Si è appena conclusa a Kassel, in Germania, documenta 15, uno degli appuntamenti più importanti per l’arte contemporanea. Diretta dal collettivo indonesiano ruangrupa, la mostra ne ha veicolato la pratica politica, costruita intorno a parole chiave come “ancoraggio locale“, “umorismo“, “generosità“, “indipendenza“, “trasparenza“, “sufficienza” e “rigenerazione“.
Mai come quest’anno la mostra è stata il teatro di uno scontro politico durissimo, dove il passato e il presente sono entrati in urto facendo apparire la profondità delle ferite lasciate da colonialismo, capitalismo e patriarcato.
In questo articolo Valentina Lapolla ci offre una presentazione della mostra ma anche una ricostruzione di rara chiarezza dei dibattitti che l’hanno accompagnata, in Germania e nel mondo intero.
Attacco a Kassel
In mostra le ferite di colonialismo, capitalismo e patriarcato
di Valentina Lapolla
Documenta è una delle manifestazioni più importanti nell’arte contemporanea: si svolge ogni cinque anni a Kassel, Germania, e dura 100 giorni.
L’edizione di quest’anno, la quindicesima, è stata un’edizione eccezionale, sotto molti punti di vista. Questioni artistiche, estetiche, storiche, politiche si sono intrecciate in un modo inatteso, aprendo molte linee di riflessione.
Per semplificare si può dire che esistono due piani in cui queste diverse spinte si sono manifestate e scontrate. Il primo ha a che fare con il modo di intendere l’arte, e di come un modo diverso di praticarla sia capace di creare nuovi spazi di senso al di là del modello competitivo e capitalista del sistema dell’arte dominante. Nell’altro invece si vede come l’arte possa diventare un campo di battaglia di una politica strumentale e semplificatrice, dove la complessità lascia il posto a censura e discriminazione e in cui qualunque dialogo è destinato al fallimento.
Documenta nasce nel 1955 in una Kassel ancora in macerie (era, ed è tuttora, centro di produzione di armi). La piccola città viene scelta per la sua strategica vicinanza al confine con la Germania Est, uno strumento geopolitico per promuovere arte e ideali del blocco occidendale, come ben raccontato nella recentissima mostra Documenta: Politics and Art del Deutsches Historisches Museum di Berlino [1]. Quest’ultima ha inoltre rivelato storie finora poco note che dimostrano la presenza importante nelle prime edizioni di documenta di ex nazisti in posizioni di rilievo1.
La direzione artistica di documenta 15 è stata del collettivo indonesiano ruangrupa: per la prima volta un collettivo, per giunta non europeo, nella grande istituzione tedesca. Il collettivo si è formato nei primi anni duemila nell’Indonesia della fine del regime di Suharto: da anni sperimenta una modalità di lavoro basata sulla messa in comune di risorse, e di creazione di ecosistemi, intesi come reti di persone che lavorano insieme legati da cicli interdipendenti di energia e risorse. Il lumbung, deposito di riso usato in Indonesia per conservare l’eccesso di riso da condividere con la comunità, è il modello operativo usato dal gruppo da molti anni.
Chiamato a curare documenta 15 il collettivo accetta a patto che sia documenta a diventare parte del loro ekosistem e non viceversa: nessuna voglia di smettere di fare quello che stanno facendo e di farsi dettare l’agenda da un’istituzione europea. Una documenta-lumbung quindi, dove poter allargare la rete di collettivi di collettivi, imparare e condividere pratiche e idee. Come per il lumbung, tutto ruota intorno al sostentamento e il benessere della collettività sul lungo periodo, attraverso la condivisione e la cura reciproca. L’ecosistema è espansivo e procede per affinità e fiducia: dai 14 gruppi del lumbung-team si estendono altri 50 tra artisti e collettivi, a loro volta invitati a condividere idee, tempi e spazi, a allargare gli inviti ai loro ecosistemi (si finirà con più di 1.500 partecipanti), a prender parte al processo curatoriale e all’economia della mostra attraverso assemblee (majelis) su diversa scala. Nonostante le difficoltà legate alla pandemia, le cose a documenta 15 non sono mai decise da un singolo.
