La mostra Confine 1.
di Ilenia Rossini
1978-2018: un quarantennio è passato da quella che è stata definita come «la più importante rivoluzione italiana», come recita il titolo della recensione di Vanessa Roghi al bel libro di John Foot intitolato La “repubblica dei matti”. Il riferimento è ovviamente alla legge 180, la cosiddetta “legge Basaglia”, che dichiarò che i manicomi avrebbero dovuto essere chiusi e che le persone affette da disagio mentale avrebbero dovuto essere assistite in strutture decentrate. “Cosiddetta”, perché Basaglia non si riconobbe mai nella paternità della legge, né contribuì alla sua stesura. Il contesto culturale italiano però, quello sì, era stato rivoluzionato dall’attività di Basaglia – e di sua moglie Franca Ongaro, dei suoi collaboratori e delle sue collaboratrici – a Gorizia e a Trieste, dal suo odio per i manicomi e su quella che era stata fino ad allora la loro organizzazione.
Nel 2018, dunque, è caduto il quarantesimo anniversario della legge: le iniziative “celebrative” sono scarne, se confrontate alla portata del provvedimento, ma la ricorrenza ha fornito l’occasione per la produzione di libri (tra tutti, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria di Piero Cipriano), documentari (Franco Basaglia. La libertà è terapeutica di Vanessa Roghi per Rai Storia, ad esempio) e mostre. Tra queste ultime, si segnala soprattutto CONFINE 1. Storia di luci e di ombre, una raccolta di scatti del fotografo Fabrizio Borelli, curata da Maria Italia Zacheo e ospitata prima al Maxxi di Roma (a maggio) e poi al Palazzo di primavera di Terni (a ottobre). Per chi se la fosse persa – anche se la speranza è quella che possa girare ancora un po’ – è disponibile il catalogo omonimo pubblicato dall’editore Lithos, a cui si può richiedere direttamente, che raccoglie circa 130 immagini. E consiglio davvero di farlo.
Gli scatti di Borelli – inediti fino al 2017, quando una selezione fu esposta a Roma presso Evasioni Studio – sono stati realizzati a Roma nell’autunno 1979, in occasione della manifestazione Uomini e confini: in seguito all’approvazione della legge 180, infatti, era giunto il momento anche per i pazienti ricoverati presso l’ospedale psichiatrico di Roma, il Santa Maria della pietà, di «entrare fuori» – secondo l’ormai nota espressione di Nino B., uno dei ricoverati che erano ancora rinchiusi a oltre un decennio dalla legge («La fai facile tu… ma tu non puoi sapere quanto sia difficile per noi entrare fuori») – cioè di superare il confine delle mura di quello che era stato fino ad allora il manicomio più grande d’Europa. Ed ecco, dunque, i pazienti dell’ospedale psichiatrico rendersi visibili alla città e rendere visibili, insieme a loro stessi, anche gli strumenti che avevano caratterizzato fino ad allora il loro internamento e la loro esclusione (i letti di contenzione, le camicie di forza, l’elettroshock). Una tournée, un happening, tra le strade della capitale, immortalata appunto da Borelli, che li ha condotti in diversi luoghi e in diversi quartieri: le sponde del Tevere, la Galleria nazionale d’arte moderna, Trastevere, lo zoo, largo di Torre Argentina e il suo teatro, il mattatoio di Testaccio, il quartiere Primavalle, non lontano dal Santa Maria della pietà stesso e luogo dell’attività del centro sociale Primavalle, che di questa manifestazione-happening fu il propulsore e l’organizzatore insieme all’ospedale psichiatrico. Nello stesso periodo Basaglia, in Brasile, teneva i famosi interventi che sarebbero diventati noti come Conferenze brasiliane, in cui affermava, appunto, che nel quindicennio precedente «giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo passo, disperatamente trovammo la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro».
