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Con Orso nel cuore. Per Eddi, Jacopo e Paolo

Oggi un tribunale deciderà della «pericolosità sociale» di Eddi, Jacopo e Paolo.
Cos’hanno fatto? Da antifasciste/i, hanno sostenuto la lotta dei curdi siriani contro lo stato islamico. E una volta tornate/i in Italia hanno continuato a fare quello che facevano prima, partecipando alle lotte per la giustizia e la libertà. Da antifasciste/i. A due giorni dalla ricorrenza della morte di Orso Tekoşer, caduto combattendo contro l’Isis il 18 marzo 2019, vi proponiamo un testo di Dilar Dirik, ricercatrice e militante curda, pubblicato nel numero 49 di «Zapruder».

Facendo la nostra libertà passo a passo. Autonomia, democrazia e comunità in Kurdistan

di Dilar Dirik

Quando nel 2011 è iniziata la guerra in Siria, qua in Rojava c’era già una comunità organizzata, una cultura preesistente con esperienze di azione politica. C’erano molte persone con esperienza, in grado di offrire analisi intellettuali di ampio respiro e prospettive pratiche per guidare il processo di autorganizzazione. Sapevamo cosa fare. Non ci siamo limitati a reagire a un’evoluzione improvvisa degli eventi. Mentre l’opposizione siriana veniva cooptata, la Free syrian army si frammentava in dozzine di gruppi, e Isis e Al-nusra si prendevano i meriti delle conquiste dei ribelli: la narrazione della guerra in Siria è così passata dalla rivendicazione di libertà e contro la dittatura a una guerra contro il terrorismo. Gli altri gruppi armati passavano da un fronte all’altro con le loro armi, mentre noi, nel frattempo, liberavamo territori, li mettevamo in sicurezza, e stabilivamo immediatamente i consigli popolari.
Avevamo un’esperienza decennale cui fare riferimento, e questo ci dava la possibilità di credere fermamente nel cambiamento della società. Avevamo accumulato un vasto ventaglio di conoscenze per interpretare la politica globale e analizzare le nostre opzioni. La nostra battaglia era ideologica, non motivata dalla brama di potere. La nostra priorità era quella di promuovere la volontà popolare in tutte le comunità, non di fare gli interessi di una nazione o di un gruppo sociale specifico. Le nostre vittorie non si misuravano con le terre che conquistavamo, ma a partire dal significato rivoluzionario di una madre senza istruzione in grado di diventare una guida per la sua comunità.
Questa prospettiva rivoluzionaria ha accresciuto la nostra forza nel combattere e nel difendere la nostra terra. Per noi, la posta in gioco era il cambiamento sociale radicale. Fin dall’inizio i nostri avversari dicevano: «i curdi vogliono uno stato in Siria». Perché la loro logica autoritaria non gli permette di andare oltre l’orizzonte dello stato come liberatore. Nella loro logica, la coesistenza delle persone è impossibile, una farsa. Per noi invece è la ragione per cui combattiamo e moriamo.

Hediye Yusif (co-presidentessa del cantone Jazeera del Rojava), intervistata nel 2015; intervista conservata presso l’archivio personale dell’intervistatrice.

Con l’assedio di Kobane nell’autunno del 2014, una storica battaglia che ha coinvolto per quasi cinque mesi le Unità di difesa popolare (Ypg) e le Unità di difesa femminili (Ypj) contro il cosiddetto Stato islamico (Is), il termine “Rojava” è entrato nel vocabolario di radicali e progressisti come il primo tentativo di organizzazione autonoma e alternativa su larga scala dopo la rivoluzione zapatista del 1994. Gli sforzi rivoluzionari nella maggior parte dei territori curdi settentrionali si sono prodotti a partire dal 2012, nel mezzo della guerra siriana. Questi hanno proposto un nuovo orizzonte ai movimenti antisistema per immaginare forme creative di costruire il potere e produrre nuovi spazi di vita egualitari nei quali sviluppare politiche alternative. Nonostante le difficili condizioni e la sua esistenza precaria, la rivoluzione del Rojava ha ispirato un dibattito fra attivisti di tutto il mondo rispetto alle questioni dell’autonomia, dell’organizzazione, della democrazia. In particolare, l’insistenza del movimento sul fatto che «la liberazione della donna è la misura della liberazione della società» ha attirato l’interesse delle femministe nella lotta delle donne in Kurdistan.

Come vedremo, e come suggerito dalla citazione in apertura, la creazione di sfere autonome di vita con l’ambizione di offrire un orientamento valoriale differente, più giusto rispetto a quello del capitalismo globale, non richiede solamente l’adesione a certi principi, ma anche una lungimiranza filosofica, un’organizzazione politica e una militanza consapevole per difendere la propria terra e i propri valori, per quanto possa apparire difficile.

In questo articolo mi concentrerò sulla riconcettualizzazione di alcuni termini comunemente utilizzati nel discorso del Movimento di liberazione curdo, come quello di “autonomia”, per comprendere la sua capacità difendere i propri valori e le proprie strutture. Per farlo, inizierò esplorando il portato storico e ideologico da cui attinge questa lotta per poi presentare la sua proposta radicale per il ventunesimo secolo.

