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«Rompere con la dipendenza dal capitale fossile»: intervista a Paola Imperatore

“Profondo Nero”, il numero 64 di «Zapruder», a breve in distribuzione, si addentra nella storia/nelle storie del petrolio, con la convinzione che nella temperie odierna, fortemente segnata dall’urgenza di una fuoriuscita dall’economia del fossile, sia opportuno offrire una varietà di sguardi multidisciplinari, con un’attenzione particolare agli studi storici, utili a fare il punto sull’evoluzione delle traiettorie socio-politiche, culturali ed ecologiche segnate dal cosiddetto oro nero.

Tra i temi toccati nel numero, è centrale quello dei movimenti per la giustizia climatica e sociale; l’intervista di Francesca Gabbriellini e Silvia Pizzirani a Paola Imperatore, sociologa dell’Università di Pisa, prova a mettere a fuoco cosa si è mosso e si sta muovendo nel contesto italiano per ciò che concerne il conflitto sociale contro le infrastrutture petrolifere e per un ripensamento complessivo del sistema economico-produttivo. 

Buona lettura!

Paola Imperatore, «Rompere con la dipendenza dal capitale fossile»

a cura di Francesca Gabbriellini e Silvia Pizzirani

Nel tuo libro “Territori in lotta: Capitalismo globale e giustizia ambientale nell’era della crisi climatica” (Meltemi, 2023) trovano particolare spazio i movimenti territoriali che si attivano in risposta alla presenza di lungo periodo o all’implementazione di nuove forme di estrazione e lavorazione dei combustibili fossili. Quali sono le attuali mobilitazioni più importanti sotto questo aspetto sul territorio nazionale e che cosa ci dicono dell’impatto dell’industria petrolifera nella percezione del territorio e sulle pratiche di resistenza?

La percezione di questo tipo di insediamenti industriali è molto cambiata nel tempo. Lo sviluppo dei grandi poli petroliferi è avvenuto in una fase di industrializzazione e ricostruzione post-bellica del paese in cui il miraggio della crescita – che da lì a poco avrebbe portato al boom economico degli anni settanta – portava in qualche modo a guardare a questi impianti come a delle opportunità di sviluppo. Negli anni questa maschera è caduta, e si è visto che dietro all’idea di sviluppo sostenuta dal capitale fossile si nascondevano molte insidie: contaminazione, ricatto, distruzione del tessuto sociale, stravolgimento del paesaggio e soprattutto dipendenza, che è a mio avviso la parola chiave quando parliamo di fossile. Di tutto questo, i territori hanno assunto consapevolezza e hanno iniziato a mettere in campo forme di resistenza comunitarie che, pur nelle loro differenze, sono legate da un filo conduttore che è l’opposizione a un modello di governo eterodiretto dei territori, ben più recettivo alle richieste delle compagnie energetiche che alle istanze dei cittadini.

Dal movimento No Triv che si oppone a nuove trivellazioni, talvolta incassando delle vittorie come quella contro la piattaforma petrolifera Ombrina in Abruzzo, alla resistenza popolare contro il gasdotto Tap o il rigassificatore a Piombino, le mobilitazioni che hanno osteggiato l’avanzata del capitalismo fossile, nelle sue varie forme, si sono moltiplicate negli anni.

Queste lotte hanno dimostrano che queste “avventure” capitanate dalle grandi compagnie fossili sono totalmente irrazionali sia dal punto di vista ecologico che economico, ma vantaggiose perché condotte a danno delle casse pubbliche di uno stato che continua a dispensare ingenti sussidi e coprire i rischi d’impresa di questi colossi. Tuttavia, liberarsi da questa dipendenza che attanaglia la comunità non è facile, perché l’industria fossile si insedia distruggendo le economie locali e imponendosi come monocoltura da cui tutto il territorio dipende: se non volete restare tutti a casa senza lavoro è meglio che il mio impianto resti aperto; se volete fare l’evento culturale estivo o festeggiare il patrono del paese è bene che ci siano i fondi della mia impresa; se volete che la scuola, la biblioteca o la parrocchia vengano ristrutturate avete bisogno dei miei soldi. Questa è la modalità operativa di grandi capitali che arrivano in piccoli territori: contaminano i corpi-territori e distruggono il tessuto sociale, ma al contempo si propongono come gli unici in grado di salvare il territorio dal baratro. Questi meccanismi, che avvengono con la totale complicità e subordinazione delle istituzioni centrali, sono stati denunciati dai movimenti.

