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Movimento dei “gilets jaunes”

Vista la quantità di analisi e riflessioni disattente o banalizzanti che non tengono conto della complessità delle proteste che stanno scuotendo la Francia da ormai più di un mese, abbiamo chiesto a Michelle Zancarini-Fournel una riflessione sul movimento dei “gilets jaunes”. Storica dei movimenti sociali, Michelle Zancarini-Fournel è una vecchia conoscenza di Storie in movimento: sul numero 32 di Zapruder pubblicavamo infatti una sua riflessione su violenza urbana e dimensione di genere nel 68 (Il teppista e la ragazza col velo). Qua potete trovare una rassegna stampa sulla mobilitazione.

Il campo delle possibilità

di Michelle Zancarini-Fournel

Per fare la «diagnosi del presente» (Michel Foucault), e auscultare da storica i movimenti sociali del XXI secolo, è utile interrogare le temporalità tra presente, passato e futuro[ref]1. François Hartog, Regimi di storicità, Sellerio, 2007.[/ref], così come sono state declinate tanto sulla scena pubblica e mediatica quanto dai protagonisti, dal momento che i due regimi discorsivi sono tutt’altro che impermeabili. Questo «spazio di esperienza» (la percezione del passato nel presente) può dischiudere un «orizzonte di aspettativa» (Reinhart Koselleck), incarnato nel presente da alcune pratiche alternative, anche minoritarie, che esprimono altri possibili. Questo è il caso del movimento dei “gilets jaunes”, un caso particolarmente complesso perché ancora situato nell’immediatezza. Lo affronterò con grande prudenza dal momento che le fonti disponibili sono essenzialmente mediatiche (stampa, radio e televisione).

Al principio, cioè a partire dal 17 novembre 2018, il movimento si coagula intorno al malcontento per l’aumento del carburante, delle tasse e del costo della vita. Successivamente le rivendicazioni e le parole d’ordine hanno preso una piega più incisiva chiamando in causa la persona e la funzione del presidente della Repubblica (contro il «Re Macron»), esigendo riforme istituzionali e affermando così una volontà di sovranità popolare. Gli abitanti dei dipartimenti d’oltremare avevano già avanzato nel 2009 queste stesse rivendicazioni materiali in un movimento di massa contro «gli approfittatori» che è rimasto nelle memorie, in particolare in Guadalupa. All’incrocio tra differenti esperienze del passato, questo movimento è atipico in queste società post-schiaviste: scoppia non a partire da un conflitto nel settore produttivo della canna da zucchero, né a partire da un incidente razzista, ma da una rivolta di consumatori contro il carovita e sfocia poi nella volontà di cambiare modello di società. Il movimento, sostenuto da nove scrittori antillesi, è stato promosso da Patrick Chamoiseau e Édouard Glissant con un testo poetico-politico che propone un altro modello di società, il «Manifesto per i “prodotti” di alta necessità»[ref]2. Manifesto del 14 febbraio 2009 firmato da Ernest Breleur, Patrick Chamoiseau, Serge Domi, Gérard Delver, Edouard Glissant, Guillaume Pigeard De Gurbert, Olivier Portecop, Olivier Pulvar, Jean-Claude William.[/ref].

Priscillia Ludosky, originaria della Martinica, trentadue anni, residente nella Seine-et-Marne (grande periferia est di Parigi), proprietaria di un negozio online di cosmetici è la prima ad aver domandato «la riduzione del prezzo del carburante nei distributori» con una petizione lanciata su Internet che ha raccolto ad oggi più di un milione di firme. Forse, oltre a presagire la perdita economica per la sua attività professionale, aveva il ricordo dei movimenti sociali che avevano avuto luogo nel 2008-2009 nei dipartimenti d’oltremare.

Nel 2018, la questione del prezzo dei carburanti è di nuovo la scintilla che dà l’avvio in Francia ad un movimento sociale ancora in corso, quello dei “gilets jaunes”. Per cercare di coglierne gli elementi di fondo, bisogna provare ad analizzare oltre ai frammenti di interviste registrate dai giornalisti anche i punti in comune che hanno i partecipanti di questo movimento estremamente variegato, senza portavoce né leader, e le prime inchieste avviate da sociologi e politologi[ref]3. Vedi “Gilets jaunes”: une enquête pionnière sur “la révolte des revenus modestes”, «Le Monde», 12 dicembre 2018.[/ref]

