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Tullio De Mauro: il ricordo diretto di un insegnante

Il 5 gennaio 2017 è morto Tullio De Mauro. A un anno di distanza lo ricordiamo ripubblicando un intervento di Oreste Tappi che, nei giorni immediatamente successivi alla notizia, avevamo ospitato sulla nostra pagina Facebook[icon name=”external-link” class=”” unprefixed_class=””].

Tullio De Mauro

Il ricordo diretto di un insegnante

di Oreste Tappi

Guida all’uso delle parole, copertina dell’edizione di Editori Riunioni 1983

In questi giorni, molti naturalmente hanno scritto intorno alla figura e all’opera di De Mauro. Fra i più efficaci, l’articolo di Luca Serianni sul Domenicale del Sole-24 ore dell’8 gennaio, che in uno stile essenziale ed asciutto (si potrebbe dire demauriano) ha delineato la storia intellettuale ed umana del grande linguista scomparso, ricordando le sue opere fondamentali: l’edizione italiana del Corso di linguistica generale del Saussure (1962), la Storia linguistica dell’Italia unita (1963: “per la prima volta un tema di stretta pertinenza linguistica… viene affrontato con ampio ricorso alla demografia e alla statistica”), il Grande vocabolario italiano dell’uso (1999), le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica (1975). Quest’ultima riporta direttamente all’altro grande filone, oltre a quello di studioso, dell’attività di De Mauro, sul quale mi preme aggiungere qualche nota: l’impegno militante di De Mauro, abbastanza raro in Italia per uno studioso, per la scuola e per quella che è stata in certo modo una sua creazione, la pedagogia linguistica civile.

Di questa intensa attività fanno testimonianza gli infiniti incontri con gli insegnanti, sempre caratterizzati da una precisa volontà e capacità di entrare nel merito concreto delle questioni didattiche, denso di consigli pratici, tutto il contrario di tanto astratto e soprattutto inutile pedagogese che generalmente viene ammannito ai docenti italiani. Fra i miei diretti ricordi, la critica alle antologie letterarie scolastiche e in generale ad un certo metodo tradizionale di lettura dei classici, fatti letteralmente a “brani”. E fra le opere niente affatto “minori” di De Mauro, brilla un aureo libretto pubblicato la prima volta nel 1980, Guida all’uso delle parole, dall’incipit fulminante: “Parlare non è necessario. Scrivere lo è ancora meno”; che con il sottotitolo “Parlare e scrivere semplice e preciso per capire e farsi capire”, credo basti a fotografare due dei caratteri fondamentali di questa parte dell’opera e della personalità stessa di De Mauro: la linguistica come pedagogia dell’antiretorica, e la linguistica al servizio della corretta ed efficace comunicazione sociale e dunque della democrazia.

In un paese le cui classi dirigenti sono state educate per secoli a forza di “temi in classe”, cioè di inviti programmatici a friggere aria e a rimasticare malamente pensieri altrui (che, come scriveva Antonio Santoni Rugiu, in quelle parole non è più un pensiero), bisognava (e bisogna ogni volta) riprendere il filo dall’inizio ed entrare concretamente nel merito. Fra i tanti consigli pratici, ne enucleo uno particolarmente indicativo data la tradizione curialesca e avvocatesca dell’uso della lingua italiana: “Non usate proposizioni dipendenti. Usate proposizioni coordinate. Oppure spezzate in due la frase. Guadagnerete in chiarezza e anche in rapidità”. L’uovo di Colombo. Ma nella scuola italiana le orrende “traduzioni letterali” di latino, tanto care a certi insegnanti perché impedirebbero agli studenti di ciurlare nel manico delle “traduzioni libere”, hanno abituato generazioni di giovani liceali, come scriveva Giorgio Pasquali, all’idioletto delle sfilze di affinché, dei gerundi composti a iosa, dei periodi fino al terzo e quarto grado di subordinazione; dove insomma – come dice De Mauro – una lunga, solenne tradizione ci ha insegnato a dire: benché piova, io esco; invece che, più chiaramente e soprattutto più efficacemente: piove e io esco lo stesso. E aggiungeva: chi vuole che il suo punto di vista non sia sottoposto a controlli e verifiche, farà bene a usare frasi molto lunghe, ricche di subordinate incastrate una dentro l’altra. E a me pareva e pare il degno pendant e la prosecuzione della pedagogia di don Milani: le lingue le fanno i poveri; i ricchi le complicano per fregare i poveri.

L’italiano, al contrario delle altre lingue “volgari”, in realtà (come proprio De Mauro ha messo chiaramente in rilievo) è vissuto nelle corti e sulla penna degli intellettuali, non nelle strade. Per questo è rimasto immobile per secoli, mentre il francese, lo spagnolo, l’inglese si evolvevano e si adattavano al mutare del mondo. È stata ed è necessaria una grande opera di rinnovamento e di democrazia linguistica. Questa, come De Mauro stesso ha sempre rilevato, è stata in gran parte compiuta, oltre che dalla tv e dal servizio di leva, dalla scuola e dalla scuola dell’obbligo in particolare. Ma ciò che la scuola ha potuto e può ancora fare in questa direzione, lo deve in gran parte all’opera condotta sul campo da Tullio De Mauro.

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