E infatti la logica della proprietà e dell’autorialità sembra dissolversi, si invitano gruppi che, per provenienza geografica o posizionamento politico si sostentano in modo diverso da un’economia legata al mercato dell’arte o alle grandi istituzioni, ma che trovano il loro senso nelle comunità di riferimento: incontrarsi e scambiarsi strategie di vita e di lotta diventa quindi prioritario. Gli artisti vengono invitati a continuare a fare quello che stavano facendo nel loro contesto, in una logica di sostenibilità di pratiche di lungo periodo, e a tradurlo in modo rigenerativo a Kassel.
Il punto fondamentale sollevato da questa documenta è che esistono modi di fare arte diversi da quello capitalista, avido e estrattivista del “sistema” dell’arte. Quello che interessa è come i gruppi creano le infrastrutture materiali e immateriali di cui necessitano per sostenersi e per sostenere i propri ecosistemi. Modalità diverse di produrre arte che a loro volta significano opere diverse, che hanno bisogno di un altro schema di lettura: abbastanza indifferenti al gusto e ai diktat estetici europei, trovano il loro senso nelle esperienze delle comunità e dei contesti locali. Le loro parole chiave sono ancoraggio locale, umorismo, generosità, indipendenza, trasparenza, sufficienza e rigenerazione.
Ce n’è abbastanza per far reagire con freddezza o superiorità il mondo «dell’arte che conta», che già dice che non ci sarà la vera arte a Kassel quest’anno (tra i vari gruppi di lavoro di documenta 15, tra esperimenti di economia e modelli di sostenibilità, c’è anche il gruppo Where is the art?, nato dall’esigenza di evitare i fraintendimenti continui a cui questo tipo di arte viene sottoposto quando finisce sotto i regimi critici del sistema mainstream).
A ottobre 2021 la lista degli artisti partecipanti, momento sempre atteso dal mercato, privato e pubblico dell’arte, viene resa nota su «Asphalt», giornale tedesco nato in risposta ai bisogni delle persone senza tetto. Niente nomi importanti (tranne poche eccezioni, spesso inserite all’interno di collettivi a loro volta), niente gallerie forti. Un intero apparato estetico e commerciale è escluso dalla vetrina (e dagli affari) di documenta 15.
E adesso l’altro piano. Gennaio 2022: dal blog di un sedicente gruppo Alliance against Anti-Semitism Kassel (si rivelerà poi essere costituito da un solo individuo legato a gruppi estremisti e con nessun legame con la comunità ebraica di Kassel), vengono sollevate accuse di antisemitismo contro documenta 15.
Nonostante la scarsa affidabilità della fonte, e la palese disinformazione (per esempio sulla figura di Khalil Sakakini, un educatore palestinese progressista dei primi del Novecento) la stampa tedesca («Die Zeit», «Die Welt» e altri importanti giornali) riprende e dà eco alle accuse. A essere presa di mira è anche una supposta vicinanza al movimento Boycott, divestment, sanctions (Bds) da parte di ruangrupa, di alcuni membri del team artistico e del comitato di selezione, oltre ai gruppi palestinesi invitati alla mostra (in particolare il gruppo The question of funding).
Per capire alcuni passaggi bisogna aver presente la situazione particolarmente tesa in Germania su questi temi. Nel 2019 il parlamento tedesco ha approvato una risoluzione per cui il movimento BDS è formalmente condannato come antisemita, con conseguente taglio di fondi federali per chi lo supporta. Una lettera e un gruppo formato da istituzioni culturali tedesche hanno criticato la risoluzione [2], puntando il dito sulla confusione tra antisemitismo e critica allo stato di Israele che porta a silenziare e marginalizzare tutte le posizioni critiche, minando la libertà di espressione. Tra le accuse rivolte ai membri di documenta c’è quello di aver firmato la lettera, insieme a migliaia di firmatari, tra i quali anche molti cittadini ebrei e israeliani.
