A breve saremo in distribuzione con il nuovo numero di «Zapruder», “Giù le maschere“, che si focalizza sulle decolonizzazioni (dei saperi, dei corpi, dei luoghi) quali antidoti contro le scorie del colonialismo, che continuano a generare i mostri del razzismo contemporaneo.
Per anticipare l’uscita vi proponiamo una lettura di come nel 1966, trentesimo anniversario della proclamazione dell’impero, le principali riviste illustrate per tiratura e distribuzione – «Epoca», «Domenica del Corriere» e «Vie Nuove» – “celebrarono” il passato coloniale italiano.
A trent’anni dall’impero
di Teresa Colliva
Negli ultimi dieci anni la storiografia che si è occupata di colonialismo italiano e della sua fine ha affermato con forza che la cultura coloniale non è scomparsa con il progressivo ritiro degli italiani dall’Africa orientale italiana (Aoi) e dalla Libia (Baratieri 2010; Deplano e Pes 2014; Morone 2018). Al contrario, essa ha continuato a lasciare tracce visibili sia nei coloni che nei colonizzati: il discorso fascista e coloniale è passato nel dopoguerra con delle variazioni rispetto al periodo liberale e al ventennio, rimanendo comunque fedele alla sua matrice.
I prodotti ascrivibili alla cultura di massa sono tra le fonti più ricche da interrogare per rintracciare questi sedimenti, in particolare per quanto riguarda il discorso pubblico sulle ex colonie italiane: determinati segmenti della produzione culturale (e settori della società) mantengono viva la narrazione dell’“impresa africana” attraverso particolari strategie discorsive che rivelano la mancata decolonizzazione e defascistizzazione della nazione a partire dal secondo dopoguerra. Mentre la politica italiana tenta affannosamente di riottenere le colonie, stampa settimanale, cinegiornali e cinema sono i media che più di altri danno spazio a retrospettive e celebrazioni del passato coloniale, contribuendo a plasmare una memoria selettiva in grado di legittimare il progetto politico che si sta strutturando (Zinni 2016, pp. 75-76).
In queste pagine l’attenzione viene posta al decennio che si inaugura con il 1960, anno diventato simbolo delle indipendenze africane e secondo termine di una periodizzazione che lo indica come conclusione della “lunga transizione” dell’Italia in Africa, verificatesi con l’indipendenza della Somalia il 1° luglio 1960, dopo dieci anni di amministrazione fiduciaria (Morone 2016, p. 3). Da un punto di vista prettamente amministrativo e giuridico, il decennio che inizia nel 1960 è quindi il primo in cui l’Italia non ha più colonie o terre da amministrare nel continente africano.
Il 1966, a trent’anni dalla proclamazione dell’impero, è un anno particolarmente significativo: se da un lato Gillo Pontecorvo esce al cinema con La battaglia di Algeri e a Dakar viene inaugurato il primo Festival mondial des arts nègres, nello stesso periodo Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi scandalizzano mezza Europa con Africa addio e alcuni settimanali illustrati propongono in grande formato le fotografie gloriose dei soldati italiani che si spostano sul suolo etiope, descrivono in dettaglio le battaglie e trascrivono integralmente il testo di canzoni fasciste come Adua e Faccetta nera. Mentre numerosi stati africani sono attraversati dalle lotte di liberazione e alcuni segmenti delle società occidentali maturano atteggiamenti di solidarietà politica nei confronti dei paesi di quello che in quegli anni veniva identificato come terzo mondo, i settimanali illustrati rivelano come il racconto dell’esperienza coloniale italiana sia ancora intriso di nostalgia dei territori e del prestigio perduti e insista nel minimizzare o nascondere le violenze perpetrate dall’esercito in colonia. Si vedrà come solamente la retrospettiva di «Vie Nuove» presenti una diversa narrazione della guerra coloniale e dell’Etiopia contemporanea.
I tre servizi individuati sono emersi dalla consultazione delle principali riviste illustrate del periodo, selezionate per numeri di tiratura e distribuzione, concentrando l’attenzione sui titoli più popolari.
