A breve saremo in distribuzione con il nuovo numero di «Zapruder» (il 62esimo): “Aftershock. Politiche della crisi nel lungo Novecento”.
Per avvicinarci al tema, i curatori – Bruno Settis e Roberto Ventresca – hanno fatto una chiacchierata con Francesco Saverio Leopardi e Massimiliano Trentin, docenti di storia internazionale.
Li abbiamo scelti perchè i loro interessi di ricerca riguardano soprattutto le relazioni politiche ed economiche dei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Nell’intervista è stato sviluppato un dialogo intorno a un progetto di ricerca al quale hanno lavorato negli ultimi anni e che ricostruisce la storia delle crisi del debito estero emerse nella regione a partire dagli anni ottanta del Novecento.
Austeri a modo nostro. Lo shock del debito nei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa
Francesco Saverio Leopardi e Massimiliano Trentin (a cura di Bruno Settis e Roberto Ventresca)
Potreste descriverci gli elementi costitutivi del vostro programma di ricerca sul debito negli anni ottanta nei paesi del Mena (Middle East and North Africa)? Su quali studi di caso avete focalizzato la vostra attenzione?
[Massimiliano Trentin, MT] Il progetto nasce da una riflessione sullo stato dell’arte della storiografia internazionale dedicata al tema del debito estero e, di conseguenza, muove dalla percezione della carenza di studi adeguati – almeno fino a pochi anni fa – sulle cosiddette crisi del debito registratesi durante la guerra fredda. Ci interessava dunque capire se e in che misura le crisi del debito degli anni ottanta, anche a partire dal caso forse più noto nella storiografia, e cioè quello latinoamericano (studiato, tra gli altri, da Duccio Basosi), avesse influito o meno sulle capacità di attrazione del campo occidentale rispetto a quello mediorientale. Ci interessava dunque capire in che modo e secondo quali pratiche le crisi del debito fossero state affiancate dalle note condizionalità (riforme economiche, austerità, tagli alla spesa pubblica) anche nel caso dei paesi debitori della regione del Mena.
Sono aspetti spesso non affrontati o dati per assodati dalla storiografia, che sovente dà per acquisita la linearità della catena crisi del debito-riforme-ristrutturazione del debito a livello internazionale. Il progetto nasce dunque, da un lato, da una riflessione intorno alla storiografia sulla guerra fredda; dall’altro, esso prende avvio dalla messa in discussione della linearità del nesso crisi del debito-riforme economiche-ristrutturazione nella storia internazionale degli anni ottanta e novanta.
L’attenzione alle vicende del debito internazionale nacque innanzitutto in relazione al caso latinoamericano, che si pensava rappresentasse l’archetipo della gestione internazionale della crisi del debito da parte dei soggetti creditori. Come a dire: ciò che succede lì lo si deve ritrovare anche in altri contesti. Di qui io e altri colleghi – Duccio Basosi alla Ca’ Foscari di Venezia e Mauro Campus all’università di Firenze – abbiamo elaborato un progetto di ricerca che, in seguito, ha preso forma nel quadro di un Prin (Progetto di ricerca di interesse nazionale) intitolato The Making of the Washington Consensus: International Assets, Debts and Power (1979-1991) e finanziato dal Miur nel triennio 2017-2020. Ogni unità di ricerca del nostro Prin ha analizzato un aspetto specifico del tema. Qui a Bologna ci si è concentrati sul ruolo dei debitori e, in particolare, date le competenze dei membri del gruppo (vale a dire io e Saverio Leopardi), sui paesi del Medio Oriente e del nord Africa.
Dal nostro punto di vista quella linearità crisi-ristrutturazione-riforme non era mai stata davvero analizzata e messa in dubbio, tanto dai detrattori quanto dai sostenitori delle cosiddette riforme strutturali. E si trattava inoltre di temi poco analizzati dal punto di vista delle implicazioni politiche che tali fenomeni hanno effettivamente generato sul piano internazionale. Questa nostra riflessione è poi andata di pari passo con lo studio delle altre aree che il progetto ha preso in esame, e cioè quella dei paesi dell’Europa orientale, quella dell’America Latina e, almeno nelle nostre intenzioni iniziali (che poi non si sono potute realizzare per via della mancanza di risorse), quella dell’Africa subsahariana.
