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Orso Tekoşer, in memoriam

In occasione del primo anniversario della morte di Lorenzo ‘Orso Tekoşer’ Orsetti – internazionalista e antifascista caduto lottando per il Rojava – rendiamo accessibile l’editoriale del 49 di «Zapruder», numero a lui dedicato.
Intanto ieri è arrivata l’ennesima brutta notizia: il Tribunale di Torino ha deciso che Eddi, combattente volontaria delle Ypj, è «socialmente pericolosa». Invitiamo tutte/i a far sentire la propria voce contro questa decisione e seguire gli aggiornamenti del coordinamento Rojava Resiste.
Noi stiamo con chi combatte l’Isis!

Archeologia del presente. Per un’altra geografia del lungo ’68

di Andrea Brazzoduro, Tommaso Frangioni, Alessandro Santagata

A fronte dello scomposto vociare di sovranismi, identità, popoli, nazionalismi e regionalismi escludenti che caratterizza il tramonto delle categorie politiche novecentesche, questo numero di «Zapruder» prova la mossa del cavallo. Si tratta infatti di andare a cercare nei percorsi della storia, come anche nei suoi possibili non avvenuti, quella scintilla capace di gettare una luce nuova sul presente. Il numero nasce dal tentativo di attivare un orizzonte di senso che attraversi la dimensione storica e quella geografica, rendendo entrambe instabili, meno definite. Come mai, a un certo punto del secolo breve, lo slogan «dieci, cento, mille Vietnam!» ha cominciato a risuonare a Milano come a Madrid o a Parigi? Quale è stato il processo che ha portato persone, concetti e pratiche rivoluzionarie del “sud globale” a integrare progressivamente il lessico politico e l’immaginario internazionale? E poi, più specificamente, in che modo, in diversi paesi, la cosiddetta New left – nata contrapponendosi alla “vecchia sinistra” anche per la sua attenzione al Terzo mondo (Kalter 2016) – ha prodotto una «cultura politica» (Sirinelli 1992; 2010; Bernstein 1997) capace di coniugare dimensione territoriale e comunitaria, appartenenza nazionale e internazionalismo? Come si è dato l’incontro sulle parole d’ordine dell’antimperialismo e dell’anticapitalismo? E quali sono dunque – o possono essere – i riflessi di quella stagione sulle pratiche che agitano il tempo presente? Per rispondere a queste domande abbiamo cercato di sviluppare alcune linee di ricerca che connettano, in una «costellazione satura di tensioni», i movimenti di autodeterminazione del lungo ’68 con alcune esperienze attuali di autonomia territoriale, per accendere – con il Benjamin del Passagenwerk – «la miccia del materiale esplosivo riposto nel ciò che è stato» (2000, pp. 534, 437). Due coordinate principali hanno orientato la nostra ricerca. Da una parte, abbiamo optato per la sequenza periodizzante della «stagione della conflittualità» o del «lungo ’68», una prospettiva da sempre familiare a «Zapruder» (Dadà e Mencarelli 2008) e che nella storiografia internazionale è diventato usuale chiamare dei «long sixties» (Sherman 2013). Questa scansione “a maglie larghe”, che va grosso modo dalla metà degli anni cinquanta alla metà degli anni settanta e in qualche caso ottanta, è condivisa da un numero crescente di storici e storiche (Marwick 1999; Dreyfus-Armand et al. 2000; Horn 2007; Klimke e Scharloth 2008; Artières e Zancarini-Fournel 2008).