L’8 maggio 1966 – a quasi trent’anni esatti dal discorso in cui Mussolini proclama la nascita dell’impero – su «Epoca» viene pubblicato Abissinia. L’avventura di trent’anni fa, descritto come «Un grande documentario. 24 pagine da staccare». Fondata da Alberto Mondadori nel 1950, «Epoca» è l’ultimo rotocalco del dopoguerra a comparire sul mercato. Abissinia rientra completamente nell’obiettivo che il settimanale si era dato a partire dagli anni sessanta, e cioè quello di «stimolare gli interessi culturali del proprio pubblico, offrendogli una serie di elaborati dotati di una loro compiutezza tematica, di dignità scientifica e di un ricco apparato fotografico» (Pizzetti 1982, p. 51). Uno degli aspetti che emerge preponderante è l’interesse nei confronti dei conflitti, dove la guerra è vista solamente come scontro di eserciti e strategie (p. 57).
Abissinia ha infatti un taglio principalmente eroico/militare: le fotografie e i disegni rappresentano soldati, generali e azioni delle truppe in battaglia. Il testo iniziale illustra ai lettori gli “obiettivi” del servizio: ricordare la guerra d’Etiopia a trent’anni di distanza non è una «anacronistica manifestazione di nostalgia: è innanzitutto un omaggio ai sacrifici compiuti dai soldati di trent’anni fa»1.
In parallelo al tema del ricordo e dell’omaggio all’esercito, Abissinia non si sottrae al mito degli “italiani brava gente”, sottolineando come il comportamento dell’Italia in colonia fosse stato molto diverso da quello di altre potenze europee. Peculiare rispetto ad altre retrospettive è la presenza di tre discorsi che Mussolini tenne alla nazione: quello del 2 ottobre 1935 nel quale annunciò la guerra in Etiopia, del 5 maggio 1936 per comunicare l’entrata vittoriosa ad Addis Abeba, e del 9 maggio per proclamare la nascita dell’impero. Abissinia insiste quindi notevolmente sulla figura di Mussolini: l’esperienza coloniale non viene separata dal fascismo, che al contrario ne consacra in patria le battaglie e le imprese vittoriose attraverso le arringhe del dittatore. Il servizio risulta essere una piatta retrospettiva piena di silenzi e corredata da fotografie a grande formato che omaggiano lo sforzo e il valore italiano, in conformità con quanto annunciato nella dichiarazione di intenti iniziale.
Dal 9 gennaio al 17 aprile escono sulla «Domenica del Corriere» le sedici puntate di Faccetta nera: i grandi servizi della Domenica del Corriere. Ultimo rappresentante dei rotocalchi a figure di fine Ottocento, la «Domenica del Corriere» è il periodico popolare per eccellenza, politicamente conservatore e tradizionalista (pp. 29-30). Scritta da Franco Bandini, con le fotografie di Giuseppe Colombo e le tavole illustrate di Achille Beltrame, la retrospettiva presenta un imponente apparato testuale; il giornalista è interessato alla contestualizzazione storica e, oltre al semplice elenco delle battaglie, fornisce interpretazioni e riletture degli eventi, che spesso rivelano tecniche narrative già viste in servizi di anni precedenti: conflitto in Etiopia come guerra a carattere difensivo, insistenza sulla brutalità dell’esercito etiope, minimizzazione degli effetti causati dall’impiego dei gas.
Dopo pagine dense di descrizioni di battaglie, si arriva a uno dei numeri più interessanti del servizio, I gas e i massacri, in cui viene affrontata la questione degli aggressivi chimici che in quegli anni stava cominciando ad essere discussa pubblicamente. Bandini, infatti, scrive che «È un fantasma del quale si parla in modo incerto e pauroso, e che ammorba al di là del lecito l’atmosfera», dal momento che alcuni sostengono che l’esito della guerra dipese addirittura «da una sterminata coltre di gas stesa davanti alle nostre posizioni». Questa è la tesi di «storici progressisti», scrive, mentre quella dei «tenaci fedeli del fascismo» nega completamente l’utilizzo dei gas2.Il giornalista si dichiara sorpreso da questa discrepanza e non nasconde la sua posizione fortemente scettica e riduzionista, senza però farlo trapelare in modo esplicito. Conclude il servizio ammettendo che i gas vennero utilizzati pochissimo e con effetti minimi, sottolineando molto di più la stupidità politica che portò alla decisione riguardo il loro utilizzo: sembra suggerire che non fu tanto riprovevole aver bombardato gli etiopi con essi, quanto non aver difeso a livello internazionale il loro limitato utilizzo, oppure non essere riusciti a nascondere sufficientemente le prove del loro impiego. Anche se non ricevettero lo stesso spazio dei gas, Faccetta nera accenna anche ai massacri compiuti da Graziani. A differenza del servizio di «Epoca», qui vengono menzionate la resistenza etiopica, l’uccisione dell’abuna Petros, l’emigrazione forzata imposta alle popolazioni libiche del Gebel e la strage nel convento di Debre Libanos.
