Ripubblichiamo l’articolo uscito per Giap a firma Nicoletta Bourbaki, un gruppo d’inchiesta che lavora dal 2012 sulle manipolazioni storiche in rete intervenendo su molti casi di ab-uso pubblico della storia. Ogni volta che si tenta, attraverso operazioni più o meno sofisticate, di occultare e distorcere fatti storici a scopo immediatamente politico, la strada da seguire è quella indicata da questo articolo: complicare il quadro, tornando a interrogare le fonti disponibili. L’occasione è fornita dall’infelice paragone fra profughi istriani e migranti stabilito dal direttore dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione del Friuli Venezia Giulia. Al di là di come verrà gestita pubblicamente la vicenda dai responsabili dell’istituzione diretta da Spazzali, l’articolo che vi proponiamo spiega perché non si tratta di un semplice scivolone.
Se questo è un direttore di istituto storico della Resistenza. Roberto Spazzali e i guasti da “Giorno del Ricordo” di Nicoletta Bourbaki
Martedì 9 febbraio 2016, vigilia del Giorno del Ricordo 2016. Mentre stiamo ultimando l’articolo che state per leggere, Roberto Spazzali, direttore dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione del Friuli Venezia Giulia (IRSML-FVG), travolto dalle critiche per certe sue esternazioni di qualche giorno prima, chiede scusa pubblicamente.
A dirla tutta non è nemmeno lui a farlo, ma la presidente dello stesso istituto diretto da Spazzali, con queste parole:
«In merito alle polemiche recentemente comparse, Roberto Spazzali riconosce di avere pronunciato una frase inopportuna che gravemente offende le condizioni di chi oggi fugge dalla morte. E se ne scusa.
Il Direttivo dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, riunitosi il 9 febbraio 2016, prende atto delle dichiarazioni di Roberto Spazzali e si rammarica per una affermazione che non corrisponde alla linea culturale e ai valori coerentemente espressi nel tempo dall’Istituto stesso. Del pari si duole della strumentalizzazione che ne è sorta a più livelli.
Il presidente
Anna Maria Vinci»
Poco dopo, su Twitter, anche l’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione (INSMLI) prende posizione sulla vicenda che stiamo per raccontare.
«Anche INSMLI ovviamente si dissocia da dichiarazioni gravi, soprattutto per ruolo rivestito da persona che le ha pronunciate.
Vedremo quali provvedimenti prenderà l’Istituto di Trieste e quali le conseguenze nel consiglio generale dell’associazione.
Ma quali sono le parole di Spazzali che i suoi colleghi stanno condannando?
Come è accaduto che il direttore di un istituto storico dedicato alla Resistenza antifascista sia arrivato a dire cose che ci si aspetterebbe di più da Salvini?
Dipaniamola, questa vicenda miserabile, nata da poche battute in un trafiletto su un giornale di provincia. Vicenda che come unico pregio ha quello di essere un micidiale microscopio su uno dei miti nazionali più ingannevoli degli ultimi decenni. A iniziare dalla vera origine di questo “sacro giorno” appena celebrato.
[Flashback] Quando e dove nasce il “Giorno del ricordo”?
Nel 1944. A Salò.
Il primo “giorno del ricordo” viene celebrato il 30 gennaio 1944 in tutta la Repubblica Sociale Italiana. Il 19 gennaio sul Corriere della Sera appare un breve articolo intitolato «Solenne commemorazione delle vittime del comunismo partigiano»
L’occhiello recita: «I 471 caduti nelle foibe dell’Istria e della Dalmazia saranno rievocati il 30 gennaio da tutte le federazioni fasciste». Nel corpo dell’articolo si legge tra l’altro (sottolineatura nostra):
«Accanto agli squadristi e fascisti, che sono in maggior numero nell’aver fatto olocausto della vita, si allineano operai, contadini, impiegati, professionisti, piccoli proprietari. La fede politica delle vittime importava fino a un certo punto ai feroci carnefici. Essi facevano obiettivo della più feroce tortura e dell’omicidio chi portava nome italiano, chi era italiano».
L’articolo si conclude con un accorato appello:
«Dalle tragiche foibe si leva un monito: impugnare le armi per difendere la nostra casa, la nostra famiglia, i nostri figli, la stessa civiltà europea dagli orrori del bolscevismo che ora cerca di aprirsi un varco verso occidente con la complicità delle plutocrazie alleate contro il sacrosanto diritto delle genti povere propugnato dall’Italia e dalla Germania».
La Germania di cui si parla nell’articolo è la Germania nazista.
L’Italia di cui si parla nell’articolo è l’Italia fascista che nel 1941, insieme ai nazisti, ha invaso la Jugoslavia, incendiato decine di paesi, fucilato migliaia di prigionieri e ostaggi, e deportato decine di migliaia di civili a morire di fame in campi di concentramento come quelli di Rab, Molat e Gonars.
I 471 caduti nelle foibe sono invece le vittime dell’insurrezione partigiana e della jacquerie esplosa in Istria dopo l’ 8 settembre 1943, al momento del crollo del potere politico e militare italiano, nel breve intervallo di tempo che ha preceduto l’occupazione nazista.
Sono passati 72 anni da quel primo “giorno del ricordo”, ma il contenuto e lo stile delle commemorazioni di oggi sono pressoché identici a quelli di allora. Solo che l’Italia di oggi è la “Repubblica nata dalla Resistenza”, e gli oratori di oggi sono spesso i curatori fallimentari e liquidatori dell’eredità del PCI, ovvero di coloro che nel 1944 venivano indicati come “belve comuniste”.
1. Roberto Spazzali, l’uomo delle foibe
Roberto Spazzali, come si diceva, è il direttore dell’IRSML-FVG. Si tratta dell’istituto storico che dovrebbe ricordare i valori e la storia della Resistenza antifascista sul confine orientale, preservando, diffondendo e rendendo disponibili i documenti storici su un periodo complesso e drammatico per quest’area geografica e per l’Europa tutta.