Il movimento No Tap in Puglia, per esempio, ha passato un’intera estate a smascherare i tentativi subdoli dell’azienda di finanziare feste, sagre, concerti, giornali, riuscendo a ottenere l’appoggio di moltissimi artisti che hanno boicottato e denunciato pubblicamente i tentativi di Tap di fare da sponsor agli eventi culturali. Ma, soprattutto, la contestazione ha messo in luce in modo plastico il rapporto tra stato e capitale fossile. Infatti, mentre tutte le istituzioni locali davano riscontro negativo alla realizzazione del gasdotto, le carte imponevano ulteriori accertamenti, e gli abitanti si riversavano in strada, il governo centrale non ha avuto idea migliore che scortare i camion di Tap per avviare il cantiere (senza peraltro le dovute autorizzazioni), per poi imporre una grande zona rossa militarizzata sul territorio. Tra Melendugno e Lecce si arriva a 650 operatori tra forze dell’ordine ed esercito, un rapporto persone in divisa/abitanti tra i più alti in Italia.

Dopo l’invasione russa in Ucraina del febbraio 2022 e il successivo sabotaggio del North Stream, il corridoio del Tap – che trasporta gas dall’Azerbaijan all’Italia – è diventato ancora più strategico. Davanti alle coste si sono disposte numerose imbarcazioni della Marina militare per sorvegliare il gasdotto, evidenziando ancora una volta il nesso profondo tra fossile, guerra e militarizzazione. Ecco cosa fa l’industria del fossile ai territori: li imbriglia nelle sue logiche di potere facendo finta di aver dato loro un’opportunità. E però, come si è visto, davanti a tutto questo, le comunità e i movimenti non sono rimasti in silenzio e hanno trovato nuove strategie di resistenza.

Le lotte contro la riproduzione del cosiddetto capitalismo fossile hanno saputo corroborare la propria visione e strategia politica assumendo un’ottica segnatamente intersezionale e ultimamente le università hanno testimoniato in maniera peculiare questo intreccio di sguardi, pratiche e rivendicazioni, in un’idea di trasformazione radicale dove tutto “deve tenersi” affinché possa dirsi tale…

Come dicevo poco fa, davanti alla trasformazione delle strategie del capitale fossile, anche i movimenti iniziano a ripensare le proprie pratiche. È con questo proposito che si inizia a guardare all’università. Infatti, se è vero che il capitalismo agisce in modo tentacolare, l’università va considerata sicuramente come uno di questi tentacoli. In questi anni, movimenti globali con varie articolazioni nazionali come EndFossil, nato nel 2022 e esploso in Italia con un ciclo di occupazioni nell’autunno 2023, hanno avuto la capacità inedita di rendere visibili le strategie culturali del capitale fossile che investono il piano della formazione e della ricerca. Sebbene bombardati per decenni dal mantra della neutralità del sapere, la contestazione dei movimenti ha preso di mira l’università e non è un caso: l’università, infatti, fornisce legittimità politica e strumenti che possono andare a favore della collettività o del mercato. È chiaro che, tra le due opzioni, le università sembrano aver privilegiato di gran lunga la seconda: gli accordi con le industrie fossili sono numerosi e costituiscono una minaccia concreta sia per l’indipendenza e autonomia della ricerca, sia per la sfida più complessiva legata al cambiamento climatico.

Interruzione degli accordi tra università e compagnie fossili e istituzione di corsi interdisciplinari sul cambiamento climatico sono le principali richieste che questo movimento globale ha posto alle proprie università. Poco dopo, questo percorso si sarebbe intrecciato con la nascita di un movimento universitario globale per la fine del genocidio del popolo palestinese e per la sua liberazione dall’occupazione israeliana, mettendo l’accademia davanti alle proprie responsabilità. Se il movimento del ’68 sfidava le gerarchie interne alle università e la disciplina che veniva imposta, questo ciclo di lotte sembra sfidare le istituzioni accademiche non solo rispetto alle loro logiche di potere interne, ma anche rispetto alla sua funzione politica nella società. Il sapere diventa così, su scala globale, un terreno di scontro nevralgico che trova nel nesso fossile/guerra ben rappresentato dall’intersezione tra movimenti ecologisti e quelli per la liberazione della Palestina il proprio punto di osservazione e azione.

Insieme al sociologo Emanuele Leonardi, hai pubblicato l’importante volume “L’era della giustizia climatica.  Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso” (Orthotes, 2023), che tanto sta contribuendo a disseminare un’idea di transizione ecologica “giusta”, che mette a verifica decenni di narrative sulla green economy e che rimette le lavoratrici e i lavoratori al centro dell’urgente processo di cambiamento ecologico-produttivo che occorre intraprendere. Che cos’è dunque una transizione “giusta” e quali movimenti credi che maggiormente la incarnino?

