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Patriarcato a processo

Nadia Maria Filippini, “Mai più sole” contro la violenza sessuale. Una pagina storica del femminismo degli anni Settana, Roma, Viella, 2022, pp. 212

Nadia Maria Filippini, nel suo ultimo libro, racconta una storia inedita, che in parte sposta la storia del movimento femminista su territori considerati “provinciali” e forse per questo caduti fino a ora nel dimenticatoio.

Alice Corte lo ha “letto per noi”.

Patriarcato a processo. Storia di una mobilitazione femminista

Alice Corte

1976, Verona e la sua provincia. Una ragazza viene violentata da due giovani, mentre torna con il fidanzato a casa. Da lì inizia un processo per stupro che verrà abbracciato dall’intero movimento femminista veronese, con il supporto delle compagne più giovani, coetane della vittima, e di quelle un po’ più esperte, che trovano nella ragazza una forza inaspettata e la voglia di far diventare la propria esperienza una questione politica. Una storia personale che diventa collettiva, nella scelta della difesa, che la riporta al più generale problema della violenza di genere su tutte e che contrasta, con il supporto delle donne presenti in aula, le domande volte a indagare la moralità della giovane, da vittima subito imputata.

Nadia Maria Filippini ci conduce in una storia fino a questo momento poco conosciuta, la storia del primo processo per stupro1 in cui il movimento femminista sostenne la donna vittima di violenza, ma anche il primo che ebbe una fortissima copertura mediatica, fino a diventare documentario trasmesso dalla Rai, tre anni prima del più conosciuto Processo per stupro2, del 1979, che senza dubbio anche a quella vicenda fu ispirato.

Il mondo descritto nel libro appare lontano, un mondo in cui durante il processo se ne inscenava un altro, fuori dalle mura del tribunale, volto a processare il sistema che metteva le donne sempre in posizione di imputate, con figuranti in costume, pronte a impersonare tutti gli attori della vicenda, contro il tribunale e la società patriarcale tutta. Un mondo in cui gli imputati venivano accolti nell’aula dal battere degli zoccoli, fragoroso, delle femministe, che protestavano, ma anche in cui quelle stesse femministe venivano caricate a freddo, per sgomberare un tribunale troppo pieno e rumoroso. Un mondo in cui le ragazze non potevano giocare a calcio, ma in cui le militanti decidevano di lasciare i propri figli ai giornalisti stranieri venuti per intervistarle su quella inedita iniziativa, trasformati da reporter a baby sitter per permettere alle donne di manifestare…

Ma nel libro si descrivono anche le numerose sfaccettature di come venisse affrontato il processo e di come movimento e partiti fossero divisi sulla preminenza della questione di genere o di quella di classe. Un altro episodio fondamentale per il movimento femminista, il cosiddetto massacro del Circeo, in cui dal lato degli imputati si trovavano tre fascisti di buona famiglia, che avevano stuprato e seviziato Donatella Colasanti e Rosaria Lopez nel 1975 (solo la prima si sarebbe salvata, fingendosi morta), era stato in questo più semplice da affrontare. Così si legge in uno dei numerosi documenti citati nel testo di Filippini:

«Il fatto del Circeo ha provocato risposte politiche esemplari: tutti hanno scaricato le proprie contraddizioni sui fascisti assassini che in quanto fascisti e in quanto assassini si configurano esattamente come tutto il male, permettendo a tutti gli altri di uscire puliti senza sentirsi né coinvolti né complici, e quindi di rimandare per l’ennesima volta il confronto e la presa di coscienza delle proprie responsabilità. Noi vogliamo specificare che la violenza contro la donna è sessismo. Sessismo è quando la società ci opprime e ci rende diverse (e più deboli). Sessismo è quando approfittano della nostra condizione di debolezza e passività a cui ci hanno relegato, ci riservano un trattamento diverso e ci violentano» 3.

Il documento citato era stato portato in aula di tribunale dall’avvocato Todesco, che aveva appoggiato il movimento femminista e suggerito una strategia processuale basata su una visione politica del processo, tanto da fare un passo indietro per affidare la causa a due avvocate provenienti dal movimento delle donne, Tina Lagosteni Bassi e Maria Magnani Noya, perché la strategia fosse tutta al femminile.

Il processo si concluse con una vittoria in tribunale, ma non nella vita privata della ragazza, costretta a lasciare il proprio paese (o forse troppo maturata per rimanerci?), nonostante l’appoggio familiare (il padre si era costituito parte civile nel processo, per rafforzarne le decisioni). Una vittoria amara e il sentirsi costrette a cambiare le proprie abitudini, come accade ancora oggi a tante donne che hanno subito violenza sessuale.

Nel libro si fa poi una carrellata anche dei successivi sviluppi del movimento contro la violenza sulle donne: la nascita dei primi centri antiviolenza, sul modello anglosassone; le lotte per cambiare una legge che ancora vedeva lo stupro come reato contro la morale e il buon costume, in un lungo sviluppo che arriverà ad avere un esito positivo nel 1996; i contrasti con il femminismo della differenza che voleva creare un linguaggio e un simbolico altri rispetto a quelle leggi pensate per soggetti maschili e si distanziava dalle battaglie sul piano legislativo…

La vicenda narrata diventa così la “scusa” per arrivare ai movimenti dell’oggi e chissà, magari ispirarli, facendo riflettere sul centrale tema della violenza come fondamentale per lo sviluppo di pratiche e teorie femministe, pratiche e teorie per altro ormai acquisite, visto che sempre più spesso i centri antiviolenza si costituiscono parte civile nei processi per stupro o violenza domestica, accompagnano le donne in tribunale e le sostengono anche di fronte a un’istituzione che al contrario di mondo e movimenti intorno non è poi cambiata così tanto.

Note

1. Il primo processo in cui intervenne il movimento femminista fu nel 1973, a sostegno di una donna (Gigliola Pierobon) imputata per aver abortito sei anni prima, quando era ancora minorenne. (torna su)

2. Processo per stupro fu realizzato da sei giovani programmiste, filmaker e registe femministe: Loredana Rotondo, Rony Daopulo, Paola De Martis, Annabella Miscuglio, Maria Grazia Belmonti, Anna Carini. L’idea di documentare un processo per stupro nacque in seguito ad un Convegno internazionale sulla «Violenza contro le donne», organizzato dal movimento femminista l’anno precedente a Roma. In quel convegno emerse che ovunque nel mondo, quando aveva luogo un processo per stupro, la vittima si trasformava in imputata. Loredana Rotondo, programmista alla Rai, propose a Massimo Fichera, allora direttore di Raidue, di filmare un processo per stupro in Italia. Fichera accettò. Dietro preventiva autorizzazione del Presidente della corte, il documentario fu filmato nel Tribunale di Latina e mandato in onda per la prima volta alle 22:00 il 26 aprile 979, seguito da circa tre milioni di telespettatori; a seguito di richieste di replica, fu ritrasmesso in prima serata nell’ottobre dello stesso anno e fu seguito da nove milioni di telespettatori. Attualmente è disponibile su youtube in versione integrale.(torna su)

3. Documento, firmato da: Coordinamento veronese gruppi femministi e collettivi donne, Movimento di Liberazione della Donna, Commissione femminile del Partito socialista italiano, Commissione femminile del Partito comunista italiano, in: Memoria e Istanza istruttoria dell’avvocato di parte civile Vincenzo Todesco (Asvr, Tribunale Penale, fascicolo processuale 559/76), pp. 92-95. (torna su)

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