Radici universali della lotta per la liberazione

Il Pkk fa riferimento a differenti tradizioni per costruire il significato della propria storia e delle teorie e pratiche che adotta al momento. Fra queste, il contributo storico delle lotte socialiste e anticoloniali, i movimenti di liberazione femminile internazionali, e le storie locali di resistenza e libertà da regimi dispotici. Come illustra Elif Ronahî, una delle prime donne coinvolte nella guerriglia del Pkk:

Quando è emerso il Pkk, c’era ovviamente il riferimento al socialismo nel mondo, un periodo di lotte enormi a partire dalle rivoluzioni russa e cinese, così come ai movimenti di liberazione nazionale, soprattutto dagli anni cinquanta. Naturalmente, queste lotte rivoluzionarie degli oppressi per la liberazione dei paesi coloniali hanno influenzato il nostro pensiero e il nostro movimento, dato che anche noi siamo colonizzati. Anche noi avevamo un approccio di resistenza al colonialismo per formare il nostro stato curdo. Ma a partire da quando la nostra lotta ha raggiunto un livello importante, si è allargata nei suoi obiettivi ed è diventata sempre più sociale, specialmente nel 1999, abbiamo valutato nuovamente le realtà del mondo e ci siamo chiesti in che modo avevamo avuto un impatto sociale e politico, o che soluzioni avevamo proposto. Già dal 1990, dopo il collasso del socialismo reale, la nostra leadership e il nostro movimento consideravano queste domande come parte del nostro percorso politico.

Elif Ronahî (combattente), intervistata nel 2015; intervista conservata presso l’archivio personale dell’intervistatrice.

I quadri del Pkk sostengono che gli elementi centrali del loro paradigma attuale, soprattutto la liberazione femminile e la solidarietà internazionale contro il nazionalismo, siano stati “nel lievito del partito” fin dall’inizio. Akkaya e Jongerden (2011) mettono in discussione l’idea, spesso riproposta, che il Pkk sia una deviazione nazionalista della lotta socialista nel paese, e descrivono in dettaglio come il Pkk sia “nato a sinistra”. I rivoluzionari curdi intorno a Öcalan furono influenzati dall’eredità di rivoluzionari turchi torturati e giustiziati nella loro lotta antimperialista (fra gli altri: Deniz Gezmis, Hüseyin Inan, Yusuf Aslane Mahir Cayan) e dal loro sostenere una lotta internazionale anticapitalista, sullo sfondo dei movimenti rivoluzionari giovanili degli anni sessanta: anche per loro la liberazione era legata alla libertà dei lavoratori e degli altri oppressi. Sakine Cansız, una delle co-fondatrici del Pkk, ricorda nelle sue memorie (2018) la visita di un membro dei Rivoluzionari curdi – il gruppo col quale avrebbe in seguito fondato il Pkk – nella sua casa di famiglia per parlare con lei e con suo fratello. Quel giorno i due adolescenti scoprirono di essere curdi. In quell’occasione, l’esperto militante affermò che la nazione turca non era loro nemica, che i turchi erano fratelli e amici dei curdi, ma che questi sperimentavano delle condizioni differenti, ragione per la quale era necessaria una specifica organizzazione curda. La stessa scelta di formare un partito era vista da Öcalan e dagli altri fondatori del Pkk come una decisione consapevole per andare nella direzione di formulare un’identità libera e autonoma rispetto alle due principali alternative dell’epoca: la politica del “nazionalismo curdo primitivista” o le organizzazioni della sinistra che subordinavano la questione curda alla prospettiva rivoluzionaria generale, ma che nei fatti perpetuavano lo “sciovinismo sociale” turco. In seguito all’assassinio di Haki Karer, membro turco dei Rivoluzionari curdi, da parte di un altro gruppo nel 1977, Öcalan e il suo gruppo decisero di formare il partito nel 1978, in una casa di fango diroccata nel villaggio di Fis, vicino a Amed.

Dopo una decade di lotta armata per uno stato curdo indipendente e socialista, negli anni novanta iniziarono a svilupparsi degli importanti dibattiti sulla teoria e la prassi, sulla base di eventi tanto regionali quanto globali. Dall’inizio degli anni novanta, il Pkk controllava ampi territori del Kurdistan rurale, prima che i turchi iniziassero con la distruzione sistematica dei villaggi. Oltre alla questione del controllo territoriale, la guerriglia dispersa e basata su unità operative attiva in questo periodo richiedeva una riflessione sull’autogoverno. Nel frattempo, lo stato turco aveva iniziato a collaborare con partiti del Kurdistan iracheno avversari del Pkk. Inoltre, l’emergere di un’autonomia parastatale all’inizio di questi anni permetteva di pensare a come avrebbe potuto essere uno stato curdo. Tutti questi fattori, insieme al declino globale delle lotte di liberazione nazionale, influenzarono la discussione del Pkk sull’indipendenza. Dunque, il cambiamento di paradigma del Pkk ha le sue radici a metà anni novanta, quando la leadership del partito criticò il fallimento del socialismo di stato, sullo sfondo del collasso dell’Unione sovietica. In retrospettiva, i quadri sostengono di non aver avuto al tempo una chiara comprensione del significato e della natura di quelle proposte di trasformazione, e in particolar modo dell’idea di abbandonare l’obiettivo di uno stato nazionale indipendente. Questa esplicita rinuncia alla statualità fu criticata dagli opponenti più conservatori del Pkk, e considerata alla stregua di un tradimento della lotta. Ciò nonostante, una rilettura degli scritti di Öcalan degli ultimi anni rivela un’insistenza costante sul tema della libertà come dissociazione da tutte le forme di dipendenza e di colonizzazione. In quel periodo, l’organizzazione autonoma femminile intraprese i primi passi sulle montagne.