Negli ultimi anni Spazzali si è ritagliato, o si è trovato a ricoprire, un ruolo piuttosto delicato. È infatti uno dei più richiesti divulgatori della storia del Novecento a Trieste e dintorni. È anche autore di alcuni testi sulla cosiddetta questione delle foibe, il più noto dei quali, intitolato appunto Foibe ed edito dalle Edizioni Bruno Mondadori, è stato scritto a quattro mani con lo storico Raoul Pupo. Ci arriveremo.
Dal momento dell’istituzione del cosiddetto «Giorno del ricordo» delle vittime delle foibe e dell’esodo degli istriani, fiumani e dalmati, avvenuta con una legge del 2004 firmata dal personaggio qui a destra, Spazzali è diventato uno dei nomi più gettonati dalle amministrazioni locali.
Queste ultime, un po’ per dovere istituzionale un po’ per calcolo politico, hanno bisogno di trovare riempitivi in una giornata dedicata al ricordo di qualcosa che tutti credono di conoscere, ma che scoprono di non sapere. Negli ultimi anni “esperti”, mostre, spettacoli teatrali e film sull’argomento sono diventati merce molto richiesta sul mercato dell’eventistica istituzionale, al punto che qualcuno ha ritenuto questo settore maturo per qualche truffa spregiudicata. Del resto, è il capitalismo, baby!
Arriva il 2016 e, in vista del 10 febbraio, Spazzali parte per la consueta tournée.
Nei primi giorni del mese appare a Bondeno, provincia di Ferrara, per due incontri patrocinati dal Comune, guidato da una giunta di centrodestra con sindaco leghista.
Chissà se è tale contesto a suggerire a Spazzali un certo modo di “agganciare” all’attualità il tema dell’esodo post-bellico dall’Istria. Di certo, il modo è infelice, perché Spazzali arriva a esprimere un concetto che Il Giornale di Sallusti riassume così:
La consueta sobrietà del titolo de Il Giornale e i contenuti dell’articolo causano legittime reazioni da parte di ricercatori e storici locali: si vedano questo intervento di Sergio Zilli e i relativi commenti, nonché di comitati antifascisti, come quello che onora la memoria della staffetta partigiana e deportata ad Auschwitz Ondina Peteani.
Dopo queste reazioni arrivano prima un comunicato dello stesso Spazzali [PDF qui] e poi alcune righe di Anna Maria Vinci, presidente dell’IRSML [PDF qui], che in realtà chiariscono ben poco, limitandosi a denunciare l’aggressivo titolo del quotidiano di Sallusti.
Nessuna di queste smentite – che due giorni dopo verranno smentite a loro volta dalle scuse ufficiali – affronta la complessa articolazione del discorso fatto dallo storico giuliano a Bondeno.
Nel frattempo, stralci più ampi della conferenza sono apparsi su diversi organi di stampa locali. Provengono da una trascrizione stenografica dell’incontro, curata dallo stesso ufficio stampa del Comune di Bondeno (lo abbiamo verificato contattandone il responsabile) e usata per il resoconto ufficiale dell’evento.
È quindi possibile farsi un’idea purtroppo molto precisa del senso di quell’intervento, a iniziare da questo passaggio:
«Nel mare di gente che oggi arriva nel nostro Paese c’è un numero cospicuo di giovanotti che, mi pare, accettino di andarsene dalla propria terra al primo ‘bau’. Mi chiedo il perché di questa inerzia. Perché non organizzare una difesa sul territorio da parte di soggetti autoctoni? Chi se ne va nelle condizioni di oggi che tipo di rapporto ha con la sua terra d’origine? Gli esuli istriani, fiumani e dalmati furono costretti ad andare via perché non erano stati messi nelle condizioni di difendere la loro terra, anche perché il Partito Comunista di allora, in Italia, guardava ai comunisti jugoslavi con riguardo. Ricordo che la storia d’Europa è una storia di orrori, ma in passato l’Europa ha saputo difendersi. E da questa difesa ne sono nati i grandi movimenti di Resistenza».
2. Le guerre di oggi son solo un «bau»
Per Spazzali quanto sta accadendo in Siria – e in Iraq, Afghanistan, Sudan, Eritrea… – non è altro che un «bau», il verso di un cagnetto che abbaia ma tutto sommato è innocuo, non morde. Insomma, argomenta il coautore di Foibe, perché scappare anziché organizzare la propria difesa? Come mai questo «numero cospicuo di giovanotti» che arrivano alle nostre frontiere chiedendo asilo e rifugio non si armano per combattere i regimi che li opprimono? Che razza di rapporto hanno con la propria «terra di origine», con la propria «Patria»?
Non risulta che Spazzali abbia problematizzato questa parte del suo discorso. Ci si potrebbe chiedere quanto sappia davvero delle cosiddette “vicende mediorientali”. Una persona informata avrebbe potuto sottolineare che non si tratta solo di Medio Oriente, ma di un pezzo consistente di pianeta che da decenni sprofonda in uno stato di guerra perpetua. E che cause, attori e responsabili di quei conflitti non possono essere considerati endogeni, scaricandone il peso sulle spalle delle popolazioni civili che ne sono vittime. Lo stesso Occidente, che Spazzali implicitamente esalta, è ogni tanto costretto ad ammettere le proprie responsabilità.
E di quei migranti, di quelle migranti, cosa sa Spazzali? Vivendo a pochi chilometri dalle frontiere slovene, si è forse premurato, prima di parlarne, di andare a vedere chi siano quelli che nei mesi scorsi vi sono giunti, dopo viaggi rischiosi e maltrattamenti di ogni tipo?
