogante e spocchioso, in campo non lesinava calci e calcetti volti a intimidire tanto gli avversari la domenica quanto i compagni in allenamento. 

Se Akar era isolato nello spogliatoio era colpa anche di persone come lui, che avrebbero dovuto tutelarlo o quantomeno avrebbero potuto favorirne l’inserimento in squadra se l’avessero voluto. Quanto fosse pesante questo isolamento non potevamo saperlo. Potevamo semmai intuirlo, interpretando i segnali che ci mandava: il segno sulla gamba frutto di un’entrata particolarmente dura non era un indizio di per sé, ma diventava una prova quando Akar ci mostrava sul suo smartphone la foto dell’allenatore, indicandolo come responsabile di quell’entrata. Quella accusa, infatti, non solo denunciava inequivocabilmente la malafede e l’intenzionalità del gesto,ma racchiudeva in sé una richiesta di tutela. 

Noi però eravamo di fatto corpi estranei al gruppo, e nonostante mettessimo a disposizione della squadra e dell’ideale in cui credevamo tutto il nostro tempo libero, il nostro impegno ed i nostri risparmi, non riuscivamo a farci rispettare dai ragazzi in campo, e quindi non riuscivamo ad avere nessun impatto sugli atteggiamenti della squadra. Di episodi come questo ne avremmo dovuti vedere tanti, avremmo dovuto accorgerci per tempo del trattamento riservato dal branco ad Akar. Invece non ci rendevamo conto della gravità della situazione e abbiamo lasciato che tutto questo avvenisse in modo abbastanza impunito. Lui continuava a giocare a pallone nonostante l’ambiente che aveva intorno. Da quanto trasparisse, Akar ci sembrava felice, immerso nelle questioni pratiche più che in quelle teoriche. La sola considerazione che la sua vita precedente era sicuramente peggiore di quella attuale non poteva valere come condizione autoassolvente; avremmo potuto e dovuto fare di più per rendere la sua permanenza migliore. Senza che ce ne accorgessimo stavamo contribuendo a dare ad Akar una realtà che, seppur molto migliore di quello che si era lasciato alle spalle, era probabilmente molto lontano dall’essere accettabile. 

La stagione andò avanti in questo modo senza che questo traballante equilibrio venisse definitivamente distrutto. Non era quello che avevamo desiderato, ma non avevamo gli strumenti per uscire da quella condizione. Una sera, però, lo scossone arrivò e fu particolarmente difficile da affrontare. 

Senza nessuna anticipazione, mi ritrovai su Facebook alcune frasi di Akar che ci comunicava i suoi ringraziamenti, ci diceva quanto fossimo stati importanti per lui e che quella sarebbe stata la sua ultima comunicazione: era il suo addio alle poche persone che lo avevano supportato in quei pochi mesi a Londra.

Non capimmo e non avremmo capito nemmeno nei giorni seguenti. Rimanemmo sbalorditi nella nostra impotenza e sconvolti da quella comunicazione ineluttabile. Il sentimento prevalente era ancora quello di sgomento per non aver capito, per non essere stati in controllo della situazione e probabilmente di non aver fatto abbastanza – qualunque cosa questa parola volesse dire. Poi c’era la preoccupazione derivante dal fatto che non avevamo idea di quale sorte sarebbe spettata a quel ragazzo. Quell’addio poteva implicare qualsiasi cosa: poteva aver deciso di andare altrove o di rimanere a Londra, sfuggendo ai controlli statali per vivere in clandestinità una vita più libera, oppure, peggio, poteva aver ricevuto la notizia di rifiuto alla sua richiesta di asilo, il che a sua volta poteva  avrebbe significato il rimpatrio forzato (in una zona di guerra) o la fuga.

Fu un vero e proprio pugno nello stomaco, ma decidemmo di non arrenderci. Giungemmo alla conclusione che l’opzione più plausibile fosse quella della deportazione, pertanto procedemmo a individuare quali potessero essere le strutture che avrebbero potuto accoglierlo. Scrivemmo una lettera che potesse rinfrancare Akar allegando una foto e alcune righe che gli comunicassero la nostra vicinanza: non era moltissimo, ma avrebbe aiutato. Mandammo una copia di questa lettera a ogni centro. Facemmo tutto su carta e non in formato elettronico perché credevamo fosse importante che il nostro amico potesse avere tra le mani le nostre parole in ogni momento.

Purtroppo, l’esito dell’operazione non fu quello sperato. Non ricevemmo nessuna risposta che ci potesse rassicurare sulle condizioni di Akar. Soltanto un paio di centri ci dissero che la lettera era stata un bel gesto, che li aveva in qualche modo commossi e che avrebbero fatto tutto quanto era nelle loro possibilità per aiutarci. Furono le uniche comunicazioni mai arrivate. 

In breve tempo la speranza diventò rassegnazione e poi disillusione; i “vabbè le possibilità erano poche già in partenza” prima sostituirono i “per caso ha risposto qualcuno?”, poi si spensero completamente. Non soltanto ci rassegnammo al fatto che di Akar non avremmo più avuto notizie ma ci accontentammo del fatto che già questa poteva essere un buon segno. Arrivammo a pensare che magari ce l’avesse fatta sul serio a scappare dalle autorità britanniche e al conseguente rimpatrio e che magari era riuscito per davvero a costruirsi una vita felice in qualsiasi posto. “Wherever you are, score a goal against every border” fu lo striscione che esponemmo al campo e con il quale chiudemmo mentalmente la questione, convinti che quella sarebbe stata veramente la parola fine. 

Questa volta non ci sbagliammo: di Akar non abbiamo più avuta alcuna notizia. Unica eccezione fu una “Story” su Instagram, che una nostra amica, unica di noi a non essere stata bloccata, fu in grado di vedere. In questa breve clip, Akar si mostrava sorridente e rideva e scherzava con le altre persone nel video; lo sfondo dietro di loro non forniva nessuna indicazione geografica, ma vederlo in una situazione “qualunque” fu comunque una buona notizia. Era quello che ci bastava per essere rassicurati che dovunque fosse, potesse essere quantomeno sereno. In un certo senso la frase dello striscione si era avverata. Akar sembrava veramente felice in un posto qualunque.

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