Lo stesso clima teso ha portato negli ultimi anni a censure più o meno manifeste non appena ci fosse il sospetto di posizioni critiche verso la politica di Israele: dimissioni, cancellazione di eventi e inviti, licenziamenti. Celebre il caso di Achille Mbembe, [3] o del direttore del Museo ebraico di Berlino [4], e più recentemente il ritiro dell’invito da parte del Goethe Institut all’attivista palestinese Mohammed El-Kurd [5].
In conseguenza delle accuse, gli artisti di documenta, in particolare palestinesi, filopalestinesi, neri e musulmani, vengono presi di mira dai media, subiscono censure preventive e sono sottoposti a molteplici forme di minacce e molestie razziste, denunciate dagli artisti in diversi interventi pubblici [6].
In maggio un tentativo di dialogo “multidirezionale” sul tema è stato proposto dai ruangrupa e dal team curatoriale attraverso un forum dal titolo We Need to Talk! Art, Freedom and Solidarity: due incontri dedicati all’antisemitismo e un terzo al razzismo antislamico e antipalestinese2. Dopo critiche preventive sul forum sollevate da Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale ebraico in Germania, questo «nobile ma futile tentativo di trovare una buona domanda a una cattiva risposta» [7], viene cancellato da parte degli organizzatori nell’impossibilità percepita di avere un dialogo privo di censura e autocensura.
Due settimane dopo, la sede di documenta dove saranno ospitati i lavori del già preso di mira The question of funding, del collettivo antirazzista e transfemminista indiano Party Office, e di Hamja Ahsan, viene vandalizzata, e su uno dei muri vi compare la scritta «187 Peralta»: il messaggio viene decodificato come un riferimento alla sezione del codice penale della California sull’omicidio e alla militante neonazista e antislamica spagnola Isabel Peralta. Gli artisti decideranno di tenere il graffito anche nella mostra (barrando il 187 e lasciando una P con il punto) [8].
Il 15 giugno documenta finalmente apre la sua preview. Il tono della mostra è chiaro e forte. La quantità di eventi e di performance dei primi giorni è esplosivo. La sensazione di molti è che la mostra sia sempre in movimento, sempre in evoluzione. E questa sensazione è percepibile anche in un giorno normale, fuori dall’euforia della preview, come quelli in cui io ho visitato la mostra. Il fitto programma di eventi del lumbung-knowledge moltiplica le occasioni di condivisione di pratiche e le idee. Non mi è possibile qui andare nel dettaglio della moltitudine di opere presenti in mostra, e nemmeno farne una rapida carrellata. Ma quello che è chiaro, nonostante tutti i pregiudizi, è che a documenta 15 c’è stata moltissima arte di qualità. E c’è stata non malgrado, ma proprio grazie alla scelta di interrogare «pratiche artistiche che violano le pareti delle gallerie, i regimi curatoriali e il feticismo degli oggetti artistici sia nel museo che nel mercato» [9]. Un’arte vitale e energizzante. Il visitatore non è trattato come un bimbo da accompagnare con testi didattici e interpretazioni preconfezionate ma è posto direttamente in contatto con una varietà di soluzioni, anche estetiche, di modi di immaginare e di vivere, di questioni anche dure e brutali: a lui la scelta di capire, di approfondire, di interrogarsi, e anche di farsi turbare e spiazzare. Questa scelta a parer mio vale il rischio di qualche incomprensione. La sensazione è che sia un’arte che guadagna e si guadagna spazi di vita e di esistenza. Non c’è traccia di retorica o paternalismo. Sono pratiche che rafforzano le comunità e le persone nei contesti in cui si trovano a operare, per quanto duri possano essere. Molti gli archivi, o i collettivi che supportano particolari gruppi e comunità, ma anche approcci documentari, ironici, poetici, futuristici e immaginativi.