E proprio in questa permeabilità tra un “dentro” e un “fuori” e nella “visibilità” che cerca di contrastare l’“invisibilità” a cui erano state condannate per decenni le persone affette da disagio psichiatrico – un’invisibilità che le aveva ridotte a “non persone” private persino dei diritti civili – che risiede a mio avviso l’importanza della raccolta di fotografie di Borelli. Abbiamo documenti visuali bellissimi sui manicomi: penso in particolare ai celebri scatti di Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati, che nel 1969 pubblicarono il fondamentale Morire di classe (con un’introduzione dello stesso Basaglia), ormai introvabile ma riedito nel 2008 in forma anastatica dalla rivista «Sconfinamenti» e disponibile anche in pdf. Berengo Gardin e Cerati, però, operarono negli anni ’60, quando Basaglia aveva già iniziato la sua rivoluzione a Gorizia, anche se la legge 180 era ancora lontana. I loro sono fotografie di un’“invisibilità” che alcuni psichiatri rivoluzionari – guidati da Basaglia – stavano cercando di rendere visibile, ma sono appunto gli scatti di “dentro”: sono scatti, per riprendere le parole brasiliane di Basaglia, che portano dentro chi sta fuori, in primis i due fotografi che varcano verso l’interno il confine dell’ospedale psichiatrico. Quelli di Borelli sono diversi, sono le immagini di una “visibilità” che si impone nelle strade della capitale: perché era giunto il momento che chi era dentro varcasse il confine, andando verso fuori, con tutte le difficoltà che ciò comportava. Siamo in altro periodo storico, anche se cronologicamente era passato solo un decennio: ma c’era stato, intanto, il 1973, quando l’installazione di Marco Cavallo a Trieste aveva simbolicamente rotto il muro tra il “dentro” e il “fuori” dell’ospedale psichiatrico e aveva condotto centinaia di pazienti in corteo per la città; e c’era stata la legge 180, appunto. Quelle di Borelli non sono dunque immagini di sofferenza, di privazione di diritti e di emarginazione e abbrutimento: sono immagini di speranza, di conquista, di gioia. Sono immagini di liberazione.
Sono le immagini che dovrebbero essere certamente usate più spesso per rappresentare gli anni ’70: non “anni di piombo”, non cappa di violenza calata sulle esistenze quotidiane, ma periodo dal massimo avanzamento dei diritti sociali e civili in Italia. Periodo delle maggiori conquiste in questo campo. Pensiamo appunto a quel 1978, anno non solo del sequestro Moro ma della legge 180 (discussa e approvata proprio in quei 55 giorni), della legge sul diritto all’aborto, dell’istituzione del servizio sanitario nazionale. E nel catalogo della mostra pubblicato da Lithos tutto questo c’è, nelle pagine finali, contenenti una cronologia intitolata appunto Il decennio dei diritti civili e la legge Basaglia, una legge di confine.
“Confine”, appunto. Significative sono le parole di Borelli all’inizio del catalogo, che spiegano il titolo:
Il concetto di confine attraversa il nostro tempo. I confini geografici sono linee convenzionali che definiscono l’identità dei popoli e, talvolta, la difendono; smantellarli è occasione di incontro o di smarrimento. Se usciamo dall’interpretazione geografica il confine diventa demarcazione delle diversità dello spirito, separazione tra dimensioni profonde dell’essere umano, delle esperienze, degli affetti, delle memorie, dei mondi interni. A molti anni di distanza, quando ho ri-preso in mano questo lavoro, la prima cosa che mi è saltata agli occhi è proprio l’idea di confine tra dimensioni profonde che trovano espressione nei volti, nei corpi, nelle posture, che assorbono e restituiscono la luce, ciascuna in modo diverso, la dimensione propria della follia. Confine non tra normalità e follia ma tra vita e vita, dove ciascuna ha intrinsecamente il medesimo valore, al di là del ruolo che il destino riserva a ciascuno. (p. 17)
In una fase storica in cui i confini sono interpretati sempre più come “barriere” e come “frontiere” da difendere dai “diversi”, dagli “estranei” che solo in quanto tali costituirebbero un pericolo, mi sembra importante recuperare la memoria di un periodo storico in cui, invece, quei muri e quelle barriere sono stati smantellati uno dopo l’altro. O in cui, almeno, era radicata la consapevolezza che si sarebbe potuto fare, prima che il realismo capitalista prendesse il sopravvento.
Gli anni ’70, dunque, come decennio di diritti civili e riforme e non solo di violenza cieca e ingiustificata (per quanto le scelte della violenza e della lotta armata ne siano state una caratteristica pienamente interna alle sue dinamiche), di diritti che oggi sono frequentemente messi in discussione. Anche quelli delle persone affette da disagio psichico, sempre più spesso tenute a bada e “nascoste” in quelle che lo psichiatra riluttante Piero Cipriano ha definito il “manicomio chimico” degli psicofarmaci. Gli scatti di Borelli, dunque, possono costituire un piccolo antidoto nell’attuale ciclo politico reazionario mondiale, tanto più necessario laddove a pochi giorni dall’insediamento come ministro dell’Interno una delle massime espressione di questo trend, Matteo Salvini, ha affermato la volontà di rivedere «certe finte riforme», come ad esempio la «riforma che ha riguardato i malati psichiatrici e ha cancellato le strutture che curavano i malati psichiatrici, abbandonando le famiglie al loro destino». Tali dichiarazioni hanno scatenato la reazione degli psichiatri italiani: un discorso che riparta da immagini come quelle di Borelli potrebbe contribuire a rinsaldare anche della società civile la consapevolezza che ogni arretramento nei diritti di qualcuno è un arretramento nei diritti di tutte e di tutti.