Dalle sue parole, pare proprio che non l’abbia fatto, altrimenti – a meno di non essere in totale malafede – non si azzarderebbe a chiamarli spregiativamente «giovanotti», riproponendo con una sola parola uno dei peggiori clichés dell’estrema destra xenofoba, per di più un cliché sessista, che rimuove la presenza, tra quelle moltitudini in movimento, di decine di migliaia di donne, anziani e bambini in fuga da devastazioni e guerre. Quelle guerre che per lui sono un «bau».
Spazzali ignora anche, o finge di ignorare, che “da quelle parti” i movimenti di resistenza non mancano, e alcuni di essi hanno una prospettiva di liberazione molto avanzata, simile o anche più avanzata di quella che le componenti più progressive delle organizzazioni antifasciste europee tentarono di mettere in campo settant’anni fa.
Da più di tre anni, nel Rojava, regione del Kurdistan siriano, la resistenza popolare tiene in scacco il mostro fascista che questa nostra epoca e questa “nostra civiltà” hanno prodotto, quello che alcuni chiamano ISIS e altri Daesh. Se il Rojava è oggi una regione autonoma, fondata su principi di democrazia diretta, eguaglianza di genere, sostenibilità ecologica e multietnicità, è solo perché gli uomini del YPG e, soprattutto, le donne del YPJ si sono organizzati per combattere, spesso malgrado – e contro – i giochi sporchi della geopolitica occidentale (come l’appoggio al regime di Erdogan in Turchia).
Torneremo su questi aspetti. Al di là delle specificità della storia del “confine orientale”, servono a smontare il discorso razzista e guerrafondaio che si va affermando in Italia e in Europa. Svelano come funzionano e si affermano le retoriche sullo scontro di civiltà.
3. Di che “resistenza” stiamo parlando?
A Spazzali interessa articolare la sua personale visione della faccenda, partendo dall’assunto per il quale la vecchia cara Europa, ella sì fu capace di reagire e produrre «grandi movimenti di Resistenza». Ma a quale Resistenza si sta riferendo esattamente?
La comparazione tra l’esodo istriano e i «giovanotti» profughi di oggi produce il passaggio più raccapricciante – stavolta dal punto di vista storico – dell’intervento, quello in cui Spazzali dichiara che istriani, fiumani e dalmati non se ne sarebbero andati se avessero potuto difendere la «loro terra». Loro sì che erano profughi veri, costretti a un esilio che avrebbero di certo evitato se fossero stati messi nelle condizioni per farlo. Condizioni che evidentemente vennero negate dalla “madre patria”, soprattutto da una componente politica: i comunisti (guarda caso), che per reverenza nei confronti dei loro omologhi jugoslavi non permisero ai nostri compatrioti di ribellarsi e reagire.
Questa parte del discorso contiene una serie di presupposti storici gravissimi, soprattutto considerando chi sta parlando.
La resistenza a cui si riferisce il nome dell’IRSML-FVG è quella nata l’8 settembre 1943, quando Mussolini era al potere da vent’anni. Già solo questo ritardo nella ribellione contro il tiranno di una parte consistente della società italiana, società che – a Roma come a Trieste – per due decenni affollò i comizi di Mussolini nelle piazze, dovrebbe consigliare maggior prudenza nel contestare alle vittime dei conflitti globali odierni l’atto di cercare rifugio lontano dalle proprie terre di origine.
Spazzali, tra l’altro, dovrebbe ricordare che sul “confine orientale” la resistenza al nazifascismo era iniziata molto prima, grazie a sloveni e croati perseguitati dall’Italia prima liberale e poi fascista, fin dal 1918, ovvero da quando l’Italia, per la prima volta nella storia, aveva conquistato la sovranità su quell’area geografica, che mai era stata “italiana”.
Spazzali si guarda bene dal citare la vicenda del TIGR, prima organizzazione clandestina antifascista in Europa, attiva già dal 1924, che nel 1938 pianificò persino un tirannicidio, poi abortito, in occasione della visita di Mussolini a Caporetto. Molti membri del TIGR furono vittime del Tribunale speciale per la Difesa dello Stato, che istruì nella Venezia Giulia due processi, mandando a morte tre resistenti sloveni e uno croato nel 1930 e altri cinque nel 1941. Di 47 condanne a morte pronunciate da quel tribunale fascista, ben 36 furono a carico di sloveni e croati. Di queste, 26 furono eseguite.
Spazzali non dice al suo uditorio che, anche in seguito a questi atti repressivi, gli esodi dall’Istria e dalla Dalmazia iniziarono molto prima del 1946, ma riguardarono sloveni e croati in fuga dalle politiche di italianizzazione forzata e di repressione, verso l’allora regno di Jugoslavia.
Spazzali si guarda bene dal dire che i primi «italiani» a fare la resistenza furono proprio i comunisti di quelle parti, formando reparti autonomi di elementi italiani inquadrati alle dipendenze della già attiva resistenza slovena, a partire da quello che potremmo definire uno spontaneo internazionalismo di frontiera. È una verità scomoda e spesso manipolata, perché costringerebbe ad ammettere l’aspetto più rimosso di tutte le vicende che riguardano quest’area geografica, ovvero che la sua popolazione non è mai stata omogenea, da nessun punto di vista, né etnico, né culturale, né linguistico, e quindi tantomeno nazionale.
Su questa rimozione si fonda buona parte del lavoro storiografico di Spazzali e di altri, tra i quali il suo coautore Pupo, capaci di leggere questa storia solo come contrapposizione tra due nazionalismi, se non persino tra due razze.