Il supporto materiale e simbolico che permette la distinzione e l’unità dei manifestanti è un oggetto ordinario, il gilet giallo, che ogni automobilista deve per legge possedere nella sua vettura, gilet su cui sono scritti slogan e graffiti (e di cui bisognerebbe fare un inventario il più esaustivo possibile)[ref]4. Vedi p. es. André Loetz, Mots et cultures de l’indiscipline: les graffitis des mutins de 1917, «Genèses», 59, 2005, pp. 25-46.[/ref], contro le tasse, la scomparsa dei servizi pubblici, il prezzo della benzina, il presidente della Repubblica, ma anche con riferimenti alla storia, come questo: «1789, 1968, 2018: il popolo». Se la rivoluzione è evocata, non ci si riferisce alle rivoluzioni proletarie del XX secolo, ma alla rivoluzione francese e ai suoi cahiers de doléances. Un certo numero di “rotatorie” (dove i gilets jaunes si riuniscono per bloccare la circolazione, ndt) hanno iniziato a redigere cahiers de doléances che propongono misure molto precise (come a Dol-de-Bretagne), mentre alcuni sindaci di paese hanno iniziato a raccogliere le rivendicazioni in «cahiers de doléances» conservati in Comune. Se è possibile fare un accostamento con il 1968, questo è nei termini di una «crisi di egemonia», come avrebbe detto Antonio Gramsci, o «crisi del consenso» (come scrive Boris Gobille) rispetto alle diverse forme di dominio e d’ineguaglianza.

I “gilets jaunes” si raggruppano in uno spazio specifico divenuto molto rapidamente un luogo politico dove si sperimentano nuove forme di democrazia: i blocchi stradali delle rotatorie all’ingresso delle città o ai caselli autostradali implicano una presa di potere temporanea sulla mobilità e la fluidità caratteristiche dei sistemi economici contemporanei e diventano allo stesso tempo luoghi di deliberazione[ref]5. Vedi Doug McAdam, Sidney Tarrow, Charles Tilly, Pour une cartographie de la politique contestataire, «Politix», vol. 11, n. 41, p. 21.[/ref]. Come nelle rivoluzioni arabe del 2011, i social network giocano un ruolo essenziale, tenendo alla larga sindacati, partiti e rappresentati politici, ma anche diffondendo le notizie vere… o false.

Il movimento attuale è nazionale, anche nella regione parigina, nelle città medie, nelle zone deindustrializzate che perdono abitanti e nelle zone rurali. Il ritrovarsi alle rotatorie ha creato convivialità e coesione nonostante le differenze di età, di punti di vista e di reddito, anche se sono i membri delle categorie popolari ad essere relativamente più rappresentati. Le donne sono molto numerose, spesso celibi o divorziate, in genere madri di famiglia che non arrivano «a mettere insieme il pranzo con la cena», cioè ad arrivare alla fine del mese.

Finora il movimento è stato appoggiato dalla maggioranza della popolazione che condanna la soppressione dell’imposta di solidarietà sulla fortuna (ISF) mentre le tasse, tra le altre quelle sul carburante, aumentano per tutti.

Nella Réunion, il movimento dei “gilets jaunes” ha preso una piega molto più violenta perché la situazione della popolazione è molto più difficile dal punto di vista della disoccupazione e della precarietà sociale. Appena fa buio, i giovani animano rivolte urbane che scuotono l’isola. Ma al di là di queste violenze, il disastro economico e sociale è evidente. Le fratture si approfondiscono nella popolazione tra abitanti della Réunion e metropolitani, abitanti della Réunion e delle Comore o del Madagascar, e tra i neri e i bianchi. Gli autori delle violenze urbane notturne, che vengono chiamati “i passamontagna neri” (les cagoules noires), sono assimilati alla popolazione nera (i discendenti degli schiavi deportati dall’Africa nel XVIII e XIX secolo). La gerarchia del colore è ancora operativa ed è stato decretato il coprifuoco.

