Da storici e storiche in tempi di pandemia globale, ci siamo poste la domanda di come nel passato ci si sia rapportate ad altre diffusioni virali epidemiche nel discorso pubblico e nel mondo dell’attivismo. Abbiamo chiesto a Craaazi (Centro di ricerca e archivio autonomo transfemministaqueer “Alessandro Zijno”) un contributo sulla risposta dal basso all’epidemia di Hiv negli anni ottanta e novanta in Italia. Quello che leggete qui è il secondo atto intitolato “Scienza” di un contributo composto da testimonianze di attivisti impegnati nella lotta contro l’Hiv che interroga il presente soprattutto come esempio di mobilitazione che mette al centro la salute, il benessere e i loro determinanti sociali.
Leggi l’atto primo.
Voci dell’attivismo contro l’Hiv in Italia (atto secondo)
di Craaazi
Scienza
Craaazi. Come si è articolato il rapporto tra attivismo, istituzioni mediche e case farmaceutiche?
Diego Scudiero. Già nell’83, sia a Bologna che a Roma, i reparti di malattie infettive e l’Istituto superiore di sanità [Iss] capiscono che c’è bisogno di una relazione diretta con la popolazione più colpita e quindi ci chiesero di fare da tramite fra le istituzioni sanitarie e la comunità gay […]. È interessante, paradossale forse, il fatto che in un momento in cui la politica, dominata dalla Dc, non vedeva di buon occhio i gay ed era molto intollerante verso di noi, le istituzioni sanitarie, che erano comunque parte dello stato, ci riconoscessero invece come interlocutori. Che l’Iss ci chiamasse, riconoscendo come interlocutori un gruppo di omosessuali organizzati, ci apparve molto strano.
Se vuoi andare a discutere con le case farmaceutiche, c’è un certo livello tecnico che bisogna padroneggiare. Se vuoi inserire all’interno dei loro studi le persone tossicodipendenti e sieropositive, non è solo una richiesta politica: devi saper indicare come vuoi che queste persone, che verrebbero altrimenti escluse, siano inserite, come devono essere fatti gli studi, e lo stesso vale per le donne. Non puoi arrenderti al fatto che di solito vengono escluse perché possono rimanere incinte e gli studi li fanno solo sugli uomini bianchi. Abbiamo corpi e abitudini diversi e la richiesta di verifica su effetti collaterali possibili di alcuni farmaci (con le terapie ormonali per esempio) deve tenerne conto. Se non si è informati loro ti dicono quello che vogliono, sempre con la presunzione di avere un sapere esclusivo, cosa che è classica dei medici. Secondo loro tu paziente devi eseguire, non fare domande: un atteggiamento diverso viene percepito come una sfida alla loro autorevolezza. Questo atteggiamento dei pazienti ha messo in crisi il sistema. Mi ricordo ancora la reazione di lesa maestà del primario di infettivologia di Bologna ai tavoli a cui partecipavamo come Lila. Ad Alessandra [Cerioli] che citava uno studio che lui non conosceva neanche rispose indignato: “Ma sentite cosa mi dice questa?!”.
C’erano diversi livelli di formazione: il più complesso era quello dei farmaci. Fino al 1996 c’erano alcuni inibitori della trascrittasi inversa. Il meccanismo dei farmaci era un po’ tutto uguale e non era difficile seguire gli sviluppi. Quando nel ’96 arrivano gli inibitori della proteasi si apre un mondo: non solo sono efficaci, ma ci sono tante nuove sperimentazioni messe in campo da case farmaceutiche diverse. C’erano alcuni di noi che partecipavano alle Eatg e cercavano di organizzare anche una rete in Italia, ma nelle sedi in Italia però non tutti erano interessati a fare questo lavoro. Le reti europee erano quelle che poi confluivano negli advisory board che erano quelli che poi andavano a contrattare con le case farmaceutiche, era importante esserci. Gli effetti collaterali dei farmaci erano pesanti in quell’epoca. Da un lato, mai, come nel caso dell’Hiv, ci fu una velocità nell’approvazione e commercializzazione dei farmaci. Dall’altro, però, questo voleva dire che bisognava comunque fare molta ricerca sugli effetti collaterali dei farmaci già disponibili. È chiaro che alle case farmaceutiche il fatto che ci fossero effetti collaterali, nel momento in cui il farmaco era già commercializzato, interessava il giusto. Questi effetti collaterali creavano per il paziente una riconoscibilità: era paradossale che le terapie antiretrovirali rendessero un paziente che prima dell’assunzione della terapia non era riconoscibile, immediatamente riconoscibile, questo fu un grosso problema. Il corpo veniva trasformato in dei modi molto pesanti. Questo è stato un problema anche perché molti pazienti non volevano prendere gli antiretrovirali. Le prime terapie erano complesse anche nell’assunzione e l’aderenza terapeutica era importante (non sbagliare dose e orario) e diventava una complicazione per mantenere un ritmo di vita agevole. La diarrea, per esempio, era un effetto collaterale che stravolgeva la tua vita normale, il lavoro: pensa ad una cassiera di supermercato che deve alzarsi ogni cinque minuti. Eppure, per il medico o per la casa farmaceutica, questo costituiva un effetto collaterale minore e non così importante da giustificare ulteriore ricerca.