Gli scritti dal carcere di Öcalan, nei quali viene affrontato più chiaramente il tema della violenza implicita dello stato e delle sue radici patriarcali, crearono scontento e confusione in alcuni membri dell’organizzazione, di cui metteva in discussione gli assunti rispetto al socialismo, al marxismo-leninismo e alla sua concezione di stato – la sua raison d’état. Dalle parole di Elif Ronahî emerge un’immagine abbastanza chiara del periodo:

Vista la radicalità della sfida ai nostri principi fondanti, alle idee che avevano strutturato la nostra lotta fino a quel momento, il periodo immediatamente successivo all’annuncio del cambiamento di paradigma fu molto complicato. «Stiamo abbandonando il Kurdistan?». Con le nostre discussioni sulle vittorie e gli errori del socialismo reale, e sui modi in cui aveva interpretato e messo in pratica la democrazia, il socialismo e la libertà, arrivammo a mettere in discussione se questi sforzi statali avessero contribuito a risolvere i problemi sociali delle persone e se li avessero portati a essere più vicini alla libertà. E che dire della liberazione femminile? Quali erano le analisi storiche e sociali del socialismo reale? Che gruppi sociali escludiamo quando ci focalizziamo sul proletariato come soggetto rivoluzionario? Quali erano gli effetti del socialismo reale e della liberazione nazionale sulle nostre personalità e mentalità? Ci impegnammo in una profonda autocritica, affermando che non abbandonavamo gli ideali di libertà, cambiando però il nostro paradigma, la filosofia, i metodi, i mezzi, con in mente la trasformazione delle condizioni globali. Rinnovammo la nostra promessa di libertà attraverso una teoria e una prassi più realiste e radicali. Mentre il nostro precedente paradigma era limitato ai curdi, quello attuale si rivolge a tutto il mondo. Questo è un cambiamento ideologico, e come tale richiede una nuova strategia, un nuovo sistema, un nuovo insieme di alleanze.

Elif Ronahî (combattente), intervistata nel 2015; intervista conservata presso l’archivio personale dell’intervistatrice.

Spesso il “confederalismo democratico”, proposto da Öcalan dal 2005, è stato attribuito alla sua attenzione ai teorici radicali, mentre una minore attenzione è stata posta sui modi in cui questo sistema sociale, economico e politico, basato su «democrazia dal basso, liberazione femminile e ecologia», e costruito attraverso strutture dal basso come comunità, assemblee, congressi, cooperative e “accademie”, sia saldamente radicato nella storia di libertà della regione.

Campo rifugiati di Makhmour, Kurdistan iracheno 2015; il campo è gestito in autonomia dalle comunità che supportano il Pkk nella zona. I villaggi di queste comunità furono distrutti dai turchi nel corso degli anni novanta. Si può vedere questo come un esempio di Autonomia democratica precedente a quello del Rojava (ph: Dilar Dirik).

Innanzitutto, per comprendere la natura contemporaneamente locale e globale del confederalismo democratico, è necessario guardare la storia della regione con un atteggiamento antiorientalista e antimodernista. Sistemi confederali, comunità di intenti (comprese quelle religiose o profetiche), filosofie antiautoritarie e movimenti popolari hanno radici antiche nell’area. La natura rurale della maggior parte del territorio è una ragione per spiegare l’incapacità che il modo di produzione e le relazioni capitaliste hanno incontrato nel radicarsi nei modi in cui la vita viene condotta e riprodotta. Infatti, nel secolo successivo al collasso dell’impero ottomano, l’importazione della nozione di cittadinanza nazionale, con le sue concezioni individualistiche e moderniste del soggetto e dell’appartenenza, è stata catastrofica per le relazioni, la psicologia, e in generale, gli universi personali.

