All’avvicinarsi del “Giorno del ricordo” riprendono gli attacchi alla storiografia impegnata a demistificare le narrazioni parziali, nazionaliste e fascistoidi sul confine orientale e le foibe. Eric Gobetti, impegnato da anni nello studio delle resistenze e dell’antifascismo nei Balcani, anche quest’anno ha dovuto subire il consueto abbaiare dei neofascisti che, con riflesso pavloviano, invitano ad annullare un evento organizzato a Torino dall’Anpi, tacciando Gobetti di negazionismo. Eric è un amico di Storie in movimento, uno storico preparato e abbastanza attento da non lasciare che le vicende del confine orientale e dell’occupazione italiana dei Balcani vengano schiacciate su un uso pubblico scorretto e sciovinista. Per sostenerne il lavoro e mostrargli vicinanza abbiamo deciso di “liberare” alla consultazione un suo articolo, dedicato al suo film Partizani. La Resistenza italiana in Montenegro, uscito sul numero 49 di «Zapruder» (mag-ago 2019, pp. 144-150).
Da occupanti a partizani. Tortuosa genesi di un docufilm freelance
di Eric Gobetti
Castiglioncello, Livorno, 16 maggio 2009. La giornata è bella e assolata. Ho terminato da poco il secondo dottorato a San Marino e sto realizzando una serie di interviste a reduci dell’occupazione italiana in Montenegro durante la seconda guerra mondiale per conto dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione. In una casetta in collina alla periferia del paese incontro Gino Bindi. Mi interesso in particolare alla divisione Venezia, il reparto in cui Bindi ha militato per più di un anno, tra il 1942 e il 1943. Tra tutte le unità d’occupazione la Venezia ha la storia più particolare e interessante: arrivata nell’agosto del 1941, dopo l’incredibile successo dell’insurrezione popolare del 13 luglio, si trova ad amministrare una regione periferica del nordest del Montenegro, con centro a Berane. In quest’area viene stabilita la prima alleanza militare con i cetnici, i nazionalisti serbi che in quei mesi si tramutano da movimento di resistenza monarchico a forza collaborazionista. Lo stesso leader del movimento cetnico a livello nazionale, Draža Mihailović, passa più di un anno a Lipovo, nella zona d’occupazione della divisone Venezia, sotto la protezione delle truppe italiane ma anche accogliendo missioni militari inviate dal Regno unito, del quale i cetnici si considerano i principali alleati. Una situazione di estrema ambiguità che può essere compresa in maniera più chiara proprio grazie ad uno studio sul campo, a livello locale.
Nemmeno un anno dopo l’intervista con Bindi sarò a Lipovo, un piccolo borgo di montagna, alla ricerca delle case che ospitavano il comando di Mihailović e di testimoni che ricordassero la sua presenza. Come spesso succede, quella mattina a Castiglioncello l’intervista procede a stento. Ci vuole tempo e pazienza, bisogna conquistarsi la fiducia del testimone, essere disposti ad ascoltare ma anche indirizzare il discorso verso racconti veri, episodi reali che riaffiorano alla memoria, cercando di schivare la ricostruzione spesso eroica che si è costruita nei lunghi decenni successivi alla guerra. Bindi si sofferma soprattutto sulle imboscate, gli improvvisi attacchi subiti dalle colonne di camion italiani sulle impervie strade del Montenegro. Episodi violenti, improvvisi, spaventosi perché imprevedibili. E poi i lunghi mesi di occupazione in paesi spersi tra le vallate, dove inevitabilmente, nonostante la diffidenza iniziale, si creano rapporti sempre più stretti con la popolazione. Le donne, in particolare, che sono in gran parte rimaste sole a causa della guerra e cercano aiuto e compagnia. Nella penombra del salotto lascio scorrere i ricordi, mi faccio raccontare della «bimbetta che avrà avuto diciassette, diciott’anni, che mi rompeva le scatole, cioè mi chiamava per nome…», dei rastrellamenti in montagna, quando «si portava via qualche gallina: ci avete fatto venire fin quassù, qualche gallina vi si chiappa, e si mangia!». Gino però ha una storia in più da raccontare, una storia speciale che lo rende orgoglioso. Lui non è un soldato come tanti, uno delle migliaia, centinaia di migliaia di ragazzi mandati ad occupare i Balcani nel corso della seconda guerra mondiale.