Era anche difficile scardinare la visione molto radicata che l’autorità del medico non vada sfidata. Per essere incalzanti nella relazione e avere il giusto e banale diritto a sapere le cose, però, bisogna mettere in questione la relazione “verticale” tra medico e paziente. L’atteggiamento del medico, se gli si fanno delle domande, di solito è negativo. L’atteggiamento del medico poi spesso era quello di sminuire l’importanza degli effetti collaterali: “cosa vuole che sia un po’ di diarrea?”.
Alessandra Cerioli. Nel 1992 nasce l’associazione europea European Aids treatment group, Eatg. Questo gruppo europeo di attivisti, tra i quali molti omosessuali, aveva come obiettivo principale quello di lavorare proprio sui trattamenti, sulle terapie. La Lila faceva parte di Eatg benché noi non prendessimo soldi dall’industria farmaceutica, mentre l’Eatg sì; questa, infatti, ha come obiettivo, soprattutto, di recepire informazioni sui trattamenti e tutta la ricerca intorno all’Hiv (farmacologica, vaccini, eccetera) dalle fonti primarie, quindi dall’industria, dai ricercatori indipendenti e, allo stesso tempo, di creare dei luoghi di discussione con questi soggetti, con l’industria, con chi fa ricerca, per migliorarne la qualità, che poi ci sarebbe arrivata sotto forma di farmaci. Questo è l’attivismo sui trattamenti, che poi nasce da una costola di Act-up che si chiama Treatment and data, e sono quelli che nel 1986 riescono anche a cambiare il primo trial sull’Azt, il disegno della sperimentazione all’Fda [Food and drug administration: l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei farmaci]. Quindi l’Eatg un po’ prende spunto da quello e si forma questo gruppo che prende i soldi dall’industria anche per fare formazione sui trattamenti alle persone che avevano l’Hiv.
Come dicevamo, nel 1996 un po’ inizio a frequentare la Lila e nel frattempo arriva il progetto dell’Eatg per formare gli attivisti del Sud Europa, che dura quattro anni: il primo incontro è a Lisbona poi c’è Roma, poi Barcellona, tutto spesato.
I temi della formazione erano sia scientifici – da dove arrivano i farmaci che prendiamo, tutte le fasi precliniche, l’eziopatogenesi del virus – sia quali sono le qualità di un bravo attivista, lavorare per obiettivi, lavorare in gruppo, il burnout, il networking, chi sono gli stakeholder. Abbiamo fatto della gran formazione, attraverso i soldi dell’industria farmaceutica: l’industria capisce che anche per loro è un valore aggiunto parlare con le associazioni, anche associazioni di persone che comunque non si mettono a zerbino e con onestà intellettuale e differenti posizioni, dicono quello che non va bene e quello che andrebbe fatto. Perché poi loro hanno anche sete di capire, soprattutto adesso, come un farmaco si può posizionare sul mercato, a chi può piacere. In tutta Europa prendono vita i community advisory aoard, che è advocacy sui trattamenti allo stato puro. Noi attiviste e attivisti pretendiamo di avere sempre a che fare con la direzione medica [delle industrie farmaceutiche], non vogliamo solo quelli che si occupano del marketing, vogliamo parlare di scienza, non del post-marketing eccetera. L’Eatg è un’associazione europea che si occupa principalmente di policy, e per questo la scelta di avere sede a Bruxelles non è casuale. Al suo interno opera l’Ecab (European community advisory board) che organizza incontri con l’industria che fa ricerca su Hiv e patologie correlate. Questi incontri si basano su un’agenda che viene concordata con l’industria: noi gli mandiamo “la nostra lista della spesa”, loro possono proporre i loro topic. Prima di iniziare i lavori c’è sempre un minuto di silenzio per tutte le persone che sono morte a causa dell’Aids o per quelli che moriranno, perché ci sono paesi in cui i farmaci non ci sono per motivi economici come nell’Est Europa e in Asia Centrale. È un modo molto efficace di ricordare perché siamo lì e per cosa stiamo lottando, e soprattutto lo ricordiamo all’industria.