I risultati sono sempre sorprendenti. Anche la stessa pratica del lumbung non è meccanicamente applicata ma lascia spazi di apertura alle necessità. La mostra è decentralizzata più di sempre, pur rimanendo tutta a Kassel (a differenza delle passate due edizioni che si espandevano rispettivamente a Kabul e Atene): mentre le numerose sedi, intese anche esse come risorse condivise, si trasformano al bisogno in sedi per abitare, per incontrarsi, per fare scuola, per accogliere i bambini. E sull’altro fronte che succede? Apparentemente nessuna traccia di contenuti antisemiti nei contributi dei più di 1.500 artisti. Nel frattempo, mentre il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier chiariva nel suo intervento di inaugurazione fin dove ci si poteva spingere nella critica a Israele, un enorme pannello del collettivo Taring Padi si stava montando in Friedrichsplatz, la piazza centrale di Kassel, a causa dei ritardi nel restauro [10].
Il lavoro di Taring Padi, formatosi nel 1998 in Indonesia, è esplicitamente militante: la maggior parte delle opere – pannelli e burattini di cartone, manifesti, litografie in carta economica – sono creati per essere usati nelle manifestazioni di strada accanto ai movimenti contadini, operai, delle donne, antimilitaristi e contro le devastazioni sociali e ambientali del capitalismo e dell’imperialismo. Un’intera sede (la bellissima Hallenbad Ost) è letteralmente invasa dalle tracce di 25 anni di attivismo comunitario. Il pannello in questione è stato dipinto collettivamente nel 2002, a rappresentare la ferocia della dittatura caduta da pochi anni e il massacro del 1965. Come in molti dei loro lavori il linguaggio visivo è funzionale alla lotta di strada, e spesso complesse relazioni politiche sono “incarnate” da figure simboliche, con una divisione manichea tra bene e male, tra oppressi e oppressori e spesso ricorrendo a simbologie diverse, dove confluiscono e si sovrappongono, anche in modo confuso e contraddittorio, la tradizione dell’arte europea, l’induismo, il folklore locale [11].
Sulla sinistra del grande pannello, tra le centinaia di figure che compongono l’opera vengono trovate due figure riconosciute come antisemite. Un militare con la stella di David e la scritta Mossad sull’elmetto e una caricatura che richiama l’iconografia antisemita del Novecento europeo, con la paradossale scritta SS sul cappello. La prima figura è più facilmente spiegabile: compare insieme a una serie di figure simili con il nome di vari altri servizi segreti (007, KGB, etc), tutti coinvolti nel sostegno alla dittatura di Suharto, anch’egli rappresentato nella parte del pannello dedicata agli oppressori (nella simbologia del collettivo gli oppressori sono spesso incarnati da animali o robot, con intenzione di disumanizzarli).
Nessuno nega il carattere antisemita della seconda figura, per primi i Taring Padi e i ruangrupa, che si scusano per il dolore arrecato e coprono il pannello di nero in segno di lutto (l’opera sarà smantellata dopo un paio di giorni). Nel frattempo si chiariscono alcuni elementi; che il pannello è stato dipinto collettivamente da molte persone nella rabbia e nel ricordo vivo delle lotte, in una scuola d’arte occupata, e che non si sa bene chi l’abbia dipinto e che cosa avesse in mente (la loro modalità di lavoro non prevede censure); che l’iconografia antisemita è arrivata in Indonesia dall’Europa portata dai colonizzatori olandesi, che se ne sono serviti contro la minoranza cinese; che le figure antagoniste nel teatro delle ombre indonesiane sono rappresentate con zanne, denti affilati e occhi insanguinati; che il pannello è stato mostrato in questi venti anni in diversi contesti e che questa figura non era mai stata notata.
