Da storici e storiche in tempi di pandemia globale, ci siamo poste la domanda di come nel passato ci si sia rapportate ad altre diffusioni virali epidemiche nel discorso pubblico e nel mondo dell’attivismo. Abbiamo chiesto a Craaazi (Centro di ricerca e archivio autonomo transfemministaqueer “Alessandro Zijno”) un contributo sulla risposta dal basso all’epidemia di Hiv negli anni ottanta e novanta in Italia. Quello che leggete qui è il terzo atto a tema “Intersezionalità” di un contributo composto da testimonianze di attivisti impegnati nella lotta contro l’Hiv che interroga il presente sopratttuto come esempio di mobilitazione che mette al centro la salute, il benessere e i loro determinanti sociali.
Leggi gli atti primo e secondo.
Voci dell’attivismo contro l’Hiv in Italia (atto terzo)
di Craaazi
Intersezionalità
Craaazi. Pensi che la lotta all’HIV sia stata un terreno che ha fatto da base comune per fare avanzare lotte diverse (movimento gay, sostanze, femminismo)?
Diego Scudiero. Penso di no, o quantomeno poco. Penso che sia sempre stata tenuta separata dalle altre cose. Rispetto alle tossicodipendenze abbiamo fatto fatica a fare entrare l’idea della riduzione del danno, a dire di incentivare il cambio delle siringhe piuttosto che lanciare il messaggio di “non fare uso di sostanze”. Non è stato un incontro facile quello della lotta all’Hiv con nessun’altra questione. Diciamo che quando è andata bene ha viaggiato in parallelo ad altre forme di lotta.
Se pensiamo ai consultori femminili, per esempio, hanno continuato a dire “prendi la pillola” piuttosto che a spingere il preservativo. Anche il pensiero femminista non ha riflettuto su questo, eppure è un tema che tocca la sessualità e il rapporto di potere con l’uomo. Il tema della contrattazione della salute dentro il rapporto uomo-donna è un tema dove lo squilibrio è evidente: è il maschio che decide se mette o non mette il preservativo. Devi comunque contrattare, quindi è strano che il pensiero e la pratica femminista non abbia inglobato almeno alcuni di questi spunti. Sicuramente anche il fatto che la lotta all’Hiv fosse stata connotata come una cosa che riguardava i maschi gay ha giocato un ruolo.
[Nell’ambito gay] va tenuto presente quello che stava accadendo in quel momento in Italia. In quel momento si stava cercando di dare vita a un movimento che in qualche maniera non esisteva: c’erano realtà un po’ più larghe a Bologna e Roma, mentre nel resto d’Italia non si può parlare forse neanche di “gruppuscoli”, ma di singole e singoli che in qualche maniera si tenevano e sono rimaste in rete. A Bologna nasce il Cassero nel 1982, a Roma il circolo Mario Mieli nel 1983, nel 1984 nasce Arcigay, dopo un confronto (tanto che il Mario Mieli non entra dentro Arcigay) sull’opportunità di creare un soggetto unitario magari più basato sulla rappresentanza. Ed è proprio nel 1984, quindi quando Arcigay non è ancora organizzato e diffuso, che si comincia ad avere più cognizione dell’Hiv.
Per Arcigay l’arrivo dell’Hiv frantumava un progetto: il progetto era chiaramente ricreativo, l’idea di costruire dei centri che non fossero solo centri di discussione politica ma anche centri di aggregazione. Era dunque una prospettiva euforica e una notizia come l’Hiv distruggeva questa prospettiva.
Quindi possiamo chiederci: questo movimento, che sta ancora cercando di strutturarsi, avrebbe potuto contemporaneamente farsi carico di un’epidemia e di una risposta organizzata a questa epidemia? Questo ovviamente non è avvenuto del tutto. Io credo che sarebbe stato necessario che il movimento gay lo facesse, ma allo stesso tempo non ci si può stupire che questo non sia stato fatto, o che non sia stato fatto nei termini in cui avremmo voluto, o nei modi in cui è stato fatto in altri paesi [dove c’era] un’infrastruttura precedente. Questa non è una forma di giustificazione, secondo me, ma va comunque tenuto presente.
Arcigay creò una sponda importante sulla tenuta dei diritti che erano altamente messi in discussione. Hanno fatto da scudo rispetto a limitazioni di diritti, come richieste di test obbligatori sui posti di lavoro, discriminazioni, e su questo si impegnò con forza, anche su iniziative di informazione sulla prevenzione, distribuzione di preservativi (per quanto si potesse). Quello che non fece, e che non poteva fare, credo, fu organizzare i servizi per le persone sieropositive. Certo, dal punto di vista delle persone omosessuali con Hiv questo non può che essere un limite.