[Francesco Saverio Leopardi, FSL] Il progetto ha analizzato dei casi che risultano interessanti proprio per la loro non linearità. Il progetto ha poi preso in considerazione la capacità dei paesi debitori, in teoria più deboli, di influenzare il processo di gestione del debito e di influenzarlo direttamente. Il progetto ha perciò voluto guardare a processi globali, come il cosiddetto neoliberismo, senza assumerli come fenomeni lineari o determinati dalle sole strategie dei creditori, ma cercando di comprendere in che misura i singoli paesi e le singole regioni vi abbiano partecipato attivamente, nonostante la loro posizione inizialmente più “debole”. Di qui la scelta di alcuni paesi, il cui ruolo politico e le cui capacità di negoziazione emergono chiaramente e, soprattutto, emergono come dato politico, così superando anche il cliché secondo il quale la storia del debito internazionale andrebbe letta come un tema puramente tecnico o tecnocratico.
Ad esempio io mi sono occupato dell’Algeria, che è un caso interessante da molti punti di vista. Lo è in quanto si tratta di un paese produttore di petrolio che, al contempo, diversamente da ciò che avveniva nelle monarchie del golfo, si fondava su di una legittimità anticoloniale, nazionalista e teoricamente progressista. Un altro caso interessante è quello della Siria, che ha gestito il debito estero in maniera particolare, e cioè “spacchettando” le varie fonti del proprio credito proprio per avere capacità di leva verso un numero più ampio – dunque diversificato e potenzialmente meglio gestibile – di creditori. Si pensi inoltre all’Iraq, dove l’atteggiamento tenuto dai creditori, in parallelo agli eventi che riguardarono da vicino il paese fin dai primi anni ottanta (guerra Iran-Iraq, 1980-1988; prima e seconda guerra del Golfo nel 1990-1991 e nel 2003), ha contribuito a determinare la solvibilità o la crisi del regime di credito iracheno, mettendo in luce come i fattori politici interni determinino le condizioni del debito e la sua possibile soluzione.
Qui emerge un altro punto a mio avviso interessante: la capacità di attori ritenuti in teoria “subalterni” di influenzare tale processo sulla base delle proprie priorità nazionali. In questo senso, il caso algerino è abbastanza esemplare. In Algeria ci fu una guerra civile e il regime algerino riuscì comunque a gestire le preoccupazioni dei creditori per le sorti di un paese che risultava importante dal punto di vista energetico e che, inoltre, alimentava le nuove paure di Europa e Usa in merito ai temi del terrorismo e della sicurezza interna. Il regime riuscì sia a legittimarsi agli occhi dei creditori internazionali, sia a ottenere quel sostegno economico che ha consentito allo stesso regime algerino di sopravvivere: un regime neopatrimoniale, dove le élite governano sulla base della rendita generata dagli idrocarburi. E dunque tale élite da un lato accetta alcune delle riforme richieste dai creditori, ma dall’altro si attiva per rallentarne alcune o per evitarle, riuscendo ad esempio a mantenere il controllo statale sui settori strategici dell’economia del paese e dunque a rinnovare questo sistema di potere basato sulla gestione della rendita petrolifera. Ciò ci consente di scardinare la narrazione secondo la quale il neoliberismo impatta come un elemento “alieno” sulla regione e finisce per imporsi su attori ritenuti passivi, mentre invece si tratta di attori che integrano la globalizzazione neoliberista secondo le loro prerogative, in primis per assicurare la sopravvivenza dei propri regimi di potere. Ciò avviene anche in Siria, anche se ovviamente i risultati sono diversi da paese a paese.
Infine, il nostro progetto penso rimetta in discussione alcune cronologie. Certo, esso nasce da una riflessione sulla guerra fredda, ma per esempio ridimensiona una serie di passaggi storiografici che spesso si ritengono fondamentali in termini universali. Faccio un esempio, sempre riferito all’Algeria: in questo contesto il tornante 1989-1991 è sì importante, ma fino a un certo punto, in quanto l’Algeria riesce subito a dialogare facilmente con un campo, quello occidentale, che fino a quel momento si trovava apparentemente “dall’altra parte” del suo scacchiere diplomatico di riferimento. L’élite di stato algerina non ha problemi a ricalibrare le proprie strategie e a integrare la “neoliberalizzazione” post-1989 muovendosi al di là dei propri storici paradigmi diplomatici. Ciò insomma ci porta anche a ridimensionare per certi versi la centralità assoluta del 1989-1991 e a sviluppare una visione meno eurocentrica della stessa guerra fredda.
Su quali fonti avete lavorato e quali “voci” sono dunque emerse dai vostri lavori?