Negli scritti del carcere, Öcalan propone di considerare la storia come composta da due correnti dominanti: la “civiltà dello stato” e la “civiltà democratica”. Questo in aperta critica con le concezioni lineari e progressive della storia, fallacia di cui i curdi accusano il marxismo-leninismo, che producono sia direttamente che indirettamente meccanismi e sistemi che promuovono la crescita senza limiti, l’espansione dei mercati, e regimi burocratici e gerarchici. Mentre la “civiltà dello stato” è la storia fatta dagli oppressori, dai dominanti, dagli egemoni, l’altra è la storia resiliente degli oppressi, dei lavoratori, dei marginalizzati, dei creativi, delle donne, dei giovani – le forze in grado di rigenerare e riprodurre la società. Questa distinzione ci permette di analizzare la storia non soltanto come lotta di classe, ma come dialettica dominio/libertà (di cui la lotta di classe è una parte).

In accordo con una concezione naturalistica o ecologica della dialettica, le tesi non si annullano vicendevolmente, ma raggiungono una simbiosi (Bookchin 2005 [1982]). Se la flessibilità crea libertà, la libertà a sua volta crea diversità. Allo stesso modo, l’istituzionalizzazione della società gerarchica non è dettata dalla necessità, ma da un atto di forza. Questo aspetto è cruciale quando consideriamo lo spazio che apre alla “opzione della libertà”, contrapposta alle ideologie basate sulla gerarchia e a quelle scuole che sostengono che la dominazione e la gerarchia siano non solo necessarie, ma un vero e proprio destino. Se l’indeterminazione, come dimostrato dalla fisica quantistica, è la forza trainante dell’universo ,la libertà potrebbe essere una parte fondamentale dello sviluppo ecologico dell’evoluzione. Il conflitto è il fattore decisivo per determinare la direzione del mutamento (Öcalan 2015). Quindi, l’opzione della libertà, resa necessaria dalla dialettica dell’esistenza, è sempre disponibile, ma dipende in maniera fondamentale dalla lotta. Bookchin utilizza il termine “ecologia sociale” per definire le società organiche, come quelle del periodo neolitico in cui non erano presentile classi economiche e uno stato politico, e nelle quali esisteva una «forte solidarietà interna e con il mondo naturale» (Bookchin 2005 [1982], p. 110). Sostiene anche che la concettualizzazione delle differenze nelle società organiche era in termini di diversità e unicità, non nelle nozioni gerarchiche di inferiorità e superiorità.

Per le comunità oppresse, che affrontano sistematicamente gli ostacoli e la criminalizzazione da parte di quello stesso sistema che pretende di difendere i diritti umani, non c’è alcuna valida ragione per sottomettere la propria volontà a quella di queste istituzioni e burocrazie. La nozione diretta e concreta di giustizia derivante dalle (a volte antiche) pratiche organiche di cura del benessere non solo sono corrotte dai meccanismi e dalle strutture pseudo-democratiche, ma sempre più lasciano il passo a quello che Arendt chiamava «governo di Nessuno» (1969).

La modernità capitalista, come definita da Öcalan, è giunta nella regione principalmente attraverso l’imposizione coloniale dello stato nazione. Questo ha costruito da un lato un sistema economico e politico di sfruttamento e dominazione, mentre allo stesso tempo portava un attacco ai mondi spirituali e morali, comportando la rottura degli antichi vincoli di lealtà, delle relazioni, delle identità. Vennero promossi nuovi bisogni e soggettività, stretti alleati dei nuovi stati nazione e complici con un sistema-mondo imperialista in mano agli interessi capitalisti. La distruzione di interi universi, ottenuta attraverso la distruzione delle economie comunitarie, la migrazione verso i centri urbani, le guerre e i conflitti, i cambiamenti demografici, insieme all’istituzione di regimi autoritari, ha indebolito la capacità delle persone di sviluppare la reattività per proteggere sé stesse, le proprie comunità e le proprie terre. È quindi fondamentale che la società accresca la sua capacità di prendersi cura dei suoi mezzi per nutrire, proteggere e amministrare sé stessa – funzioni di cui normalmente lo stato ha il monopolio – in modo da contribuire a renderlo irrilevante.

Öcalan ritiene che, senza un’adeguata analisi della modernità e dello stato, non sia possibile confrontarsi seriamente con la questione del potere, e quindi della liberazione. Una delle principali tragedie delle lotte del socialismo di stato, di quelle per la liberazione nazionale e di quelle socialdemocratiche, così come di movimenti antisistema (femminista, ecologista, anarchico) è la loro incapacità di mettere in discussione le modalità in cui le loro visioni e i loro obiettivi sono imbevuti da una concezione modernista della vita. L’incapacità di fare i conti con il carattere intrinsecamente monopolista dello stato o con un’idea di progresso incurante della devastazione ambientale, è una delle più grandi limitazioni anche e specialmente del marxismo-leninismo. D’altro canto, i movimenti e le lotte che hanno effettivamente cercato di combattere la natura patriarcale, antiecologica e autoritaria dello stato e del capitalismo, non sono stati in grado di creare alternative sostenibili che permettessero alle comunità di agire contro questi ampi sistemi di distruzione e oppressione. Mentre cercano di creare enclaves di autonomia, i movimenti antisistema (con tuttala loro varietà: dalle occupazioni radicali, alle forme di organizzazione anarchiche, dai movimenti identitari alle lotte ecologiste e ai sindacati, e così via) spesso incorrono nel rischio di distanziarsi dal più ampio contesto sociale, perdendo così la capacità di costruire gli strumenti necessari a smantellare le forze a cui si oppongono.