Elementi che tuttavia non sono portati per diminuire la responsabilità di cui il gruppo si fa carico completamente. Taring Padi è un collettivo, che pur impiegando immagini a volte disturbanti, è noto per i valori di antifascismo e solidarietà tra i popoli: in patria i loro lavori sono attaccati e bruciati dai fondamentalisti islamici3.
Accanto alla responsabilità e alle scuse pubbliche, ripetute anche in parlamento da Ade Darmawan dei ruangrupa, gli artisti e i curatori rifiutano con fermezza il clima di sospetto e censura che ormai pare abbattersi su documenta. La mostra viene passata al setaccio di nuovo, alcune sedi chiuse improvvisamente senza avvisare gli artisti, mentre un materiale di archivio presente nel lavoro dell’Archives des luttes des femmes en Algérie, viene ritirato dalla mostra per essere “esaminato”, a causa della rappresentazione di un soldato israeliano che minaccia un bambino (si tratta del giornale algerino dedicato alle donne di Présence de femmes: il numero del 1988 è dedicato all’indipendenza della Palestina e alcune illustrazioni da un libro del 1969 dello scrittore Ghassan Kanafani, e illustrato da BurhanKarkoutly4. Il giornale viene poi riammesso in mostra il giorno dopo.
L’ondata delle polemiche porta alla proposta di cancellazione di fondi, all’istituzione di un Comitato di supporto scientifico (in odore di censura) con esperti in materia di antisemitismo, nonché alle dimissioni della direttrice generale di documenta Sabine Schormann.
Ma soprattutto seguono altri attacchi e la possibilità degli artisti di lavorare in un ambiente sicuro è messa seriamente a repentaglio. Minacce e assalti, tra gli altri, alla sede degli artisti haitiani Atis Rezistans/Ghetto Biennale (la spettacolare ex chiesa St. Kunigundis), e ai membri del collettivo antirazzista e transfemminista indiano Party Office. Molti artisti si trovano a dover lasciare Kassel, dopo aver subito vessazioni, molestie e minacce di vario genere.
In tutta la vicenda, come fa notare giustamente Dirk Moses, ha certamente un ruolo chiave l’inaccettabile sovrapposizione e confusione tra stato di Israele e popolo ebraico, e tra antisemitismo e critica legittima alle politiche dello Stato di Israele: colpevole confusione di cui però solo una delle due parti si è scusata e se ne è fatta carico.
La stessa asimmetria si è manifestata tra le reazioni, giustamente indignate per l’immagine antisemita da una parte e dall’altro la sostanziale indifferenza verso il razzismo, l’islamofobia e l’omofobia che hanno accompagnato la vicenda del “caso” documenta.
A me sembra che questa asimmetria – come ha scritto Michael Rothberg – faccia luce sulla difficoltà a disimparare «le nostre certezze, la nostra superiorità morale e la nostra presunta innocenza, per imparare di nuovo le storie intricate che ci coinvolgono nelle dinamiche più ampie della razza, dell’antisemitismo, del colonialismo e del genocidio» [12].
Che significa prima di tutto riconoscere la centralità del colonialismo nel definire la modernità occidentale, incluso il rapporto dell’antisemitismo con il colonialismo (come hanno fatto notare alcuni critici citando tra gli altri Hannah Arendt e Aimée Cesaire).
Le opere e le pratiche di documenta 15 sono preziose in questo percorso. Da una parte infatti ci mettono davanti, come scrivevano i curatori nella loro dichiarazione iniziale, alle «ferite odierne, specialmente quelle radicate nel colonialismo, nel capitalismo o nelle strutture patriarcali», aprendoci a altri archivi e ponendoci la domanda di chi ha il diritto di definirli, gestirli e raccontarli [13]. Dall’altro lato «contrapponendo» queste ferite «a modelli basati sulla collaborazione che permettano alle persone di avere una diversa visione del mondo», ci permettono, se ascoltate, di poter prendere parte alle diverse forme di risposta collettiva, fatta di responsabilità e cura reciproca.