Dopo l’annuncio dell’armistizio, l’8 settembre 1943, Bindi è entrato nella resistenza jugoslava e con altri ventimila ha fondato la divisione partigiana “Garibaldi”. È una storia che so; uno dei motivi che mi hanno spinto a scegliere la Venezia è il fatto che questa unità è l’unica di tutto l’esercito italiano che ha deciso, dopo l’armistizio, non solo di resistere ai tedeschi, ma anche di creare un vero e proprio reparto partigiano, alleandosi coi ribelli locali. Una scelta difficile e coraggiosa, portata avanti dallo stesso comandante della divisione, il generale Giovanni Battista Oxilia. Quella mattina a Castiglioncello ancora non lo so, ma la storia della divisione “Garibaldi” sta per travolgermi. Nell’arco di pochi anni finirò per realizzare un documentario e una trasmissione di RaiStoria, a scrivere un libro e a organizzare un viaggio della memoria, che accompagno ogni inizio settembre ormai da quattro anni sui luoghi della resistenza italiana in Montenegro. Una storia unica e straordinaria, e anche incredibilmente drammatica: dei ventimila partigiani iniziali, solo la metà sopravviveranno alle fatiche della guerra partigiana, falcidiati dal freddo, dalla fame e dal tifo, più che dalle armi nemiche. Finita l’intervista Gino mi invita a mangiare con lui e la moglie. Una pasta al sugo, un’insalata, cibi semplici per una coppia che ha vissuto in campagna tutta la vita, facendo da mezzadri a un padrone che gli ha lasciato in eredità la bella casa spaziosa in cui passano il meritato riposo della vecchiaia. Durante il pranzo Bindi comincia a parlarmi di una «cassetta». «La vuoi vedere?», mi dice. Non so bene cosa aspettarmi ma certamente non mi immagino quello che appare sullo schermo della tv di casa una volta inserito il disco (alla fine si tratta di un dvd). Sono immagini di repertorio, riprese effettuate in Montenegro durante la seconda guerra mondiale, prima e dopo la scelta partigiana. Sono stupefatto ed emozionato. Non ho mai visto immagini del genere girate in Jugoslavia, veri e propri combat film che non hanno niente a che vedere con le classiche immagini di propaganda dell’istituto Luce. Sullo schermo si muovono colonne di muli per niente eroiche, donne che filano e pecore al pascolo, e poi partigiani italiani e jugoslavi che sorridono insieme, per finire con ex militari ridotti a mucchi di stracci doloranti che camminano nella neve cercando scampo all’inverno e ai mitra nemici. Nel pomeriggio appare il nipote di Gino, che promette di farmi una copia del dvd e inviarla al mio indirizzo di Torino. Lo ringrazio e riparto, emozionato. Non so cosa dovrei farci con quelle immagini, non ho mai fatto un documentario e non credo di essere in grado di realizzarlo; inoltre sto finendo la ricerca sulla divisione Venezia, ho due bambini piccoli e non ho tempo per dedicarmi ad altro. Però l’idea piano piano prende forma. Negli anni successivi ricomincio le ricerche, stavolta sulla divisione “Garibaldi”. Vado a Belgrado, all’archivio militare, e a Roma, a quello dello Stato maggiore; vado in Montenegro, per biblioteche, archivi, ma soprattutto per visitare i luoghi dell’occupazione e della Resistenza italiana, da Lipovo a Berane, da Cetinje a Pljevlja.
Quattro anni dopo l’incontro con Bindi, nella primavera del 2013, torno in Toscana per una serie di videointerviste agli ultimi reduci viventi della divisione “Garibaldi”. Questa volta sto lavorando per l’Istituto storico della Resistenza di Firenze e per quello di Torino. Non è ancora previsto un documentario, si tratta di raccogliere le ultime testimonianze, prima che sia troppo tardi. Infatti in quegli stessi mesi realizzo anche la trasmissione per RaiStoria, un viaggio in tre puntate da 15 minuti che diventerà poi un minidocumentario da mezz’ora. Alcune immagini del famoso dvd vengono utilizzate dalla Rai, anche se ancora non è chiaro di chi siano i diritti e dove siano finite le pellicole originali. Il mistero si chiarisce poche settimane dopo, quando, stavolta in Piemonte, intervisto l’ex alpino Tarcisio Pelosin, il primo a sparare contro i tedeschi all’alba del 9 settembre 1943. Da molti mesi ormai sto cercando il diario storico della divisione “Garibaldi”, un vero e proprio archivio partigiano che sembra scomparso nel nulla, insieme alle pellicole. È Pelosin che mi svela il mistero di quella scomparsa. Nel 1996, alla morte dell’ultimo comandante della divisone, l’istriano Carlo Ravnich, esule in Liguria, Tarcisio ha recuperato personalmente quell’archivio, conservandolo per qualche settimana in casa. Ma ha dovuto poi consegnarlo a un avvocato e a una contessa che si sono presentati alla sua porta come esecutori testamentari di Ravnich, pretendendo la consegna dell’archivio che il comandante, monarchico convinto, avrebbe voluto donare alla fondazione Umberto II di Savoia. Pelosin mi mostra anche il lungo elenco dei materiali consegnati, tra cui anche «22 scatole metalliche contenenti film». A questo punto mi metto a caccia dell’archivio Ravnich, delle pellicole e dei documenti, che dovrebbero certamente trovarsi presso la fondazione Umberto II nella villa privata di Maria Gabriella di Savoia a Ginevra. Purtroppo non c’è modo di accedere a tale istituzione: si tratta di un ente privato, chiuso al pubblico, geloso dei propri documenti e impermeabile alle richieste non solo mie, ma anche dell’associazione dei reduci e persino del direttore dell’Archivio centrale dello stato di Roma. Il fallimento non mi ferma: ormai ho raccolto una decina di interviste, ho trovato due enti della rete degli istituti storici della resistenza (Istoreto e Isrt) disposti ad aiutarmi e ho il famoso dvd. Sono pronto a partire: farò il mio primo documentario.