Come vedremo, una riconcettualizzazione della democrazia e dell’autonomia richiede di allontanarsi da quelle letture rivoluzionarie del mutamento sociale che reificano la società, intendendola come una massa senza volontà che può essere direzionata e guidata seguendo un grande progetto generale, seppure compiuto in nome della liberazione. Piuttosto, la società deve essere presa come punto iniziale e fine quando si parla della possibilità di trasformazione. Un concetto di liberazione non statale, anzi antistatale, non dovrebbe quindi considerare la società e le comunità semplicemente come una “base”, ma equipaggiarle con la consapevolezza di auto-governarsi. In effetti, nonostante quanto si afferma in tanta storiografia, le comunità – e in particolar modo quelle in aree remote (ad esempio di montagna) – presentano antiche tradizioni di autorganizzazione delle proprie strutture di vita comunitaria, senza alcun bisogno di autorità esterne. Questo è lo sfondo filosofico e storico entro il quale migliaia di assemblee e comunità si sono formate in differenti parti del Kurdistan e nella diaspora, a partire dal 2005.

Il confederalismo democratico non è un “sistema curdo”, ma piuttosto è pensato per la regione nel suo complesso come strategia per superare conflitti apparentemente antichi. La risoluzione della questione curda appare come una questione chiave per la democratizzazione della regione, a causa del suo carattere internazionale e transnazionale. Una soluzione democratica e giusta della situazione curda nella realtà del Medio Oriente richiede quindi la capacità di trascendere lo stato nazione come istituzione di potere politico, economico e militare. Questo a sua volta implica molte attività sul piano intellettuale, sociopolitico e militante.

Contro lo stato-nazione: società politica etica e nazione democratica

Öcalan definisce l’etica come consapevolezza sociale liberatoria, e la politica come l’arte della trasformazione sociale attraverso la pratica e l’organizzazione (2010a, p. 455). In contrapposizione all’omogeneizzazione della vita sotto lo stato nazione capitalista, devono essere costruite delle «società etiche e politiche» per affermare la capacità delle comunità di stabilire i propri termini di esistenza in tutti i campi della vita. Queste, a loro volta, formano parte della «Nazione democratica». Nel pensiero di Abdullah Öcalan (2010b, p. 46-47):

l’etica può essere definita come il complesso delle attitudini cui una società si afferra quando viene creata. Sono l’interezza delle misure, degli sforzi, delle azioni che vengono intraprese dalla società naturale allo scopo di nutrirsi, riprodursi e difendersi. Nel momento in cui queste diventano tradizione, si è formata un’etica. E dato che non esiste società senza riproduzione, protezione e nutrimento, posso dire che non esiste nemmeno una società priva di etica. La politica è un concetto differente, ma strettamente connesso all’etica. Quello che la distingue dall’etica, è il suo essere un’attività quotidiana. L’etica opera attraverso la tradizione, attraverso formule standard, mentre la politica costituisce il novero dei problemi quotidiani che una società deve affrontare e su cui deve prendere decisioni. Nella misura in cui queste decisioni vengono istituzionalizzate e diventano parte delle tradizioni etiche, diventano esse stesse norme etiche.

In altri termini: «mentre l’etica tradizionalmente costituisce una cornice per la politica, la politica allarga e affina questa cornice continuamente attraverso le sue decisioni». Öcalan distingue fra il sistema di potere gerarchico dello stato, basato su «decisori amministrativi» monopolistici, unilaterali, e i loro meccanismi; e quella che chiama «vera politica», che può essere messa in pratica solamente se tutti i settori della società sono attivamente coinvolti. Quindi la società stabilisce i propri modi di vita, utilizzando un’etica centrata sulla comunità, la solidarietà e la pratica politica attiva, contrariamente alla passività della cittadinanza modellata sulla modernità capitalista. Sostiene che la politica non è possibile senza società, quindi questa deve necessariamente essere democratica, e di conseguenza, etica. Una società senza democrazia non può essere politica, e quindi etica (Öcalan 2010b, pp. 46-47).

Ilham, una amministratrice della Casa delle donne (mala jin) di Qamishlo, è una donna sui sessanta anni che incontro durante una formazione all’Accademia delle donne di Rimelan, e mi spiega l’importanza di cambiare la mentalità della comunità e allo stesso di assicurarsi che questi cambiamenti siano compresi e condivisi:

Stiamo conducendo una battaglia per creare case egalitarie e democratiche. Possiamo dire che, anche se c’è ancora molto da fare, già adesso le case vengono costruite in maniera differente. Le famiglie vengono influenzate da quello che è stato già fatto. Le donne lasciano presto le loro case e ci tornano in seguito. Ad esempio, è da un mese che stiamo facendo questa accademia, ma nessuno è contrariato. Stiamo facendo la nostra libertà passo a passo. A causa del conservatorismo, soprattutto gli uomini all’inizio ci avevano rifiutate e hanno opposto resistenza. Ma hanno cominciato a vedere sempre di più che facevamo delle cose buone. Spieghiamo sempre che non siamo contro gli uomini, che vogliamo creare un’amicizia fra eguali. Adesso arrivano persino spontaneamente, gli uomini. Il nostro obiettivo è educare la nostra gente in questo modo, secondo il principio di trattarci bene l’un l’altra, soprattutto in famiglia, e dobbiamo iniziare dalle donne.