Nelle ultime puntate viene pubblicata una selezione delle centinaia di lettere ricevute dal pubblico della rivista, introdotte «che tra l’altro avallano quanto da noi detto nel nostro servizio. I gas furono raramente usati e con effetti assolutamente trascurabili»3. Ancora una volta il loro utilizzo non viene mai completamente negato, ma se ne svalutano gli effetti. Viene inoltre giustificato in svariati modi: da tattica di guerra per limitare le tempistiche e le morti italiane, a barbarie concessa contro un nemico capace di indescrivibili atrocità nei modi di combattimento. E così Angelo Diversi da Imperia scrive che i gas vennero usati per stanare gli etiopi come si fa con il polpo:
quando abbocca e va ad intanarsi, non rimane che ricorrere per esperienza al sacchettino di stoffa contenete qualche pezzetto di solfato di rame, e posto di fronte alla sua tana. Appena sprigiona la nuvoletta biancastra sul fondo, il polpo esce, ma il colpo di fiocina lo arresta. Similmente per stanare gli armati del Negus dalle gole dell’Amba Aradam; cosa dovevamo fare? Perdere la battaglia decisiva? Quindi la iprite, caso mai, fu limitata per quella situazione. Talvolta non è forse “il fin che giustifica i mezzi”?4.
L’ultimo servizio preso in esame esce su «Vie Nuove» in tre puntate, il 7, 14 e 28 aprile 1966, con il titolo Nascita e morte dell’Impero. L’Etiopia trent’anni dopo. Essendo un periodico di partito, è animato da obiettivi molto diversi dai due settimanali considerati in precedenza, anche se non si discosta completamente da alcune modalità comunicative e di linguaggio tipiche della stampa illustrata. Come scrive Stephen Gundle, la rivista, fondata nel 1946 da Luigi Longo, doveva «orientare ed educare» i lettori, veicolando in modo semplificato i messaggi che il Pci voleva comunicare (Gundle 1991, p. 235). Il periodico era totalmente diverso da «l’Unità» o «Rinascita», era più “l’amico della domenica”, «un settimanale sempre più popolare, ossia sempre più capace di rispecchiare la mentalità dei lettori e la loro aspettativa» (p. 238).
Nella prima puntata, Parlano i luoghi e i testimoni5, Franco Prattico (testo) e Guido Cosulich (foto) raccontano del loro viaggio dall’Asmara ad Addis Abeba, sulle tracce degli uomini e dei luoghi del conflitto di trent’anni prima. Anche se la retorica militare ed eroica è assente, si parla del viaggio più come una avventura epica che come una ricerca storica, adottando lo stile tipico del giornalismo di quegli anni, spesso romanzato e ricco di enfasi. Persiste anche l’atteggiamento secondo il quale l’Africa, nonostante gli sforzi, rimanga qualcosa di inconoscibile, allettante e ingannevole come un miraggio. Nonostante la continuità di immaginari di questo tipo, è forte la rottura con gli altri servizi: lo mostra in particolare l’apparato fotografico, che ritrae per la maggior parte la popolazione etiope e la vita delle città e dei villaggi. Differenziandosi dalle precedenti retrospettive, in queste pagine emerge chiaramente come l’Etiopia liberata non sia vuota, priva di senso e di futuro. Un ulteriore elemento di discontinuità si ritrova nel tono con cui vengono descritte le violenze italiane; Prattico scrive di terrorismo aereo, bombe incendiarie, mitragliamenti di tukul, gas asfissianti e iprite, condannando senza riserve l’utilizzo dei gas: «La guerra coloniale ha la sua logica; che è quella dello sterminio»6.