Tutto quel che segue, come si dice, è un’altra storia. Gli operatori e montatori straordinari che mi hanno aiutato a realizzare il film; l’incontro casuale con Massimo Zamboni (ex Cccp e Csi), mio mito musicale dell’adolescenza, che decide di mettersi in gioco e realizza la colonna sonora. Poi le proiezioni, i tour in varie parti d’Italia, la sensazione di una storia che andava raccontata, di immagini straordinarie che andavano rese pubbliche. Le riprese del famoso dvd di Bindi, certo, ma anche altre. È la fine del 2013, il progetto del film è già a buon punto quando mi chiama la nuora di Pelosin. «Ho sentito che parlavi con mio suocero di pellicole d’epoca… ho trovato in cantina due scatole di metallo, di quelle rotonde… mi pare che siano rimaste qui quando erano venuti a prendersi l’archivio di Ravnich… magari ti interessano». È questa forse la svolta, il momento di passaggio tra la raccolta di interviste e il docufilm, l’epifania di quello che da lì a poco diventerà Partizani. La Resistenza italiana in Montenegro. Corro a casa Pelosin, mi rendo conto che si tratta di una parte delle pellicole che sto cercando, trovo un proiettore d’epoca e una location, monto le pellicole, le proietto su uno schermo improvvisato. Non so descrivere l’emozione di quel momento, non so se è possibile percepirla in Partizani. Queste pellicole sono una parte delle riprese effettuate in Montenegro, immagini registrate dallo stesso Ravnich, appassionato di fotografia e di cinema, che si era portato dietro una piccola cinepresa nella sua avventura balcanica. La maggior parte delle famose «22 scatole metalliche» sono però ancora introvabili, probabilmente scomparse nelle cantine della villa di Maria Gabriella, insieme a tutto l’archivio della divisione “Garibaldi”. Anche questa è una storia che andrebbe raccontata: pellicole come carne viva, ricordo di un’epoca di violenza e sopraffazione, di una scelta estrema e dolorosa. Pellicole in viaggio, prodotte forse in Germania, impresse in Montenegro, trasportate fortunosamente in Italia, conservate in cantine, in scatole polverose, segregate infine negli scantinati di una fondazione fantasma. Tre quarti di secolo di storia, la storia piccola di uomini che ho voluto raccontare in Partizani, una raccolta di racconti, a volte minuti, di vita quotidiana, prima e dopo la scelta partigiana. Una storia personale, privata, specifica, ma anche una storia esemplare: quella della guerra, in ogni tempo e in ogni luogo, che sempre porta con sé violenza, dolore, morte. In fondo il mio film può apparire un incompiuto: ci sono le interviste di questi soldati-partigiani, sguardi persi nella giovinezza spezzata dalla guerra; ci sono le immagini di repertorio, sottolineate dalle note emozionanti di Zamboni. E poi ci sono io, con la mia passione e la volontà di capire, e di scoprire, la storia incredibile della divisione “Garibaldi” in Montenegro. È un film che apre tanti interrogativi, che suscita domande, dubbi, ma che non dà risposte.
Le risposte le ho affidate alla carta, come solitamente faccio, provando a interpretare i documenti e a raccontare mediante la parola scritta, nel libro che ho terminato dopo il film e che ho pubblicato con Salerno editore: La Resistenza dimenticata. Sono risposte parziali anche queste, lo so, perché la storia è sempre storia contemporanea e ci saranno ancora infiniti modi per raccontare questa.