Ilham (amministratrice in una casa delle donne), intervistata nel 2015; intervista conservata presso l’archivio personale dell’intervistatrice.

La società etico-politica riconosce la flessibilità delle società stesse, e la loro possibilità di trasformarsi e cambiare; infatti questa è l’espressione di un riflesso della vita, della sua diversità e della sua mobilità, ed è antitetica all’insistenza dello stato-nazione sull’uniformità. L’apertura al cambiamento è, in un certo senso, anche la condizione per una vita libera dalla colonizzazione dello stato, perseguita in nome dell’unità che a sua volta alimenta la guerra, il conflitto etnico, il fascismo. Per i curdi sta emergendo la possibilità di giocare un ruolo cruciale nella creazione di una vita differente, avendo sperimentato la civiltà classista e statale in maniera solo superficiale, grazie alla loro caratteristica mancanza di stato, alle loro strutture tribali, alla mancanza di urbanizzazione, e così via. Questi elementi di “arretratezza” si traducono invece nella possibilità di sviluppare una politica veramente democratica.

Più queste comunità sono in grado di dare un senso a quello che gli accade intorno (fino a riuscire a interpretare adeguatamente la – ed intervenire sulla – politica globale), più saranno in grado di difendersi da attacchi economici, ideologici e fisici. Questo è diventato tanto più evidente quando, nel 2014, intere comunità sono state in grado di difendersi dall’Isis, mentre il mondo osservava silenziosamente. La società democratica emergente, organizzata eticamente e politicamente, sarà in grado di costruire la «modernità democratica» come una «libertà utopica dell’uguaglianza nelle differenze». La «modernità democratica» è una posizione ideologica e una prassi politica, ma anche una lotta per dare senso, per la verità, preoccupata di comprendere, analizzare e risolvere problemi sociali reali.

La nazione democratica restituisce alle società e alle comunità la capacità di rigenerare autonomamente le loro culture, i loro mondi, i loro modi di vivere, all’interno di una prospettiva di democrazia radicale – opposta a quella capitalistica. La nazione democratica, basata sulla liberazione e la solidarietà, permette di riconcettualizzare la nozione di appartenenza, promuovendo una nuova socialità basata sull’etica e sulla politica piuttosto che su identità etniche o religiose. Questo non implica una negazione delle differenze: le identità religiose, etniche, culturali sono determinanti per la vita quotidiana delle persone quanto i fattori geopolitici, e vanno quindi tenute in considerazione. Il termine nazione è volutamente lasciato aperto, per permettere a una molteplicità di configurazioni di lingue, religioni, culture, e altre forme di appartenenza di giocare un ruolo nella risoluzione dei problemi: «contrariamente a una lettura della nazione in termini di stato, lingua, religione, setta e etnia, la nozione molteplice di modernità democratica permette di costruire i presupposti per la pace e la fratellanza che sono necessari per la cultura del Medio Oriente» (Öcalan 2010b, p. 220).

Guerrigliere in montagna (ph: Dilar Dirik, 2015)

Tribù, sette, clan, e altre forme di vita sociale non devono essere considerati come ostacoli da superare in quanto obsoleti, ma piuttosto come «valori sociali fondamentali, della cui esistenza ci dobbiamo giovare, democratizzandoli» così che possano svolgere una funzione simile a quella delle istituzioni scolastiche, delle accademie, o delle organizzazioni della società civile (Öcalan 2010b, p. 265). Mentre la nazione democratica consiste in una moltitudine di culture e identità, la società etico-politica dovrebbe essere vissuta il più possibile localmente, altrimenti una omogeneizzazione della cultura e dell’identità potrebbe compromettere i bisogni e gli interessi locali e regionali. La formazione di unità locali autonome all’interno di queste nazioni comporta il coltivare la democrazia alle sue radici, su una scala locale, permettendo allo stesso tempo l’autodeterminazione rispetto all’economia e alle altre questioni: «esattamente come l’essere-nazione, nelle mani dello stato, è la negazione della democrazia regionale, locale e individuale, l’essere-nazione democratico è la democratizzazione del locale, del regionale, e dell’individuale» (Öcalan 2010b, p. 256).