Quel che è certo è che, durante questa edizione di documenta, migliaia di visitatori hanno potuto sperimentare il lumbung e farsi coinvolgere in un processo ben più ampio di una semplice gita culturale. Perché, come scrivono gli artisti e i curatori, in una lettera aperta che si è opposta all’istituzione dell’advisory board, «Art is not only about aesthetics and comfort zones, art has a significant role in opening channels and dealing with our histories, let it be. This is what artistic freedom means».
Aggiornamento del 12 settembre
Il 10 settembre il Comitato per il supporto scientifico di documenta 15 (scientific advisory panel), nominato i primi di agosto dopo la vicenda del pannello di Taring Padi, pubblica una relazione preliminare. Ad essere sotto accusa stavolta è l’archivio Tokyo Reels, per il quale il comitato suggerisce azioni immediate, nell’attesa di ulteriori analisi sul resto della mostra. L’archivio in questione è presentato dal gruppo palestinese Subversive FIlm e raccoglie pellicole sulla resistenza palestinese dagli anni sessanta agli ottanta, sconosciute al pubblico o considerate perdute, collezionate e conservate da un gruppo di solidarietà palestinese a Tokyo. I ruangrupa e la lumbung community, «arrabbiati», «tristi», «stanchi» ma «uniti» rispondono con una lettera aperta nella quale, respingendo ancora una volta i tentativi di censura e la confusione tra critica allo stato di Israele e antisemitismo, e ribadendo le accuse razziste a cui sono esposti, dichiarano in modo unitario la loro indisponibilità a «essere definiti, ispezionati e ricolonizzati», e la loro intenzione di praticare da ora in avanti «il ritiro da documenta» e di continuare a costruire il lumbung [14].
Note
1. Tra tutte ricordo quella di Werner Haftmann, cofondatore di documenta e importante storico dell’arte, ma anche membro del partito nazista e della SA, ricercato in Italia per aver partecipato a rastrellamenti e aver torturato e ucciso diversi partigiani; ma anche quella di Gerhard Bott, storico dell’arte che ha ricoperto diversi ruoli importanti sia in diverse edizioni di Documenta che in diversi musei tedeschi. (torna su)
2. Nel 2006 presso l’internet caffè di famiglia in cui lavorava, viene ucciso il ventunenne Halit Yozgat, in quello che è stato il nono dei dieci omicidi a sfondo razziale compiuti in Germania tra il 2000 e il 2007 dal gruppo neonazista NSU. Il caso, e in particolare il coinvolgimento di un agente dei servizi segreti presente sulla scena del crimine, è stato l’oggetto di una contro-investigazione del gruppo Forensic Architecture, incaricato da un’organizzazione antirazzista nata in risposta agli omicidi. L’opera 7sqm_9:26min, è stata tra le più discusse di documenta 14, diventando un caso politico dopo le critiche sollevate da parte di esponenti politici della CDU dell’Assia [19, 20]. Solo un paio di anni più tardi, nel 2019 viene ucciso a Kassel il politico Walter Lübcke, della CDU, dal neonazista Stephan Ernst: il capo della pubblica amministrazione locale si era schierato a favore dei rifugiati presi di mira dalle organizzazioni di estrema destra. Vedi https://de.wikipedia.org/wiki/Mordfall_Walter_L%C3%BCbcke. (torna su)
3. Prima dell’inaugurazione il collettivo era preoccupato per l’impatto che tutte le stelle rosse presenti nei loro quadri avrebbero potuto creare in un’Europa segnata dalla guerra in Ucraina. Vedi https://news.artnet.com/art-world/taring-padi-collective-interview-2155080. (torna su)
4.Qui si spiega tutta la vicenda e il suo contesto: https://documenta-fifteen.de/wp-content/uploads/2022/08/Einordnung_Archives-des-Femmes_EN.pdf. (torna su)