[MT] Siamo partiti innanzitutto da un’ampia rassegna storiografica, senza dimenticare la letteratura di natura politologica o prettamente economica (anche perché, come detto, la storiografia su questi temi scarseggiava). Poi abbiamo sviluppato un’analisi dei database (dati statistici, economici, bollettini) prodotti da istituzioni nazionali (penso ai database della Banca centrale giordana o di quella egiziana) o internazionali. Dobbiamo sempre ricordare che parliamo di un’area nella quale l’accesso alle fonti archivistiche statuali è estremamente difficile, “eccezionale”, contingente. Inoltre abbiamo preso in considerazione fonti regionali e internazionali: nei paesi Mena – specie in ambito mediorientale – vi sono molte istituzioni di coordinamento economico, legate all’Onu, che pubblicano documenti, delibere, risoluzioni, report, dati statistici estremamente significativi. Abbiamo poi fatto uso di memorialistica, o, come nel caso della Giordania e dell’Egitto, di interviste ad alcuni protagonisti nazionali dei negoziati sul debito. Queste fonti, per esempio, sono poi state confrontate con la documentazione che gli attori esteri (creditori) hanno prodotto su quegli stessi negoziati: molto interessante è stata la ricostruzione del rapporto tra la Siria e la Francia, proprio al fine di ricostruire la relazione debitore-creditore e per capire le ragioni dell’affermazione, in molti casi, del punto di vista dei debitori.
Nella regione emerge un dato precipuo: i debiti esteri erano considerati come un tema da trattare innanzitutto in termini politici. Si assiste dunque al primato della politica rispetto a quello della mera ragione tecnica, finanziaria o più globalmente economica. A parte qualche caso, come quello del Marocco, negli altri casi che abbiamo analizzato – chi più, chi meno, e sempre con tempistiche differenti – i debitori riuscirono a imporre ai creditori il primato della politica. Ciò rende caratterizzante la crisi del debito nella regione. Infatti, sebbene i dati macroeconomici di paesi come Siria, Algeria o Iraq mostrassero condizioni debitorie peggiori di quelle registrate nell’America Latina, i paesi del Mena non imboccarono il percorso “standard” seguito da quelli sudamericani: perché? Soprattutto perché nel Mena i creditori non erano prevalentemente privati, come nel caso dell’America latina; non erano nemmeno appartenenti a organizzazioni internazionali, come nel caso dell’Africa subsahariana; non erano paesi occidentali, come nel caso dei paesi socialisti. I loro creditori erano anzitutto i paesi arabi. Quindi si trattava di creditori pubblici e regionali, le cui strategie rispondevano perciò a logiche di circolarità delle risorse “interne” e di politica squisitamente regionale. Ciò spiega sia le ragioni che spinsero questi paesi a contrarre i loro debiti, sia le modalità attraverso cui tali debiti perché vennero rinegoziati o ristrutturati.
Questo dato è importante perché ci consente di ragionare su cronologie differenti rispetto ad altri contesti internazionali: se l’America latina entra in crisi nei primi anni ottanta (1982), nella crisi del debito dei paesi Mena il momento dirimente è il 1986, e cioè il contro-shock petrolifero. Vi fu il crollo dei prezzi del petrolio, dopo la quale i creditori continuarono a offrire risorse, anche se con modalità diverse e con minore regolarità. In questa fase sembrò riproporsi, almeno temporaneamente, la modalità standard di gestione del debito (intervento del Fondo monetario internazionale, riforme, ristrutturazione, ecc.), finché non scoppiò la prima guerra del Golfo. Dopo questo evento, tutti vollero rinegoziare i debiti. Ma su quali basi? Su basi squisitamente politiche. Dunque i nostri risultati – ma anche le nostre premesse iniziali – si inseriscono nel filone della storia politica del debito pubblico, tanto interno quanto estero. Vi è un altro passaggio interessante in termini di rielaborazione della storiografia e delle cronologie: la decostruzione, già richiamata, della linearità tra crisi del debito-ristrutturazione-riforme. La regione del Mena ci dice altro: laddove i paesi si trovarono alle strette in termini finanziari, essi adottarono immediatamente – su suggerimento, pressione estera o autonomamente – quelle riforme (taglio alla spesa pubblica, diminuzione delle importazioni) che avrebbero dovuto rimettere in sesto l’economia nazionale e la bilancia dei pagamenti. Ma da qui ad adottare quelle riforme economico-istituzionali suggerite dalle pressioni internazionali