Si tratta in primo luogo di adottare un’interpretazione processuale volta a mettere in luce dinamiche di lungo periodo che non ignorano la cronologia serrata della storia politica, ma tendono a inscriverla in una partitura a più voci dove locale, nazionale e globale sono coprodotti nella stessa misura temporale. Dall’altra parte – ma l’operazione è identica, tanto spazio e tempo sono indissociabili – abbiano cercato di visualizzare la storia diversamente, non certo per appiattirci su una narrazione lineare, omogenea e progressiva (come quella della “globalizzazione”) che dimentica squilibri, asimmetrie e conflitti, ma per trovare il modo di mettere a fuoco la storia nel suo farsi, nei processi reali che hanno luogo anche al di sotto e al di sopra dello stato-nazione (De Vito 2012; De Vito e Gerritsen 2018). Questa proposta, che si muove all’interno della prospettiva dei global sixties (Jian, Klimke et al. 2018), mira quindi a ridisegnare la geografia politica occidentale, per includervi anche lo spazio (post)coloniale (Stoler 2016). Questo tentativo di articolare il discorso in modo da visualizzare la diffusione delle idee e delle pratiche attraverso un’eterogeneità di luoghi lontani fra loro – non soltanto in termini strettamente geografici – permette di interrogarsi sulla relazione fra la lotta rivoluzionaria che punta alla decolonizzazione e all’affermazione di una dimensione territoriale e politica, e la lotta di chi intende “decolonizzare” i propri ambiti di vita, se non la vita tout court. L’idea di costruire spazi di autonomia nel lungo ’68 è centrale: così come vengono attaccate le istituzioni tradizionali, con il loro paternalismo, allo stesso modo vengono messe in discussione le categorie di nazionalismo e di sovranità. La genealogia globale dell’immaginario del ’68 va ricercata, tra gli altri fattori, nelle contaminazioni tra i movimenti, cioè nella diffusione internazionale di immagini, miti e parole d’ordine (Alvarez e Rey Tristan 2017). L’ipotesi da cui siamo partiti è che questo passaggio non sarebbe stato possibile senza un’opera di impollinazione incrociata con movimenti di lotta nello spazio (post)coloniale. Riprendendo l’idea che si debba “provincializzare l’Europa” e destrutturarne le pretese di superiorità politica (Chakrabarty 2004), abbiamo provato a sviluppare due linee d’indagine. Da una parte, è un numero in cui si cerca di mostrare come, all’interno del percorso della New left, abbiano trovato un terreno ricettivo retoriche e pratiche provenienti da contesti geografici e politici tradizionalmente considerati come «ai margini della storia», per dirla con Gramsci

(1975). Dall’altra parte, attraverso la riflessione su alcune esperienze contemporanee, il numero cerca di mostrare come quei “margini” siano tornati ad essere laboratori a cui i movimenti internazionali guardano con la massima attenzione. È chiaro che anche noi non sfuggiamo del tutto al rischio di utilizzare strumentalmente, come in uno specchio, paesi “altri” per raccontare in fin dei conti sempre la storia dell’Europa – o per estensione del “nord globale”. Questa consapevolezza rende ancora più necessaria la riflessione sulla traduzione come antidoto per non adottare uno sguardo ingenuo e implicitamente orientalizzante: l’obiettivo è giocare questa prospettiva, guardando «dall’altro lato della linea» (Santos 2010), per mostrare quanto di non europeo c’è nelle nostre pratiche e nelle nostre sedimentazioni, senza leggere quei contesti come meramente funzionali a una pratica politica eurocentrica e senza mancare di sottolinearne differenze e discontinuità.

Come spiega lo Zoom di apertura di Núñez Seixas, sulla scorta delle indicazioni di ricerca avanzate da Werner e Zimmermann (2003), il nazionalismo va assunto come un fenomeno internazionale che nasce e si sviluppa in maniera interconnessa tra vari paesi. A suo giudizio, «i nazionalisti imparano costantemente gli uni dagli altri, in materia di modelli culturali quanto di pratiche politiche: questi transfert culturali non avvengono tra centro e periferia, ma tra diverse periferie e assumono particolare importanza in momenti storici specifici». Seixas sottolinea il peso dell’effetto dimostrazione, che può verificarsi in alcune congiunture storiche, talvolta rafforzato dai meccanismi di solidarietà tra i popoli. È ciò che è successo dagli anni sessanta nella cornice dei processi di decolonizzazione che hanno avuto più di una eco nella New left e nell’evoluzione politica dei nazionalismi sub-statali europei. A sua volta, la rilettura del marxismo proveniente dall’Europa e dagli Stati uniti ha veicolato contenuti che sono stati assorbiti dai movimenti anticoloniali del Terzo mondo in una sorta di circuito accrescitivo che ha modificato profondamente la stessa tradizione marxista – la ricezione di Lacan operata da Fanon, per fare un esempio (Beneduce e Gibson 2017) – in un processo di cui spesso sfugge la dimensione globale (da Cuba al Vietnam, passando per l’Algeria e la Palestina).