Queste componenti sono in una relazione confederale fra di loro, nessuna è superiore alle altre, ma piuttosto sono preoccupate ognuna di assolvere al proprio ruolo, sulla base dei propri bisogni attraverso l’organizzazione e in una relazione di lotta. L’autorealizzazione individuale, l’autoconsapevolezza, l’autodifesa sono quindi condizioni necessarie per la liberazione della società; la liberazione delle donne è una precondizione per la possibilità di liberazione della mascolinità e delle relazioni patriarcali; l’esistenza autodeterminata di una comunità, è una forza dinamica che democratizzerà l’intero paese. Non solo queste relazioni dialettiche sono complementari, ma nei fatti, costituiscono centri di lotta e conflitto. Infatti, è solamente attraverso la lotta, perfino con i propri alleati, che l’autonomia e la democratizzazione possono realizzarsi.

Mettere le donne al centro della lotta di liberazione è una delle caratteristiche fondamentali del paradigma di liberazione del movimento curdo. Invece che interpretare il patriarcato come un prodotto collaterale di un sistema di classe, l’idea è che la perdita di status femminile abbia creato una discontinuità storica devastante, che ha avuto conseguenze non solo sulle donne ma anche sulla società nel suo complesso. La storica femminista Gerda Lerner, nel suo lavoro sulle «origini del patriarcato» (1986), sostiene che, anche se tanto gli uomini quanto le donne erano oppresse da un sistema di classe all’emergere dello stato, queste ultime sono state colpite fin dall’inizio in maniera differente dagli effetti della classe. Il patriarcato è una condizione necessaria per altre forme di oppressione. Come sostengono studiose quali Maria Mies (2014[1986]) e Silvia Federici (2004), il capitalismo ha un bisogno strutturale di mercificare e sfruttare il lavoro delle donne e la loro stessa esistenza. Infatti, come sostiene Öcalan, il patriarcato è centrale nella mancanza di libertà umana e costituisce il punto di origine di una storia di dominazione lunga 5.000 anni. Senza l’esplicito assoggettamento delle donne e di tutto ciò che viene considerato femminile e materno, nessuna delle altre forme di oppressione potrebbe realizzarsi.

Quindi tutti gli sforzi per l’autorganizzazione devono rendere credito alle lotte e alle strutture decisionali autonome delle donne, in quanto questo è uno dei pilastri del paradigma della libertà. Infatti, la liberazione delle donne deve essere vista come una guida e una prospettiva fondamentale, attorno alla quale altri sforzi di liberazione devono gravitare. Se da un lato l’autorganizzazione femminile, autonoma e separata, in tutte le sfere della vita – inclusa quella dell’autodifesa – è vitale per garantire la liberazione della società dal patriarcato, dall’altro è cruciale che le donne partecipino anche alle strutture generali, miste, sulla base del principio per cui «a uguale partecipazione, uguale rappresentanza».

Per Narîn, una combattente del Pkk che ho intervistato nel 2015, c’è una relazione dialettica fra liberazione del sé e democratizzazione dell’oppressore: «ogni giorno combattiamo contro i nostri compagni maschi. Ogni giorno, fra donne, combattiamo il sistema che c’è in noi. Anche se abbiamo le nostre strutture, non perdiamo di vista quelle generali. Altrimenti, non saremmo in grado di cambiare la società o l’uomo. Partecipiamo nelle strutture generali per salvare l’uomo dal sistema esistente, dalla mentalità egemone della violenza» [Narîn (combattente), intervistata nel 2015; intervista conservata presso l’archivio personale dell’intervistatrice].

Contro il regime antieconomico del capitalismo, una società veramente economica, antimonopolistica, ecologica deve organizzarsi contro l’industrialismo, non da ultimo per salvare la terra e le sue forme di vita dall’estinzione.

L’ecologia, in questo senso, non è soltanto uno dei pilastri fondamentali fra quelli cui aspira il confederalismo democratico: la confederazione democratica è organizzata ecologicamente, nel modo in cui i diversi elementi del sistema sono in relazione gli uni con gli altri. Le varie cellule, autonome e autodirette, comunicano e si connettono come parte di un ecosistema ampio, che non solo è fonte di vita per ognuno dei suoi componenti, ma che a sua volta si appoggia sulla specifica natura delle varie sottounità.

Quindi il confederalismo democratico non deve essere inteso solo come un progetto territoriale o un sistema amministrativo. Piuttosto, questa organizzazione è soprattutto una mentalità, un modo di pensare la società in maniera non oggettivante. Questo implica non solo dissociare nozioni come autonomia, indipendenza, e libertà da quelle di burocrazia statale o istituzione, a favore di una capacità attiva di risolvere i problemi dal basso, ma anche utilizzare autonomia, indipendenza e libertà per pensare sé stessi e la vita, e renderle parte della creazione di relazioni.