Quelli che per primi e più efficacemente si opposero al nazifascismo, perlopiù contadini e operai, avevano le idee piuttosto chiare sul proprio rapporto con «la terra d’origine»: slavi e italiani qui si mescolano da sempre, ponendo un serio problema alle narrazioni storiche ufficiali – come quella di Spazzali e Pupo – che pretendono di definire identità monolitiche, fingendo di ignorare che in un territorio di frontiera, come oggi nelle metropoli di tutto il pianeta, le cose sono molto più complesse e contraddittorie. Lo spiega benissimo Glenda Sluga, studiosa anglo-sassone di origini giuliane, in un libro fondamentale per guardare alla vicenda di Trieste – e dell’area geografica transnazionale di cui fa parte – da una prospettiva post-coloniale. Libro purtroppo, ma non sorprendentemente, mai tradotto in italiano.
Ma forse la Resistenza a cui Spazzali allude non è nessuna di queste appena citate.
Spazzali sembra considerare movimenti di liberazione solo i gruppi che agirono con finalità patriottiche, non necessariamente antifascisti. In questo senso, nel suo volume L’Italia chiamò esalta la resistenza nazionale italiana di Trieste che imbracciò le armi contro i tedeschi per un solo giorno, quello dell’effimera insurrezione del 30 aprile 1945. O forse considera resistenza quella del CLN dell’Istria, nato addirittura dopo la fine della guerra, dunque una “resistenza” senz’altro anticomunista e ben poco antifascista.
Nel suo ruolo di direttore del IRSML – il che ci mostra che il «bau» non è un’uscita isolata – Spazzali ha addirittura preso le difese di criminali fascisti: a un convegno sul confine orientale organizzato il 16 gennaio dall’Anpi di Milano – non proprio il luogo più adatto in cui tessere gli elogi dei collaborazionisti! – il coautore di Foibe ha sostenuto che Graziano Udovisi, improbabile «sopravvissuto alla foiba», avrebbe protetto gli abitanti del paese istriano di Portole dalle violenze dei nazisti.
Solo che Udovisi fu membro del nucleo «Mazza di ferro» della Milizia Difesa Territoriale – corpo militare alle dirette dipendenze del Terzo Reich – e dopo la guerra fu condannato per collaborazionismo e per aver arrestato proprio a Portole tre partigiani, in seguito seviziati da suoi sottoposti. Ne sopravvisse uno solo.
[Per un approfondimento sulla figura di Udovisi e un dettagliato smontaggio delle sue testimonianze da «scampato alle foibe», si veda: Pol Vice, La foiba dei miracoli. Indagine sul mito dei «sopravvissuti», Kappa Vu, Udine 2008.]
Con le parole proferite a Bondeno, Spazzali finisce per chiudere il cerchio nel punto dove, per il ruolo che ricopre e per ciò che rivela della sua mentalità, non avrebbe mai dovuto avventurarsi. Quando afferma che «gli esuli istriani, fiumani e dalmati non erano stati messi nelle condizioni di difendere la loro terra», sta di fatto affermando che al termine della Seconda guerra mondiale l’Italia, che aveva perseguitato le popolazioni slovena e croata per decenni ed era stata alleata della Germania nazista, avrebbe dovuto armare una resistenza “patriottica” nelle terre annesse negli anni precedenti. Terre che gli Alleati avevano appena restituito allo stato sovrano della Jugoslavia – nato proprio dalla vittoria antifascista in quella guerra – come esito del Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947 (a proposito!). Tutto questo con la prospettiva di (ri)prendere possesso di quei territori: Istria, Fiume e Dalmazia.
Un genere di “resistenza” come quello auspicato da Spazzali avrebbe corso il rischio di riaccendere le braci della guerra appena finita, rigettando subito il mondo nel caos.
In effetti vi furono richieste di armi da parte di formazioni paramilitari istriane, ma molto probabilmente non ebbero seguito, altrimenti in Istria si sarebbero visti ben altri scenari di guerra civile.
Scenari evidentemente da rimpiangere per Spazzali, il quale non può non conoscere il libro di Gaetano Dato Vergarolla 18 agosto 1946. Gli enigmi di una strage tra conflitto mondiale e guerra fredda (LEG, Gorizia 2014). Due anni fa il libro fece scalpore, perché smentiva nettamente la tesi dell’ANVGD secondo cui la nota strage sarebbe stata provocata da terroristi filojugoslavi per spingere ad andarsene la popolazione di lingua italiana.
Nella ricerca di Dato, che vaglia tutte le ipotesi, appare consistente la pista monarchico-fascista nella responsabilità della strage, che intendeva colpire l’amministrazione angloamericana della città. Sei mesi dopo, la repubblichina Maria Pasquinelli avrebbe assassinato il generale De Winton, comandante della piazza di Pola.
In realtà, nulla che già non si sapesse all’epoca. Ma il valore aggiunto del libro è la resa dello scenario torbido dell’Istria del secondo dopoguerra, traboccante di
«spie, agitatori di tutte le risme, provocatori prezzolati, agenti segreti, dalla Jugoslavia all’Italia e viceversa, il traffico d’armi […] C’era chi pensava, forte di un’esperienza maturata trent’anni prima, che la città di Pola o la stessa Venezia Giulia potessero diventare una novella Fiume di dannunziana memoria, in cui sperimentare un’eversiva rivoluzione patriottica».
Si badi che non stiamo citando Dato, ma la prefazione al suo libro. Prefazione scritta nientemeno che da… Roberto Spazzali, il cui rammarico espresso a Bondeno acquista dunque il sapore di un rimpianto per quel genere di lotta eversiva e la situazione di torbidume in cui essa opera.
Del resto, lo storico giuliano ha tentato di sviluppare anche in passato – ad esempio qui – una chiave interpretativa che coincide in modo raccapricciante con quanto hanno sostenuto per decenni i fascisti italiani, e che era sottesa ad operazioni deviazioniste e golpiste di cui la più nota fu Gladio.
[Flashback] Porzus e Gladio, 1992
L’8 febbraio 1992, dieci giorni prima dell’arresto di Mario Chiesa e della conseguente caduta degli dei del CAF (Craxi Andreotti Forlani), il presidente della repubblica Cossiga sfida il gelo della pedemontana friulana per andare a Porzus a rendere omaggio ai diciassette partigiani osovani uccisi dai garibaldini nel lontano 1945.