In estrema sintesi, si può dire che il nostro interesse principale è stato quello di tornare sulle interazioni tra “centro” e “periferie”, per scardinare la dicotomia stessa e, nello stesso tempo, allargare la panoramica geograficamente e cronologicamente. Nella visione di Fontan (1972), nazionalismo e socialismo erano una combinazione legittima e vincente, come attestava anche la Charte de Brest. Seixas aggiunge che tale connubio non avrebbe avuto successo senza il senso di un’appartenenza generazionale, quella dei figli dei “trenta gloriosi” (1946-1975), che volevano sovvertire senza «recidere il cordone ombelicale con la tradizione» delle minoranze d’origine, represse politicamente e minacciate culturalmente. Sono dinamiche che ritroviamo anche nelle due ricostruzioni dedicate alla componente amazigh in Algeria e in Libia, entrambe particolarmente attente alla questione della lingua come fattore di mobilitazione politica. I due saggi pongono un problema nel problema, non estraneo alla storiografia ma forse sottovalutato, ovvero quello dei conflitti interni agli stati (post)coloniali. Nel secondo Zoom Marisa Fois, per esempio, mette in luce come la minoranza amazigh fosse osteggiata già durante la lotta per l’indipendenza algerina. In questo quadro, la rivendicazione linguistica (in patria e nei gruppi dell’esilio svizzero e parigino) fu e rimane un atto di resistenza all’arabizzazione forzata, che si è nutrita «dei paradigmi politici e culturali dei lunghi anni sessanta, caratterizzati da contestazioni e movimenti indipendentisti su entrambe le sponde del Mediterraneo, dando così una dimensione globale alla propria lotta». La lingua e il suo insegnamento dunque, ma anche la lingua musicata, su cui lavora Iwal, band berbera costituitasi tra Batna e T’kout nel sud-est dell’Algeria. Nell’intervista per la rubrica Voci, questi musicisti appena trentenni raccontano in che direzione li abbia spinti la scelta di recuperare l’eredità della musica chawy, iniziata spontaneamente per opporsi all’arabizzazione culturale. La lingua, la musica, ma anche la danza e il cinema, come sottolineato da Leyla Toprak in Altre narrazioni, possono diventare mezzi per esprimere la resistenza di un gruppo marginalizzato sia economicamente che culturalmente.

Ci riporta al presente anche la Scheggia di Chiara Pagano, che prende le mosse dagli effetti delle “primavere arabe”. Nel caso libico – spiega – «la scelta di unirsi alla rivolta contro il regime di al-Qadhdhāfi ha fornito agli attivisti del movimento amazigh un’inedita opportunità di accrescere la propria visibilità e il proprio seguito a livello interno». Anche in questo contesto si rivela fondamentale il ruolo dei network internazionali e della letteratura. Ma Pagano elabora un altro nodo per noi fondamentale: «la reintroduzione di termini quali autogoverno e autonomia nella dialettica politica della Libia post-2011, insieme a quello del regionalismo, che è il portato dei peculiari sviluppi storico-sociali di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan». Per quanto riguarda il caso libico, gli sviluppi più recenti della questione amazigh mostrano anche «come l’etnicità possa al contrario risultare funzionale a perseguire interessi particolari, a beneficio di gruppi ristretti, e in vista dei quali viene presentata come accettabile persino l’idea di creare enclave territoriali etnicamente connotate». Allargando lo sguardo, dalle storie del Chiapas e del Kurdistan arriva nitido lo sforzo per superare la forma-nazione. Sempre nelle Schegge, Zamarripa parla di «re-esistenza» zapatista come forme di critica allo stato moderno e di riscoperta di una sorta di confederalismo indigeno. Elemento che vediamo nelle Immagini, dedicate alla comunità di Finca Alemania e alle sue pratiche di autogestione. Dilar Dirik, attivista e ricercatrice curda, nel suo Zoom richiama la riflessione teorica recente di Öcalan e mostra, attraverso le interviste registrate in Kurdistan, come questa si traduca in prassi politica quotidiana. Secondo una militante intervistata da Dirik: «Per noi, la posta in gioco era il cambiamento sociale radicale. Fin dall’inizio i nostri avversari dicevano: “i curdi vogliono uno stato in Siria”. Perché la loro logica autoritaria non gli permette di andare oltre l’orizzonte dello stato come liberatore. Nella loro logica, la coesistenza delle persone è impossibile, una farsa. Per noi invece è la ragione per cui combattiamo e moriamo». Dirik definisce la Federazione democratica del Rojava come «il primo tentativo di organizzazione autonoma e alternativa su larga scala dopo la rivoluzione zapatista del 1994». Nelle sue parole troviamo conferma di come la lotta dei curdi stia plasmando un immaginario nuovo, che porta con sé molto dei long sixities, e pratica nuove forme di organizzazione corrispondenti al rinnovamento dei contenuti politici del trittico «democrazia dal basso, liberazione femminile e ecologia». Siamo evidentemente di fronte alla sperimentazione di nuovi paradigmi nella cornice dalla crisi degli stati-nazione. Un cambiamento complessivo d’immaginari, probabilmente più che una crisi del portato storico della New left, di cui, per altri versi, troviamo una spia in quanto riferisce la Scheggia di Daniela Galiè sulla «graduale scomparsa dei fedayyin dai ranghi delle icone celebri» della lotta palestinese e della sua diffusione internazionale e sulla sua sovrapposizione alla figura del «martire».