Il dibattito sulla transizione, più precisamente sulla transizione “giusta”, nasce nel contesto sindacale statunitense negli anni novanta. Tuttavia, la governance climatica ha fatto spesso un uso improprio di questo concetto, svuotandolo del suo senso e rendendolo sterile attraverso l’uso di un gergo tecnico che ha contribuito a depotenziarne il portato politico. Sembrava oramai una questione destinata a una nicchia di esperti o      aziende, quando il ciclo di mobilitazioni per la giustizia climatica ha ri-collettivizzato e ri-politicizzato questo tema, costruendo intorno a questo tema importanti mobilitazioni e fruttuose alleanze con i soggetti operai e i segmenti sociali più esposti a quella che nel libro chiamiamo “transizione dall’alto”    

La transizione dall’alto, oltre a incarnare un approccio tecnocratico, che esclude i soggetti coinvolti dal processo  concentrandosi esclusivamente sulle esigenze di mercato, si è rivelata assolutamente insufficiente sul piano ecologico e dannosa sul piano sociale, come hanno evidenziato le proteste dei Gilet jaune in Francia, di Just stop oil in Inghilterra      o la lotta innescata dal Collettivo di Fabbrica Gkn, a cui molto si deve in termini di elaborazione teorico-pratica di quella che designiamo come “transizione ecologica dal basso. La transizione dal basso per accompagnare la fuoriuscita dal fossile verso un’economia socialmente ed ecologicamente sostenibile non si risolve solo individuando l’oggetto della transizione, ovvero quali merci produrre  o da quali fonti di energia attingere, ma anche – e costitutivamente – individuando il soggetto di questa transizione.

Mettere al centro della transizione dal basso i territori, le comunità, i lavoratori e le lavoratrici, i sindacati, le organizzazioni sociali e le università, significa democratizzare un processo di trasformazione epocale delle nostre società che può essere all’altezza della sfida solo se pensato dalla collettività e per la collettività. La transizione non deve piegarsi ai capricci dei mercati, ma divenire strumento in mano alle persone e comunità che conoscono in modo diretto i propri territori e ambienti di lavoro, e a partire da questa conoscenza sono in grado di individuare le soluzioni migliori, in sinergia con le università e i centri di ricerca che possono giocare la loro parte in questa partita. Nel contesto della mobilitazione Gkn, la sinergia tra sistemi di conoscenza diversi, quelli operai e quelli accademici, ha portato alla stesura di tre piani di reindustrializzazione della fabbrica e due proposte di legge (contro le delocalizzazioni e per l’istituzione di un consorzio regionale per il recupero della fabbrica). Il dialogo tra questi saperi non si è risolto con una mera sommatoria di informazioni, ma con la costruzione di un punto di vista nuovo e trasformativo. Solo a queste condizioni credo che possiamo incamminarci verso una transizione giusta.

Nel prossimo numero di «Zapruder» la maggior parte dei contributi mette in luce, da punti di vista differenti, quanto la necessità di una trasformazione profonda del paradigma produttivo si scontri non soltanto con le culture del petrolio che strutturano politicamente, economicamente e socialmente il nord globale, ma anche, più in generale, con le narrative della crescita. Assistiamo, dentro e fuori l’università, a una ritrovata attenzione al ruolo delle politiche industriali, unitamente a riflessioni su alternative economiche ai modelli dominanti, come quelli della “decrescita” e “post-crescita”.  Quali sfide pongono queste tematiche alla galassia dei movimenti sociali contro le economie del fossile?

Il tema del paradigma produttivo è centrale, e non lo dico da una prospettiva meramente ideologica, ma proprio guardando il lato pratico. Se non iniziamo a chiederci per chi e per cosa viene prodotta l’energia, restiamo imbrigliati in un meccanismo energivoro che difende e riproduce se stesso all’infinito. Se continuano a espandersi i mercati, le produzioni di beni non necessari, la catena della logistica (che tutto è tranne che razionale), avremo inevitabilmente bisogno di sempre più energia. Sicuramente ci saranno più investimenti in parchi eolici e fotovoltaici (che hanno comunque un impatto ambientale), ma parallelamente si continueranno a estrarre fonti fossili, a investire nel nucleare, a trasformare la natura in energia per alimentare la catena del valore globale. Per le aziende del fossile non è un problema, semplicemente diversificano il loro portafoglio di investimenti, e di volta in volta, di paese in paese, scelgono l’energia più redditizia.

Di per sé, quindi, le rinnovabili non risolvono il problema della domanda (indotta) di energia, ma semplicemente si affiancano alle altre produzioni, preservando la posizione di potere delle stesse compagnie che giocano nel mercato delle fossili. Questa è la transizione dall’alto di cui parlavamo prima. Ripensare radicalmente modello produttivo mettendo in dialogo diversi filoni di pensiero (dall’ecosocialismo alla communist degrowth) e esperienze pratiche (es. Gkn, comunità energetiche, ecc.), rompere con la dipendenza dal capitale fossile a favore di un approccio incentrato sull’interdipendenza e la relazionalità, e decolonizzare il nostro immaginario per far fiorire mondi nuovi, costituiscono oggi le priorità collettive. 

In questi anni si è parlato di pluriverso, per sfidare l’idea che una soluzione che si adatti universalmente a tutto e tutti sia adatta a rispondere alle sfide attuali. Credo che da questo spunto possiamo apprendere molto, riconoscendo che ogni lotta, comunità e territorio ha una propria storia, e troverà linguaggi e forme di resistenza situate nel proprio contesto. L’importante è imparare a riconoscerci e pensarci come parte di uno stesso cammino.

     

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