Altrove nella metropoli, il movimento dei “gilets jaunes” sembra diffondersi a macchia d’olio tra agricoltori, manovali, ambulanzieri ma anche liceali, con ogni gruppo che avanza le proprie specifiche rivendicazioni. A partire da lunedì 3 dicembre, tra i duecento e i quattrocento licei sono stati bloccati, parzialmente o totalmente, in sostegno ai “gilets jaunes” ma soprattutto per protestare contro le riforme della scuola e in particolare contro la nuova procedura di selezione per accedere all’università (chiamata Parcoursup) che penalizza gli studenti delle banlieue e in particolare dei licei tecnici e professionali. Da cui la geografia delle prime occupazioni, mentre i licei del centro restavano calmi fino alla giornata del 11 dicembre e la ripresa in mano della mobilitazione da parte delle tradizionali organizzazioni studentesche. Le forme dello sciopero studentesco sono state quelle consuete: cassonetti in fiamme, automobili bruciate, lancio di sassi contro la polizia… Si è sentito gridare «Macron, dimissioni!» e ci sono state violenze urbane nei pressi di molti licei.

Due elementi hanno contribuito a far montare la rivolta studentesca: al liceo di Mantes-la-Joie, giovedì 6 dicembre, alcuni poliziotti hanno umiliato centocinquanta studenti obbligandoli a mettersi in ginocchio davanti a un muro tenendo le mani sulla testa, una posizione tipica delle repressioni coloniali. Il giorno dopo il gesto veniva imitato dagli studenti in piazza della Repubblica e sabato 8 dicembre alcuni “gilets jaunes” lo riprendevano sia durante la manifestazione parigina che i cortei in provincia. È così apparso un legame tra due movimenti in apparenza diversi ma uniti da un punto in comune: la forte domanda di uguaglianza e di rispetto. Il fatto che il presidente della Repubblica nel suo discorso del 10 dicembre non abbia evocato le rivendicazioni liceali traduce quel che è considerato come disprezzo mirante ad infantilizzare le mobilitazioni. Un atteggiamento che gli si è finalmente ritorto contro.

Il 4 dicembre, Jean-François Barnaba, un “gilet jaunes” dell’Indre, ha avanzato quattro rivendicazioni sull’abbassamento delle tasse, l’aumento dei salari minimi e delle pensioni, l’incremento dei servizi pubblici, la riforma delle istituzioni per democratizzare la vita politica. Ma, come molti abitanti della sua città, Le Blanc, ciò che lo muove principalmente è la difesa dei servizi pubblici dopo la chiusura del reparto maternità, simbolo dell’attacco all’uguaglianza e all’umanità.

Dopo la quarta giornata di mobilitazione a Parigi, sabato 8 dicembre, il bilancio non è univoco: i manifestanti sono stati contenuti da sistematici controlli prima delle manifestazioni e ci sono stati duemila fermi preventivi (considerati come illegali dalla Lega dei diritti umani al di fuori della proclamazione dello stato di emergenza) che hanno richiesto una impressionante mobilitazione di effettivi delle forze dell’ordine, con alcune città (Lione e la sua Festa delle luci per esempio) più protette di altre (come Saint-Étienne, dove ci sono stati saccheggi di negozi). Le manifestazioni ambientaliste si sono svolte essenzialmente senza incidenti e si è vista la convergenza di “gilets jaunes” e “gilets verts”, ma ci sono stati scontri, oltre che a Parigi, in molte città (Bordeaux, Marsiglia, Tolosa, Lione, Saint-Étienne, Nantes, Pau, etc.) a testimonianza della profondità della rivolta e della crisi sociale e politica. Un movimento profondo, che oppone giusto e ingiusto, legittimo e legale, attraversa tuta la società francese e si radica nella storia secolare delle rivolte popolari[ref]6. Michelle Zancarini-Fournel, Les luttes et les rêves. Une histoire populaire de la France (1685-2005), La Découverte/Zones, 2016.[/ref].

Il discorso del presidente della Repubblica ha suscitato una attesa reale, ma non ha convinto la maggioranza dei “gilets jaunes” (tranne alcuni pensionati). L’analisi delle dichiarazioni presidenziali ha presto rivelato che l’annunciato aumento del salario minimo (lo SMIC) non era altro che un premio di produzione già previsto. Il discorso ha invece rassicurato la destra (il ripristino della tassa sui grandi patrimoni, ISF, non è stata evocato) e inciderà senza dubbio sul sostegno al movimento dei “gilets jaunes”, fino ad ora molto popolare. Questa dimensione di sollevazione collettiva senza capi, senza leader, senza rappresentanti, scompagina le regole abituali del dibattito in un quadro democratico e politico tradizionale. Il contesto europeo, segnato da tendenze populiste autoritarie, inclusa l’Italia, rende l’avvenire di questo movimento incerto anche se il campo delle possibilità resta aperto.

(traduzione di Andrea Brazzoduro)

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