Una lettura di questo tipo permette di comprendere i processi che abbiamo sottolineato in un’ottica che non è quella dell’isomorfismo fra locale, nazionale e globale, ma piuttosto punta a riconoscere l’interconnessione e la coproduzione di differenti spazi che proprio grazie a questa attività continua di immaginazione divengono luoghi dotati di senso (di nome, di cultura, di comunità, di pratiche organizzative e politiche). Questo avviene seguendo varie linee: in alcuni casi la proposta è una radicale decostruzione del concetto di statualità – il caso del Chiapas e del Rojava – in altri è invece innanzitutto la liberazione dal dominio di un’autorità percepita come esterna e coloniale – il caso degli imazighen o dei palestinesi. Nei suoi scritti più recenti, Öcalan ha contaminato il marxismo tradizionale del Pkk con le posizioni di federalismo comunitario di Murray Bookchin. La costituzione del Rojava – il risultato di questa sintesi politica – è stata ampiamente dibattuta nei movimenti radicali del mondo intero: la prospettiva locale, radicata territorialmente, è l’orizzonte condiviso di alcune delle pratiche di lotta nei movimenti degli ultimi anni (come le lotte ambientali radicali, dalle ZAD francesi al NO TAV). La sfida, per la comunità che viene, sembra dunque essere proprio quella del rapporto tra territori, autogoverno e confederalismo in una prospettiva di liberazione per tutti e tutte.

Bibliografia

Alvarez, A.M., Rey Tristan, E. (ed.) (2017) Revolutionary Violence and the New Left: Transnational Perspectives, Routledge, London.
Artières, P. e Zancarini-Fournel, M. (dir.) (2008) 68. Une histoire collective, 1962- 1981, La Découverte, Paris.
Beneduce, R. e Gibson, N.C. (2017) Frantz Fanon, Psychiatry and Politics, Rowman & Littlefield International, London-New York.
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Berstein, S. (1997) La culture politique, in Pour une histoire culturelle, dir. J.-F. Sirinelli, Seuil, Paris, pp. 371-386.
Chakrabarty, D. (2004) Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma, 2004 [I ed. Princeton 2000].
Dadà, A. e Mencarelli, P. (2008) Sessantotto “rovesciato”, «Zapruder», n. 16, pp. 2-7 [.pdf].
De Vito, C.G. (a cura di) (2012) Global Labour History. La storia del lavoro al tempo della “globalizzazione”, ombre corte, Verona.
De Vito, C.G. e Gerritsen, A. (2018) Micro-Spatial Histories of Global Labour, Palgrave, Basingstoke.
Dreyfus-Armand G., Frank, R., Lévy, M.F. e Zancarini-Fournel, M. (dir.) (2000) Les Années 68. Le temps de la contestation, Complexe, Bruxelles
Fontan (1972) Nationalisme révolutionnaire, religion marxiste et voie scientifique du progrès, Pno, s.l.
Gramsci, A. (1975) «Ai margini della storia (storia dei gruppi sociali subalterni)», Quaderno 25 (1934), in Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino.
Horn, G.-R. (2007) The Spirit of ’68: Rebellion in Western Europe and the US, 1956-1976, Oxford University Press, Oxford-New York.
Kalter, C. (2016) The Discovery of the Third World: Decolonization and the Rise of the New Left in France, c.1950-1976, Cambridge University Press, Cambridge-New York.
Klimke, M. e Scharloth, J. (ed.) (2008) 1968 in Europe: A History of Protest and Activism, 1956-1977, Palgrave, Basingstoke.
Jian, C., Klimke, M., Kirasirova, M., Nolan, M., Young, M. e Waley-Cohen, J. (ed.) (2018) The Routledge Handbook of the Global Sixties: Between Protest and Nation-Building, Routledge, London.
Marwick, A. (1999) The Sixties: Social and Cultural Transformation, 1958-1974, Oxford University Press, Oxford.
Santos, B. de Sousa (2010) Para descolonizar Occidente. Más allá del pensamiento abismal, CLACSO – Prometeo Libros, Buenos Aires.
Sherman, D.J., van Dijk, R., Alinder, J. e Aneesh, A. (ed.) (2013) The Long 1968, Indiana University Press, Bloomington.
Sirinelli, J.-F.
(1992), ed., Histoire des droites en France, Seuil, Paris, vol. 2, Cultures.
(2010) Histoire culturelle et histoire politique, in Dictionnaire d’histoire culturelle de la France contemporaine, ed. C. Delporte, J.-Y. Mollier e J.-F. Sirinelli, PUF, Paris.
Stoler, A.L. (2016) Duress: Imperial Durabilities in our Times, Duke University Press, Durham. Werner, M. e Zimmermann, B. (2003) Penser l’histoire croisée: entre empirie et réflexivité, «Annales. Histoire, Sciences Sociales», 2003/1, pp. 7-36.

(In copertina foto e murale di @yelemaria)

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