Episodio controverso, l’eccidio di Porzus, situato in uno snodo storico estremamente complesso: Junio Valerio Borghese e la X Mas si stavano preparando al salto della quaglia e – sotto la supervisione di una parte dei servizi segreti angloamericani – progettavano insieme agli osovani la difesa del confine contro i partigiani comunisti jugoslavi e italiani inquadrati nel IX Korpus dell’Esercito Popolare di Liberazione. Sullo sfondo, la corsa verso Trieste degli alleati/rivali angloamericani e jugoslavi. E la repressione della rivolta operaia di dicembre ad Atene ad opera degli inglesi, che avevano rimesso al potere i monarchici in odor di collaborazionismo. Il matrimonio tra osovani e X Mas si celebrò nel dopoguerra, e diede vita a quella che in seguito si sarebbe chiamata «Organizzazione Gladio».
Infatti Cossiga, dopo aver disceso i tornanti che da Porzus portano alla pianura, si reca a Udine dove incontra ufficialmente e pubblicamente i veterani di Gladio, riconoscendo e rivendicando il ruolo da essi svolto durante la guerra fredda. Da un giorno all’altro, il magistrato Felice Casson, che ha condotto una delicata indagine sugli intrecci tra Gladio e strategia della tensione, si trasforma da eroe civile in nemico della patria.
4. Quei giovanotti vigliacchi e i corrotti che li accolgono
La ristretta concezione patriottarda che Spazzali ha della Resistenza, il modo in cui la ingabbia in una narrazione di fatto nazionalista e agiografica, è pari solo all’idiozia di paragonare l’Istria del 1946 alla Siria di oggi. Paragone che molti esuli e figli di esuli istriani rifiutano, affermando anzi, con una lucidità che Spazzali dovrebbe invidiare, che proprio per quanto hanno vissuto dovrebbero essere i primi ad accogliere chi oggi cerca rifugio.
Invece il direttore dell’Isrml ha le idee molto chiare anche su questo punto, e la lezione che impartisce la trae, ancora una volta, dalla storia. Precisamente, dalla gloriosa storia amministrativa di un paese come l’Italia, che notoriamente ha sempre brillato per efficienza e correttezza. Ecco come prosegue il suo intervento a Bondeno:
«Guardo al 1949, quando l’allora governo italiano aveva organizzato l’esodo da quelle terre. Nei conti – di miliardi di lire – si registrò un semplice sbilancio di 10mila lire. Tutti i prefetti consegnarono i conti perfettamente a posto. Questo accadde perché non c’erano iniziative a fini di lucro. Oggi c’è una carità pelosa, c’è chi lucra, specula, sulla pelle di disgraziati. E questo è l’aspetto più immondo. Tutto sommato, oggi, accogliere è anche un ‘buon affare’. Questa è una responsabilità dei nostri politici. Così come responsabilità loro è anche la questione del vicino Oriente. Non si fanno buoni affari in Iran, chiudendo tre occhi sui diritti civili. Ci vuole la schiena dritta».
Spazzali esprime una malcelata nostalgia per i prefetti che facevano arrivare i treni in orario e tornare i conti, quasi sempre. Oggi invece viviamo tempi in cui i leghisti investono in diamanti africani e lauree albanesi, i benpensanti affittano in nero a migranti e studenti fuori sede, e alcune associazioni e cooperative speculano sulla pelle dei richiedenti asilo. A suo modo di vedere, motivi più che validi per dare ulteriori colpe ai profughi. Del resto l’occasione fa l’uomo ladro, e se gli attuali profughi non scappassero al «primo bau» nessuno avrebbe motivo di speculazione. Idea semplificata che potrebbe andar bene per un Salvini qualunque.
Appunto, per Salvini, non per uno studioso che delle condizioni materiali in cui si svolsero i trasporti dei profughi nel Secondo dopoguerra ha una conoscenza particolareggiata. In un recente saggio pubblicato in questo libro, a pagina 517 Spazzali documenta con dovizia di particolari l’organizzazione dei trasporti delle persone, delle masserizie e persino delle bare con le spoglie mortali di molti congiunti, tra le quali le spoglie di Nazario Sauro e persino i resti del suo sommergibile… Una descrizione che segnalerebbe da sola l’inopportunità del confronto coi migranti dal Medio Oriente odierno. A meno che Spazzali non viva in un presente tutto suo, dal quale la realtà del mondo contemporaneo è del tutto esclusa, e dove nel Mediterraneo non affoga nessun “giovanotto”.
[Flashback] Belgrado e Trieste, 1991
Nell’agosto del 1991 una delegazione del MSI di cui fanno parte Gianfranco Fini, Roberto Menia e Mirko Tremaglia vola a Belgrado per incontrare alcuni esponenti di seconda fila del regime di Milošević e vari esponenti dell’estrema destra serba. La Slovenia ha da poco ottenuto l’indipendenza, e tra Serbia e Croazia è già guerra.
Oggetto dell’incontro è nientemeno che la spartizione della Croazia tra Italia e Serbia. Pare che l’Italia stia prendendo in seria considerazione la possibilità di intervenire militarmente in Istria, a tutela degli interessi nazionali nel campo della pesca e a difesa della minoranza italiana che vive nella regione.
Del resto, il tabù sulle missioni militari fuori dai confini nazionali è già caduto pochi mesi fa, con l’intervento italiano in Iraq nella missione internazionale denominata “Desert Storm”.