Le osservazioni più interessanti sono quelle che riguardano la resistenza etiopica, inserite nel servizio attraverso le parole di un giovane intellettuale del quale non fanno il nome:
La risposta del popolo etiopico, la guerriglia partigiana che tormentò tutto il periodo dell’occupazione italiana, aveva in sé i caratteri della lotta antifascista, la stessa che si combatté poi in Spagna ed in Europa. Non a caso nel ’39 accorsero da noi molti antifascisti che avevano fatto l’esperienza di Spagna. Vi erano anche dei comunisti italiani come Spano e Barontini, che svolsero opera di chiarificazione presso le truppe di occupazione. Antifascismo vuol dire anche anticolonialismo; e vuol dire ansia di rinnovamento del paese, nella libertà e nell’eguaglianza7.
Nonostante alcune somiglianze che «Vie Nuove» poteva condividere con altri settimanali, il parallelismo tra antifascismo e anticolonialismo introduce al pubblico dei lettori un orizzonte politico e di lotta che poteva essere formulato solamente dal periodico del Pci.
Con la prima puntata si è esaurita la rievocazione della conquista e della resistenza; in Italia addio, la seconda puntata, è descritto invece il presente dell’Etiopia: come vivono e cosa fanno gli italiani rimasti nel Continente, che tipo di comunità hanno costruito e come si rapportano alle popolazioni locali. Viene sottolineato più volte come gli etiopi abbiano perdonato tutti i crimini agli italiani, e come questo atteggiamento pacifico avesse gettato le basi per una serena convivenza. L’ultima, L’Africa è il suo destino, è incentrata sul presente e sul futuro dell’Etiopia, descritta come una terra multiforme e contraddittoria, ma «cementata da una sostanziale unità ideale e di costume, almeno nei tratti essenziali».
Prattico termina il servizio con una forte critica agli Usa, commentando la presenza statunitense in Etiopia come una «subdola forma di penetrazione» che stride con il processo in corso di unificazione africana8.
Note
1. Colombo, E., Abissinia. L’avventura di trent’anni fa, «Epoca», n. 815, 8 maggio 1966. (torna su)
2. Bandini, F., I gas e i massacri, in Faccetta nera: i grandi servizi della Domenica del Corriere, «Domenica del Corriere», n. 10, 1966. (torna su)
3. Bandini, F., I testimoni sui gas – La parola ai lettori, in Faccetta nera: i grandi servizi della Domenica del Corriere, «Domenica del Corriere», n. 16, 1966. (torna su)
4. Ivi. (torna su)
5. Prattico, F., Parlano i luoghi e i testimoni, in Nascita e morte dell’Impero. L’Etiopia trent’anni dopo, «Vie Nuove», n. 14, 1966. (torna su)
6. Ibidem. (torna su)
7. Ivi. (torna su)
8. Prattico, F., L’Africa è il suo destino, in Nascita e morte dell’Impero. L’Etiopia trent’anni dopo, «Vie Nuove», n. 17, 1966. (torna su)
Bibliografia
Baratieri, D.
(2010) Memories and silences haunted by fascism. Italian colonialism 1930-1960, Peter Lang, Bern.
Deplano, V. e Pes, A. (a cura di)
(2014) Quel che resta dell’impero. La cultura coloniale degli italiani, Mimesis, Milano-Udine.
Gundle, S.
(1991) Cultura di massa e modernizzazione: Vie nuove e Famiglia Cristiana dalla guerra fredda alla società dei consumi, in Nemici per la pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, a cura di P. P. D’Attore, FrancoAngeli, Milano, pp. 235-268.
Morone, A. M.
(2016) La fine del colonialismo italiano tra storia e memoria, «Storicamente», n. 12.
Morone, A. M. (a cura di)
(2018) La fine del colonialismo italiano. Politica, società e memorie, Le Monnier, Firenze.
Pizzetti, S.
(1982) I rotocalchi e la storia. La divulgazione storica nei periodici illustrati (1950-1975), Bulzoni, Roma.
Zinni, M.
(2016) Una lettera dall’Africa. il colonialismo italiano nel cinema del dopoguerra, 1945-1960, «Contemporanea», n. 1, pp. 69-99.