ci sono voluti in media dieci anni. In linea generale, si può dire che gli anni ottanta sono quelli in cui scoppia la crisi; i novanta sono quelli dell’austerità; le riforme non iniziano prima degli anni 2000. Questo pone il caso dei paesi Mena su una scala cronologica diversa da altri casi nazionali o regionali: bisogna ancora capire come questi paesi cominciarono a pensare al modo in cui tradurre in forme “autoctone” quelle riforme neoliberali che abbiamo visto affermarsi in maniera violenta, per esempio, nei paesi ex socialisti. Insomma: la regione si ritagliò, sulla base delle proprie specificità, dieci anni in più rispetto ad altri casi regionali. Spesso la letteratura legge questa dilazione dell’introduzione delle riforme neoliberali come il “decennio perduto” dei paesi del Mena, nella convinzione che tali riforme si dovessero coniugare necessariamente con l’introduzione di nuovi elementi di democratizzazione, di apertura economica, ecc. I paesi Mena non hanno perso il “treno della globalizzazione”, come spesso si dice, ma hanno guadagnato del tempo per tradurre in parole proprie quelle riforme e per inserire i propri uomini nei posti chiave delle nuove istituzioni chiamate a governare i processi economici dei paesi della regione. Di qui l’interesse storiografico per una nuova prospettiva, ancora tutta da esplorare, che riesca a operare una triangolazione tra Europa occidentale, Europa orientale, paesi del Mena al fine di problematizzare in maniera ancor più approfondita la storia della stessa Europa e del Mediterraneo.
Come ultima domanda, un breve passo indietro: quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario dal primo shock petrolifero, quello del 1973. Che ruolo ha svolto il 1973 nelle vostre ricerche? È forse una categoria – quella di shock – che, se riferita al 1973, acquista senso soprattutto se guardata con gli occhi di chi viveva in occidente? Infine: in che misura a vostro avviso la categoria di shock mantiene una sua validità euristica alla luce delle vostre ricerche e delle vostre riflessioni storiografiche, che certamente hanno messo in luce quanto plurali e multiformi siano gli shock di cui abbiamo discusso?
[FSL] È vero che spesso quando si parla di shock lo si fa in quanto si adotta una prospettiva specifica. Il 1973 è importante per le relazioni economiche internazionali, ma anche, come noto, per la questione palestinese. In entrambi i casi il 1973, se visto dal Mena, è, più che una frattura, un passaggio che accelera dei trend già in essere. E questo è vero anche nel caso della storia palestinese: il 1973 evidenzia un’accelerazione della fine della fase rivoluzionaria e l’apertura a una ipotesi diplomatica, anche per via della grande disponibilità di risorse che i paesi arabi mettono a disposizione dell’Olp. Il 1973 fa aumentare i fondi e risorse nella e per la regione, anche se la quantità di petrodollari che viene reinvestita nella regione rimane per certi versi marginale, se confrontata con quella che vengono inseriti nei circuiti bancari occidentali, specie statunitensi. Sono d’accordo sul fatto che il 1973 sia uno shock soprattutto dal punto di vista europeo o occidentale, in quanto costituisce uno dei primi momenti nei quali paesi ex o postcoloniali riescono a ribaltare i rapporti di potere internazionali, anche se poi i rapporti tra Europa e Medio Oriente vengono ristabiliti quasi subito, nonostante alcune specificità relative alle singole strategie perseguite da paesi della Comunità economica europea.
[MT] Di certo il 1973 non nasce dal nulla, anche in termini politico-finanziari: come detto, esso accelera dei trend già in atto. Nei paesi del Mena non c’è 1973 senza le precedenti nazionalizzazioni, che iniziano intorno alla metà degli anni sessanta e che si spingono fino al 1972. Il 1973 è comunque importante per ovvie ragioni e può andar bene anche il termine shock, anche perché appunto a partire dal 1973 ci fu una disponibilità di risorse fin lì inimmaginabile. La pubblicistica araba, talvolta, arrivare a utilizzare il termine di “rivoluzione”. Quello che, in termini di risorse o di flussi finanziari, rimase all’interno della regione dopo l’aumento dei prezzi del petrolio seguito allo shock del 1973 diede comunque impulso a un processo di sviluppo di quelle condizioni materiali che, a loro volta, crearono le premesse affinché in seguito (anni ottanta e novanta) la politica e i suoi rappresentanti potessero vantare spazi di manovra maggiori nella gestione della crisi del debito.