Anche la trasferta missina a Belgrado ha una copertura informale ad alto livello istituzionale: al suo ritorno Fini viene ricevuto da Cossiga per relazionare sull’incontro. La rapida evoluzione degli eventi, con la scelta filocroata di Germania e Vaticano, impone poi all’Italia di schierarsi a favore della Croazia di Tuđman. Il 4 ottobre, in un’improvvisata – ma sapientemente calcolata – conferenza stampa a Trieste, Cossiga annuncia che all’Aja, dove si sta discutendo di pace, è stata ventilata l’ipotesi di far rientrare via mare in Montenegro le truppe jugoslave ancora presenti in Slovenia, con imbarco a Trieste.
L’annuncio produce un vero e proprio moto di isteria collettiva: la destra cavalca l’onda paventando un revival dei «foschi giorni del maggio ’45, in cui le orde titine seminarono il terrore nella città». Nonostante le smentite dei governi italiano e sloveno, il 6 ottobre la città è attraversata da un imponente corteo convocato dal MSI a livello nazionale, con tanto di comizio finale del segretario Gianfranco Fini. La manifestazione va ben al di là della protesta per l’improbabile passaggio dell’esercito jugoslavo in smobilitazione attraverso le strade di Trieste, e assume un chiaro contenuto neoirredentistico: si chiede la revisione dei confini orientali d’Italia e la “restituzione” di Istria e Dalmazia.
A Trieste il ritorno di fiamma dell’irredentismo dura per tutto il ’92, mentre la politica italiana è squassata da Tangentopoli e la mafia lancia la sua offensiva contro lo stato facendo saltare in aria Falcone e Borsellino. L’ultimo grande corteo a Trieste si svolge nel novembre del ’92. Poco dopo, grazie a Berlusconi e con la benedizione di Cossiga, il MSI viene ammesso a pieno titolo nel salotto buono (si fa per dire) della politica italiana.
Fini e Menia sono quelli con cui Violante e Fassino nella seconda metà degli anni Novanta patteggeranno la costruzione della cosiddetta “memoria condivisa”, patteggiamento suggellato poi dall’istituzione del “Giorno del Ricordo”.
5. L’impossibile definizione di un’identità unica
Le vicende che sconvolsero il confine orientale nel corso della prima metà del ‘900 sono assai complesse – per ripercorrerle brevemente vedi quanto scritto dai principali storici italiani e sloveni – e videro i diversi regimi che si susseguirono infliggere in varia misura notevoli sofferenze a tutte le popolazioni di quel territorio. Qualunque retorica sui martiri, gli eroi, le patrie, le bandiere e «le pietre che parlano [inserire lingua a piacere]» è una falsificazione e un indegno sfruttamento del dolore di tutte le vittime. Forse, anziché titillarsi con la «civiltà europea», per comprendere quanto accaduto varrebbe la pena di leggersi quanto scrive uno degli inesistenti – secondo Spazzali – resistenti mediorientali, Abdullah Öcalan:
«La storia della modernità è anche una storia di quattro secoli di genocidio culturale e fisico nel nome di una immaginaria società unitaria. […] Lo stato nazione mira a creare una singola cultura nazionale, una singola identità nazionale ed una singola comunità religiosa unificata. Così rinforza una cittadinanza omogenea. […] La storia degli ultimi due secoli è piena di esempi che illustrano i tentativi violenti per creare una nazione che corrisponda all’immaginaria realtà di un vero stato-nazione».
Lo sciagurato parallelo che Spazzali ha voluto impalcare a Bondeno viene spiegato in modo impeccabile da un leader rivoluzionario curdo, sepolto vivo da anni in un carcere turco di cui è l’unico detenuto. Vale sempre la pena ricordare, e stavolta più di altre, che a Öcalan la magistratura italiana riconobbe lo status di rifugiato politico. Troppo tardi però, perché nel frattempo con pilatesco tempismo la stessa Italia aveva fatto in modo di deportarlo con l’inganno, sapendo che questo avrebbe comportato la sua condanna a morte, “fortunatamente” poi tramutata in carcere a vita.
[Flashback] il mito del «barbaro slavo» inventato per assolvere l’Italia fascista
Nel 1946, quando l’Italia è già diventata Repubblica e per essere riammessa nel consesso internazionale deve dimostrare un minimo di volontà di fare i conti col proprio passato, la “Commissione d’inchiesta sui presunti criminali di guerra” redige una memoria che definire apologetica è poco. In riferimento all’occupazione della Jugoslavia, vi si leggono affermazioni di questo tenore:
«A prescindere, invero, dall’indole degli Italiani, alieni, per il loro tradizionale senso di umanità e giustizia, da quegli atti di crudeltà e da quegli eccessi che vengono loro addebitati, è dimostrato da una larga documentazione che le rappresaglie più feroci e spietate, gli assassini più atroci, le barbare distruzione di interi villaggi e di edifici di ogni specie, che ora vengono attribuiti agli italiani, furono invece commessi dai gruppi etnici e religiosi in lotta fra loro. Le nostre Autorità di occupazione ebbero anzi ad intervenire per porre un freno a tali eccessi e per tutelare, come si é accennato, la vita del militari italiani e della popolazione per assicurarle una vita pacifica: circostanze queste in assoluto contrasto coi propositi di distruzione che si vogliono loro attribuire.»
Questa versione dei fatti diviene la base dell’autorappresentazione vittimistica degli italiani quali “brava gente” e dell’ideologia nazionale anche nell’Italia repubblicana.
Dal ’44 al ’46 e via via fino al 2016, questa vulgata si cristallizza fino a diventare un dogma: i Balcani sono una terra popolata da genti barbare che si combattono perennemente tra loro in sanguinosi scontri etnici. Il ruolo dell’Italia nella regione fu quello di pacificare genti che non erano in grado di autogovernarsi.
Il fatto che gli scontri etnici fossero ampiamente fomentati proprio dagli invasori italiani e tedeschi allo scopo di dividersi e controllare meglio il territorio scompare dal quadro per non riapparire più.