Lila cercò di stimolare una presa di posizione di Arcigay: ce n’era bisogno anche perché la Lila non era così connotata come “gay” pur avendo al suo interno molti omosessuali. Ci sarebbe stato bisogno dunque che la tematica fosse molto visibile anche in Arcigay. Ma era come se Arcigay avesse deciso “da noi si balla, da voi ci si cura”. Forse noi tendevamo ad enfatizzare le cose che vivevamo in Lila, ma comunque a noi e alle persone sieropositive della Lila disturbava che il Cassero non si ponesse un problema di visibilità anche delle persone con Hiv, che non volesse rafforzare la possibilità di creare relazioni, che non volesse fare un coming out che, mentre sul piano dell’identità sessuale era centrale per loro, poi quando si trattava di “dire la sieropositività”, c’era quasi un serrare i ranghi e rientrare nel closet. Ci disturbava che non ci fossero quegli interventi più decisi che avremmo voluto, forse anche per un nostro iper-ego che avevamo anche noi, come tutti.
L’errore [dei circoli affiliati ad Arcigay] è stato di delegare troppo alla Lila: va bene delegare la costruzione e la creazione di servizi (i gruppi di auto-aiuto per esempio), ma non puoi politicamente delegare in toto l’argomento, non puoi sottovalutarlo. Puoi non avere servizi, ma devi avere un pensiero, un pensiero politico su quello che sta capitando, perché sta capitando alla tua comunità, ha conseguenze sulla tua comunità e non puoi semplicemente svicolare. Posso capire che possa esserci una fase di rimozione, una rimozione “supportiva” che ti aiuta a non sviluppare un pensiero ossessivo, ma se continua per un tempo così lungo allora si tratta di altro. Non si è riusciti lì a fare collettivamente questo ragionamento. È una posizione falsa, però, quella di chi dice che il Cassero non ha fatto niente. Non voglio essere confuso con chi dà giudizi di valore troppo affrettati e non storicizzati: le cose vanno contestualizzate e il piano della storia e quello della contingenza politica dell’oggi non vanno confusi.
Alessandra Cerioli. Quando arrivano i primi casi di Hiv in Italia, e cominciano a morire le prime persone di Aids, che sono principalmente, come da tutte le parti, omosessuali e tossicodipendenti, ci sono due versanti: uno è quello di Arcigay, a Bologna c’era già il Cassero, c’erano Franco Grillini, Beppe Ramina; l’altro è tutto l’attivismo di don Luigi Ciotti, del Gruppo Abele – che rispetto alle droghe è fortissimo – sono stati i primi a farlo, don Ciotti fece anche lo sciopero della fame, chiedevano una riduzione delle pene anche per l’uso di droga. Lui era proprio un leader, a Torino. Quindi le comunità, i centri di recupero, in pratica [si mobilitarono perché] era assurdo mettere in galera delle persone che venivano arrestate perché o spacciavano o usavano eroina. Queste persone vanno curate. Poi c’era la questione della prostituzione, che era collegata alla droga perché molte tossicodipendenti si prostituivano. C’era un periodo in cui io avevo un sacco di amiche, perché anche io usavo eroina, che si prostituivano. Quindi ce n’erano tante. Le vedevi proprio insomma. Anche di giorno c’erano luoghi dove ti prostituivi, ed erano pieni di tossiche i marciapiedi. C’è Pia Covre del comitato per i diritti civili delle prostitute, che anche lei è una fondatrice di Lila, e poi ci sono alcuni di Magistratura democratica, che fondano la Lila. Quindi la Lila diciamo nasce così, in questo modello molto “multidisciplinare”.
Comunque parlando di movimenti, la cosa molto interessante è che poi, alla fine, chi si è occupata di Hiv (volente o nolente) si è dovuta occupare di tutte le minoranze, dei gruppi vulnerabili. Alle conferenze mondiali ci sono i e le rappresentanti di tutte le comunità più colpite, è una cosa piuttosto unica di questa rete. Il motto “niente su di noi senza di noi” è alla base del nostro attivismo; e non è solo uno slogan, ma è realtà. Per questo la storia dell’attivismo sull’Aids è molto interessante. Per esempio, l’Eatg all’inizio era veramente un’associazione di “ricchi gay sofisticati” (per citare Vito Russo, in uno dei primi discorsi pubblici di Act-up), ma ora è diversa. A un certo punto, dall’Italia, insieme ad altre attiviste e attivisti del Sud Europa come Spagna e Portogallo, abbiamo portato la nostra esperienza di persone con Hiv che usano sostanze illegali e sono cresciute nella working class, e piano piano siamo riusciti a contaminare l’Eatg, che oggi, per esempio, ha una propria policy sulla riduzione del danno. Poi dovevamo aprire all’Est, perché non è possibile che mentre noi che stiamo qui, nella parte più ricca dell’Europa, abbiamo tutto e quelli che stanno di fianco a noi non hanno i farmaci, non hanno un cazzo. Quindi si è iniziato a fare anche là la formazione sull’attivismo per i trattamenti. Per cui sono entrate un sacco di persone dell’Est, che, chiaramente, hanno bisogni ancora diversi rispetto ai nostri, a partire dall’accesso universale alle cure. Questi non sono passaggi banali, specialmente in un’associazione europea che raggruppa centinaia di persone che vengono da paesi diversi, con storie diverse, senza un background politico condiviso. Per esempio sul tema dei brevetti, dell’alto costo dei farmaci, dei farmaci generici, temi che a mio avviso sono centrali, non separabili dall’azione di advocacy, non tutte le associazioni si trovano d’accordo. L’industria farmaceutica sostiene che se i loro farmaci vengono “copiati”, o non possono più avere brevetti di 30 anni, non avranno più risorse per la ricerca, e quindi anche noi che viviamo in paesi ad alto reddito ne risentiremmo; purtroppo questa scusa ha molto presa su alcune associazioni. In questo tipo di attivismo, il rischio di diventare una lobby di pazienti che guarda solo i propri interessi, è molto presente. Ma se si ripercorre la storia dell’attivismo contro l’Aids è molto chiaro che il “core” di questo movimento ha le sue fondamenta nella ricerca di una “giustizia sociale” e della rimozione delle differenze in termini di accesso alle cure. Questo è il motivo per cui questo movimento è ancora vivo e vegeto.