Tornando al 1996, quando a Vancouver si capisce che ci sarà una terapia efficace e che i farmaci funzionano, l’attivismo sui trattamenti si è proprio molto rinvigorito soprattutto in Europa. Prima era una patologia col 70% di mortalità, mentre si comincia a vedere che chi sta nella sperimentazione dei farmaci che saranno il Ritonavir o Crixivan, non muore più. Per cui iniziano a uscire i primi opuscoli, che spiegavano anche gli effetti collaterali di questi farmaci che erano fortissimi, erano farmaci complessi da prendere. E quindi si capisce anche che, per fare in modo che questi farmaci siano efficaci, ci vuole anche un intervento tra pari che motivi le persone a prenderli. Il problema nel ’96 era che i farmaci non erano ancora registrati in tutti i paesi, avevano appena finito la fase di sperimentazione. Ed è grazie agli attivisti americani che le fasi di sperimentazione di farmaci salvavita, come per l’Hiv, ma adesso anche per quelli oncologici, invece di cinque anni, possono durare solo due. Per accelerare. Purtroppo adesso l’Fda vuole addirittura accelerare ancora di più e Act-up ha già detto che non è d’accordo, perché si rischia veramente di far uscire dei farmaci di cui non si sa niente. Però allora è stato fondamentale.
Il problema con i medici è che loro sono sempre stati convinti che se ti dico gli effetti collaterali, ti vengono. Invece noi abbiamo sempre detto: no, te li dico gli effetti collaterali, ti preparo e ti do anche delle soluzioni che vengono anche dalle nostre esperienze, per star meglio.
L’altra cosa interessante che abbiamo dovuto affrontare è la questione delle interazioni dei farmaci. Quando arrivano i farmaci, mentre negli Stati Uniti erano più gay, qua eravamo più tossici: quindi c’era il problema che non li volevano dare a chi usava sostanze, anche a chi stava in metadone, perché essendo farmaci che dovevi prendere tre volte al giorno e ti dicevano che non dovevi scazzare mai, pensavano che non saremmo stati aderenti alla terapia. Purtroppo c’era anche un’interazione. Non lo sapevamo, ma le prime persone con alcuni farmaci avevano i livelli del metadone dimezzati e quindi andavano in crisi di astinenza. Tutta la questione sulle interazioni tra i farmaci anche nelle altre patologie, è tutta una roba che hanno introdotto i pazienti.
Su questo oggi c’è stata anche una nuova rivitalizzazione dell’attivismo perché, secondo me, la cosa più interessante dell’attivismo sull’Aids è che comunque, nel momento in cui in Occidente – chiamiamolo così per semplificare – la situazione è sotto controllo, non ci si è fermati ma la lotta è continuata per chi invece non aveva accesso ai farmaci. Dall’altra parte però sappiamo anche che questi farmaci vanno cambiati. Cioè non possiamo continuare ad avere dei farmaci che continuano a usare gli stessi meccanismi per bloccare il virus. Perché questo per l’industria è molto semplice farlo, possono sempre migliorare i farmaci. [Il problema è che] la strategia terapeutica rimane la stessa e invece [proprio quella va cambiata], bisogna cercare qualcosa che vada proprio a eliminare il virus nell’organismo. Quando sono usciti i farmaci nel ’96, la buona notizia è stata che saremmo stati vivi, come disse uno dei ricercatori che aveva condotto le prime sperimentazioni “dobbiamo anche renderci conto che l’Hiv per ora non è eradicabile”. Allora, sulla eradicabilità, ovviamente un po’ gliel’avevamo data su, nel senso che [ci siamo concentrati] a migliorare i farmaci, a fare in modo che arrivassero in altri paesi, a curare le comorbilità più importanti, le epatiti e la tubercolosi. Quindi alla fine si è visto che bisognava un po’ riprendere il tema della ricerca, una ricerca comunque complessa perché l’industria non è che fosse così contenta di spendere dei soldi. Gli attivisti americani soprattutto hanno proprio creato un gruppo ad hoc che si è occupato della cura insieme ai ricercatori di base: il famoso paziente di Berlino [che è guarito, o meglio, non deve più prendere gli antiretrovirali in seguito a] un trapianto di midollo, ha rinvigorito un po’ tutti. Tanto che ora è tornata fuori l’ipotesi del vaccino.
(In copertina un frame del servizio del Tg3 Lombardia sull’occupazione simbolica della sede milanese di Farmindustria da parte della Lila, 18 lgulio 1996)
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22 Aprile 2020 at 15:07