6. L’Oriente, il nemico
Perché diciamo che la questione storica del “confine orientale” è utile a capire cosa sta accadendo in Italia e in Europa oggi?
Per molte ragioni, ma prima di tutto perché è emblematica dei modi in cui avviene la costruzione del nemico, un vero e proprio meccanismo di invenzione funzionale a perseguire determinati obiettivi politici.
Il sincronismo tra la retorica nazional-fascista e quella resistenzial-patriottica sulle “foibe” non si comprende se non si considera il lavoro dello studioso palestinese-americano Edward Said e la sua riflessione sull’Orientalismo.
In breve, l’Orientalismo è quell’insieme di stereotipi, rappresentazioni, sistemi culturali e modi di essere funzionali a distinguere nettamente, prima di tutto in ambito accademico, un mondo occidentale da uno orientale, dove il primo è sempre sinonimo di sviluppato, razionale, efficiente e civilizzato, mentre il secondo viene descritto, con le sue popolazioni, usanze e mentalità, come arretrato, esotico e in fondo barbarico.
L’Orientalismo non ha valenza strettamente geografica, ma nel caso specifico la stessa insistenza sull’immagine del “confine orientale”, lo stereotipo della Venezia Giulia come “frontiera” ma anche “ponte” tra Oriente e Occidente, sta a dimostrare quanto la storiografia ufficiale di questa regione sia impregnata di tale idea, che non casualmente nasce alla fine del XVIII secolo con il colonialismo.
La storia di queste terre viene addomesticata in funzione del presente perché serve a costruire una retorica di unità nazionale. La chiave era ed è il pregiudizio antislavo, attraverso il quale gli italiani furono lesti – molto lesti come abbiamo visto, dal momento che inventarono il Giorno del ricordo già prima della fine della guerra, e riprodussero il mito degli italiani brava gente immediatamente dopo! – a scrollarsi di dosso qualsiasi colpa per le politiche di occupazione coloniale. Nei Balcani, tali politiche furono giustificate con l’idea che buona parte di quelle terre fosse per vocazione “latina”, mentre la presenza di altre culture – irriducibili a quella che si presupponeva bimillenaria e civilizzatrice – era un incidente della storia, frutto del caos e della barbarie di popoli provenienti da Oriente.
Non è forse questa l’immagine delle Guerre jugoslave degli anni ’90 consegnataci dai media mainstream? Non è questa, ancora oggi, l’immagine dei vari conflitti mediorientali, asiatici e africani? Basta rileggersi un recente ma già famigerato editoriale del direttore della Stampa Maurizio Molinari. Caos e barbarie; “quelli là” sono incomprensibili, disumani, e proprio per questo da addomesticare. Che è poi il modo in cui uno come Spazzali tratta il più grande movimento di resistenza europeo, quello jugoslavo.
Ieri come oggi lo scontro di civiltà è la chiave perfetta per costruire nemici a tavolino. Serve a definire un “noi” e un “loro”, a costruire l’«altro» come irriducibile diversità, in modo da far esistere un «altro-inferiore-da-noi».
E così si possono legittimare guerre e politiche xenofobe, rendere accettabili dalla società ostacoli e barriere frapposti all’ingresso legale dei migranti, implementare dispositivi che materialmente significano minori diritti politici, minori diritti del lavoro, minori garanzie di accesso ai servizi, come la sanità, l’istruzione e via dicendo. È il modo in cui le nostre società vengono ridefinite nel contesto neoliberista del capitalismo: società a geometria variabile, stratificate attraverso diversi livelli di accesso ai diritti. In ultima istanza, avere una diversità da esporre come irriducibile giustifica questo, è fondamentale in momenti di crisi, permette di rinserrare le fila attorno a identità inventate e maneggevoli.
Ecco perché le parole di Spazzali sono insopportabili, perché sono un modo sottile, perfido e insidioso di declinare e diffondere la retorica del «Prima gli italiani!». Sottile e perfido perché in questo caso il messaggio non è solo la riproposizione di quell’«aiutiamoli a casa loro» di cui si riempiono la bocca i razzisti nostrani, ma è ancora peggiore perché diventa «Si aiutassero a casa loro!». Insidioso, perché a pronunciarlo non è un saltimbanco della politica senz’arte né parte, ma appunto il direttore di un istituto che studia la storia di chi combatté il nazifascismo. E che infatti viene puntualmente ripreso da uno dei giornali più xenofobi sulla piazza e da diversi esponenti leghisti, per usarne le parole a giustificazione di tutto il loro livore razzista e anticomunista.
7. Un breve excursus sul libro Foibe di Pupo-Spazzali
Ecco cosa l’intervento di Bondeno ci racconta del suo autore. Il cortocircuito tra le migrazioni di oggi e l’esodo dall’Istria e dalla Dalmazia di settant’anni fa ha fatto emergere i presupposti, viziati da nazionalismo e anticomunismo, su cui tutto il lavoro di Spazzali si è fondato da decenni a questa parte.
E qui tocca parlare del già citato libriccino Foibe del 2003, curato a quatto mani con Raoul Pupo, nel momento storico cruciale che porterà, di lì ad un anno, all’approvazione della legge sul Giorno del Ricordo.
Il libro è celebre per l’idea secondo cui la parola «infoibati» avrebbe un senso non letterale ma «simbolico». Si tratta di un escamotage finalizzato a includere nel novero dei «martiri delle foibe» tutti i civili e militari di nazionalità italiana morti o scomparsi durante la seconda guerra mondiale sul confine orientale, in pratica tramutando in “verità” storiografica le fantasie popolari e la propaganda revanscista sui caduti.
Foibe è una sorta di zibaldone che mette insieme ritagli di ogni tipo con manipolazioni anche flagranti di testimonianze di partigiani per far passare la tesi pupo-spazzaliana secondo cui le foibe, pur essendo impossibile categorizzarle sotto la voce «pulizia etnica», sarebbero state il frutto di un piano preordinato titino per sbarazzarsi dei simboli del potere italiano in Istria.