Alla luce di questa analisi, l’essere-curdi è definito come l’essere una traccia di una società che ha resistito all’assimilazione della modernità capitalista, ma che allo stesso tempo si è vista strappare i propri mezzidi vita, culturali, economici e di difesa dal colonialismo degli stati, e che quindi ha bisogno di libertà. La libertà curda può realizzarsi attraverso le dinamiche interne autodeterminate di ognuno, rafforzate dalla consapevolezza dell’azione etico-politica, all’interno di una socialità fondata sulla vita autonoma, senza delegare a soggetti esterni i propri mezzi di produzione, di conoscenza, di autodifesa, e la propria politica. Questa esistenza, nella modernità capitalista e coloniale, può avvenire solamente come lotta. Lotta che, quando intrapresa consapevolmente, si esprime nell’autorganizzazione: «la consapevolezza dell’identità di ciascuno è basata sulle realtà storiche e sociali. La consapevolezza organizzata conferisce forza, la forza porta alla libertà. Se le persone non si organizzano e diventano più forti, non potranno liberarsi. Però se si libereranno, dovranno necessariamente raggiungere un qualche sistema di autogoverno. Perché liberarsi senza governarsi è contrario alla ragione e alla morale» (Öcalan 2010a, p. 498).

La base popolare del movimento di liberazione curdo ha dimostrato la propria volontà di combattere fino alla morte nel nome della libertà, e di essere in grado di mobilitare rapidamente centinaia di migliaia di persone ovunque nel mondo nel giro di poche ore in occasione di eventi cruciali. Questo deriva dalla relazione dialettica fra società e politica che è stata costruita dalla lotta e dagli scopi del movimento. «Posso esistere solo nell’azione», è un modo per parafrasare uno degli slogan comuni nel discorso politico del Kurdistan: «Berxwedanjiyan e», la resistenza è vita.

Conclusione

In questa fase storica, il movimento di liberazione curdo intorno a Öcalan ha affermato il proprio punto di vista, e stabilito il proprio progetto per un Medio Oriente in pace, sostenibile, giusto, egalitario. Lo ha fatto in modo chiaro, sia dal punto di vista della teoria che della prassi. In opposizione allo stato nazione – che contribuisce a dividere le persone, a mercificare le donne, a lasciare le persone senza possibilità di autogoverno – il movimento curdo propone la nazione democratica come soluzione in grado di raccogliere tutte le persone nella loro diversità, nella loro ricchezza, nella loro bellezza: non si fonda sul negare le culture degli altri, ma sul reciproco rafforzamento per intrecciare una vita in comune. Dalla più piccola unità, dal più piccolo villaggio o quartiere, l’autonomia democratica è pensata per permettere alle persone di prendere e implementare le proprie decisioni. Questo paradigma è proposto non solamente per i curdi, ma anche per tutte le comunità della regione e oltre. La democrazia globale deve essere mobilitata e diffusa contro le tendenze monopoliste e centralizzatrici dei sistemi statali. Lo stato nazione, etnocida e genocida, deve essere superato attraverso un concetto di nazione basato sulla diversità. Tutte queste azioni sono pensate per sviluppare azioni concrete. La politica democratica quindi espone le differenze radicali fra un’etica condivisa incentrata sulla risoluzione dei problemi e lo stato e il potere come strumenti di dominazione, sfruttamento e gerarchia. In questo senso, la democrazia è l’abilità della società non statale ad amministrare sé stessa senza stato.

La formula «democrazia più stato» è un compromesso per riconoscere lo stato come una autorità pubblica generale, mentre allo stesso tempo l’organizzazione attraverso l’azione diretta punta alla sua marginalizzazione, riducendolo alle funzioni basiche della produzione e della sicurezza, essendo l’obiettivo «un Kurdistan democratico, una federazione democratica del Medio Oriente, e un congresso globale democratico». In una prospettiva regionale, la posizione dello stato come prima istanza legittima dell’azione politica è messa in discussione, ma sembra comunque destinata a durare. Inoltre, in un contesto di guerra e conflitto, la fattibilità di queste proposte e di questi sforzi alternativi è più che precaria. Se questa prospettiva verrà adottata e promossa da altre comunità regionali e internazionali, o meno, resta una questione aperta e un terreno di lotta.

In conclusione, possiamo riaffermare che la libertà non può essere sostenibile in isolamento, ovvero che la libertà del Kurdistan è condizionata dalla democratizzazione della regione. Così come la liberazione femminile dipende dalla trasformazione maschile e dalla creazione di una “coesistenza libera”, la sopravvivenza di un sistema di vita libero e autonomo come quello del Rojava è legato agli sviluppi delle lotte di liberazione internazionali. In secondo luogo, il risultato di ogni battaglia dipende dal livello di conflitto. In questo senso, possiamo dire che il futuro della regione, inclusi i risultati raggiunti per le donne, sono strettamente collegati all’internazionalismo e alle lotte globali.

Bibliografia

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Öcalan, A.
(2010a) Jenseits von Staat, Macht und Gewalt. Mezopotamien Verlag, Neuss.
(2010b) Demokratik Uygarlık Manifestosu IV: Ortadoğu’da Uygarlık Krizi ve Demokratik Uygarlık Çözümü. Mezopotamien Verlag, Neuss.
(2015) Manifesto for a Democratic Civilization, vol. I, Civilization – The Age of Masked Godsand Disguised Kings, New Compass Press, Porsgrunn.

(In copertina: Dilar Dirik, Monte Sinjar 2015; protesta Yazidi in occasione dell’anniversario della strage compiuta da Isis; trad. dall’inglese: Tommaso Frangioni)

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