La Lila fin dalla sua fondazione aveva ben chiari questi concetti, infatti era strutturata anche su altre cose. Infatti la Lila faceva anche riduzione del danno, faceva interventi sulla prostituzione, andava nelle scuole e faceva tante cose. Ad esempio, la Lila a Bologna è famosa perché aveva la casa alloggio, Act-up per esempio non aveva la casa alloggio. Molte associazioni avevano anche case alloggio per chi moriva, perché appunto magari aveva una storia di vita di strada; quindi si è trattato anche di fare assistenza, in senso stretto. La Lila poi è la prima che partecipa al primo programma di “scambio di siringhe”, un altro intervento che Act-up non aveva. Insomma, abbiamo anche noi la nostra storia. Certo, in un modo diverso, ma perché era diversa la popolazione, loro erano comunque probabilmente in una situazione anche di benessere economico in quel momento.
Per quello che riguarda me, l’HIV ha cambiato la mia vita, non so come sarebbe andata se non avessi incontrato il virus. Quello che posso dire è che sicuramente avremmo fatto a meno di tutta la sofferenza che ha causato e che causa ancora. Però non dobbiamo dimenticare che un gruppo, neanche tanto piccolo, di persone ha saputo reagire e ha rifiutato di sentirsi vittima o colpevole, si è autorganizzato e ha rigettato l’idea di essere considerato solo parte del problema e attivamente è stato parte determinante per la sua risoluzione. Una lezione che non va dimenticata.
Note biografiche
Craaazi. Il Centro di Ricerca e Archivio Autonomo transfemminista queer “Alessandro Zijno” emerge dall’esperienza di Atlantide a Bologna come gruppo istituente, nato per interrogare le forme di produzione, riconoscimento, circolazione, e messa a valore dei saperi e delle soggettività prodotti dalle lotte transfemministe e queer. Attualmente l’attività di Craaazi si concentra in particolare sul tema del valore e dell’autonomia queer, della cura – anche archivistica – dei saperi tfq e della loro riproduzione, della possibilità di inventare forme di organizzazione sostenibili per fare ricerca indipendente oltre il paradigma del lavoro gratuito.
Alessandra Cerioli. Ha contratto l’Hiv nel 1984, condizione diagnosticata nel 1986, è approdata al mondo dell’associazionismo nel 1997 aderendo alla Federazione Lila (Lega italiana per la lotta contro l’Aids). Dal 2004 fa parte dello European Aids treatment group (Eatg), organizzazione internazionale che si occupa di attivismo sui trattamenti su Hiv/Aids e patologie correlate. Dal 5 ottobre 2008 al 7 marzo 2015 è stata presidente nazionale della Lila. Dal suo approdo nel mondo dell’attivismo si è sempre occupata di sperimentazioni cliniche. Nel 2000 è stata coordinatrice del primo Community advisory board Italiano su Hiv. Dal 2008 al 2015 ha fatto parte del Board del tavolo tecnico sui trapianti in Hiv presso il Centro nazionale trapianti. Dal 2010 al 2015 ha fatto parte dell’expert panel che redige le Linee Guida Italiane sull’utilizzo dei farmaci antiretrovirali e sulla gestione diagnostico-clinica delle persone con infezione da HIV-1.
Diego Scudiero. Ha 60 anni e ha iniziato la sua militanza politica nel Circolo di Cultura Omosessuale XXVIII Giugno di Bologna nel 1980. Nel 1987 è stato tra i fondatori della Lila Bologna e ha contribuito alla nascita della Federazione nazionale.
(In copertina lo striscione «L’è méi un fiôl ledér che un fiôl busón» [in bolognese: È meglio un figlio ladro che un figlio omosessuale] che aprì il Pride del 26 giugno 1982 a Bologna, quando il circolo “XXVIII Giugno” ottenne dall’amministrazione comunale la gestione del cassero di Porta Saragozza)