È più o meno l’ideologia del famoso discorso di Napolitano del 2007 il quale, con l’aggiunta dei «contorni della pulizia etnica», sarà motivo di tensione diplomatica con la Croazia, anche per l’onorificenza postuma conferita al criminale di guerra Vincenzo Serrentino.
Ovviamente dal saggio vengono sapientemente eliminate tutte le evidenze che non restituiscono la tesi del piano preordinato. Vengono rinnegati gli stessi predecessori di Pupo e Spazzali all’IRSML, Galliano Fogar e Giovanni Miccoli, che avevano sostenuto gli aspetti di jacquerie e di resa dei conti negli infoibamenti, perlomeno in quelli istriani.
Spazzali e Pupo evitano accortamente di menzionare le analisi più insidiose dei due predecessori, come le correlazioni individuate da Fogar tra il personale delle miniera di Valdarsa infoibato a Vines e il disastro minerario del febbraio 1940. In quella tragedia morirono 200 minatori, le responsabilità furono passate sotto silenzio dalle autorità fasciste e dall’amministrazione della CarbonArsa. I funzionari di quest’ultima furono i primi che la popolazione andò a cercare dopo il crollo del regime.
L’aspetto più odioso del libro, tuttavia, è l’accusa infamante di «negazionismo» affibbiata ai ricercatori di oggi non in linea con il pensiero di Pupo e Spazzali. Per denigrare Claudia Cernigoi, i due ricorrono a improponibili scritti del fascista Giorgio Rustia, respinti nei passaggi in cui l’autore attacca l’IRSML ma sdoganati in quelli dove si scaglia contro Cernigoi.
Proprio da quelle pagine di Foibe ha avuto origine la leggenda metropolitana su «quelli che negano le foibe», leggenda nera che aleggia come uno stigma intorno a storici che hanno il solo torto di condurre ricerche sgradite a Pupo e Spazzali. Questo stigma, come stiamo per vedere, continua ad avere pesanti conseguenze concrete.
8. Un giorno che Spazzali ricorderà
Tutto questo ci importerebbe meno se Spazzali fosse uno storico qualsiasi. Invece, come abbiamo detto in apertura, è il direttore responsabile di un istituto, finanziato dallo Stato, che ha il compito di preservare la memoria collettiva di una repubblica nata dalla Resistenza antifascista.
A Trieste, l’Istituto è stato fondato da studiosi e storici di provata fede antifascista legati al CLN quali il già citato Galliano Fogar, Claudio Schiffrer, Ercole Miani. Fogar, esponente della Resistenza antifascista non comunista, ne fu il segretario per lunghi anni. Sotto la sua guida l’Istituto ha prodotto studi legati all’antifascismo, all’occupazione tedesca e al collaborazionismo, allo sviluppo della Resistenza – sia di matrice comunista che ciellenista – nei territori del confine orientale. Tra gli anni ’70 e i primi anni ’80 l’Istituto produsse due dei volumi più importanti della sua storia: Nazionalismo e neofascismo nella lotta politica al confine orientale (1945-75) e Storia di un esodo. Istria 1945-1956, libri che per il loro rigore storico e la loro obiettività sembrano appartenere ad un passato ormai molto lontano.
Fogar fu uomo integerrimo, di ideali mazziniani, capacissimo di distinguere tra la storia e la propaganda politica. Per rendersene conto si veda questo video.
Dopo la breve orazione funebre del figlio Maurizio, che dice cose importanti contro il cliché «delle-foibe-non-si-era-mai-parlato», parte un estratto d’intervista a Fogar. L’anziano storico smentisce tutti i più triti luoghi comuni sulla vicenda foibe e liquida come «odiosa speculazione politica e morale» il mettere sullo stesso piano nazisti e jugoslavi.
Negli ultimi anni (e ancor di più dopo la morte di Fogar), l’Istituto ha spostato sempre più l’accento sulle vicende legate alla Giornata del ricordo (esodo e foibe), presentandole sempre più in un’ottica nazionale.
Questo ci fa porre la domanda su quale senso abbia ancora una denominazione che si richiama al Movimento di Liberazione. Sarebbe forse più onesto – e scientifico – cambiarla in «Istituto per la Storia del Confine Orientale d’Italia».
Al di là di tutto questo, sono ancora più gravi le conseguenze pratiche di un certo modo di trattare la storia quando il messaggio che passa è quello di un’ideologia di unità e di pacificazione nazionale a tutti i costi.
Nelle stesse ore in cui si consumava la vergognosa vicenda che coinvolge Spazzali, il presidente della Provincia di Gorizia, Enrico Gherghetta (PD), portando alle estreme conseguenze la lettura di Spazzali sulla questione foibe-ed-esodo, decideva di negare la sala precedentemente concessa per lo svolgimento del convegno «11 ANNI DI “GIORNO DEL RICORDO”, tra mistificazioni storiche e rivalutazione del fascismo», al quale avrebbero partecipato diversi storici, più volte messi alla berlina da Spazzali, ma di fatto mai smentiti scientificamente. Le motivazioni di Gherghetta, leggibili integralmente qui, erano di questo tenore:
«Nel caso in questione è lapalissiano che il giorno del ricordo previsto per legge non possa concedere una sala pubblica a chi nega la legge.
È come se il giorno della memoria dell’olocausto concedessi una sala pubblica a chi lo nega.»
Il cerchio si chiude, con l’accusa di “negazionismo” usata per difendere una ricorrenza che del vero negazionismo – quello dei crimini di guerra italiani in Jugoslavia – ha fatto una religione civile.
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Per approfondire la questione foibe / confine orientale.
Consigli di lettura, senza pretesa di esaustività, del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki (pdf)