Si è concluso il 19 dicembre 2024, in Francia, nel dipartimento del Vaucluse, il primo grado del processo contro Dominique Pelicot e altri 50 uomini. Il primo è stato condannato per aver drogato sua moglie Gisèle con un ansiolitico regolarmente prescritto e di averne organizzato lo stupro, quando era incosciente, per più di 200 volte e da parte di 80 uomini, contattati su una chat eloquentemente chiamata «à son insu» (a sua insaputa). 50 di questi (dai profili più disparati per età, mestiere, stato civile…) sono stati individuati, accusati e giudicati colpevoli. Pelicot ha inoltre filmato e meticolosamente archiviato (in una cartella del suo computer che ha chiamato «Abusi») queste violenze.
«La honte doit changer de camp» (la vergogna deve cambiare campo) ha affermato Gisèle, chiedendo che il dibattimento del “processo di Mazan” (dal nome del luogo di residenza della coppia) si svolgesse a porte aperte, in quanto il dispositivo del processo a porte chiuse partecipa alla colpevolizzazione delle vittime di violenza sessuale. Gisèle non ha niente da nascondere, la vergogna da esporre al giudizio anche pubblico è tutta dalla parte degli accusati. Molte femministe, a partire da questa presa di posizione, hanno fatto appello, come Lola Lafon, a fare, intorno a quel che succede al processo «un baccano d’inferno».
Per questo motivo abbiamo pensato di pubblicare alcune brevi interviste a partire dal “processo di Mazan” e dai tanti temi che sta facendo affiorare, con studios@ che di questi temi si occupano, ciascun@ a suo modo, in una prospettiva storica.
Prosegue il nostro contributo a quel necessario, sacrosanto «baccano d’inferno».
Todd Shepard, Fare un baccano d’inferno, al banco degli imputati
Sofia Bacchini, Francesca Capece, Maddalena Cataldi e Bianca Gambarana
Nel tuo lavoro, ti sei occupato di mascolinità e società francese all’indomani della guerra d’Algeria (1954-1962), osservando in particolare il fascino e la disapprovazione suscitati dall’ossessione per “l’uomo arabo”, sostenendo che questa “grammatica del discorso sessuale” post-decolonizzazione ha cambiato il volto della Francia contemporanea.
Nei media francesi, il processo di Mazan è stato spesso definito sia come il “processo della mascolinità tossica” sia come il “processo della mascolinità ordinaria”. Cosa pensi che il caso di Gisèle Pelicot dica rispetto alle mascolinità contemporanee? Cosa ci dice la pratica della soumission chimique (sottomissione chimica) sulla costruzione della mascolinità? A tuo avviso, quali sono gli aspetti di continuità e di rottura nella storia dell’evoluzione dell’identità maschile rispetto all’attualità?
Il processo di Mazan, con tutto l’orrore che ha rivelato e la grande attenzione che ha suscitato, offre certamente una lente efficace per interrogarsi sulla mascolinità e sull’identità maschile. Dal punto di vista dell’analisi storica, la prima cosa che vorrei sottolineare è l’enorme quantità di prove dettagliate di ciò che Gisèle Pelicot ha subito: oltre 20.000 immagini, molte delle quali filmate. Abbiamo accesso, inoltre, a ciò che quelle immagini mostrano, attraverso la mediazione dei giornalisti e altri, grazie alla straordinaria decisione della vittima di esercitare il suo diritto ad avere udienze a porte aperte. Questo non accade quasi mai. Gisèle Pelicot ha infatti deciso che i giornalisti dovessero rimanere nel momento in cui le immagini venivano mostrate, pur chiedendo che il pubblico lasciasse l’aula. Sappiamo che siamo tutti registrati in troppi momenti della nostra vita, volenti o nolenti, consapevolmente o meno, ma avere delle prove molteplici e dettagliate di questa abiezione, filmata a sua insaputa ma – sembrerebbe – con la consapevolezza di molti degli uomini coinvolti, è una cosa davvero eccezionale. Lo stupro è un atto sessuale, e dal momento che abbiamo a disposizione pochissime fonti di atti sessuali del passato in generale, ci è molto difficile distinguere ciò che è nuovo da ciò che non lo è. Un’altra apparente novità è che questi uomini sono entrati a far parte del progetto decennale di Dominique Pelicot tramite una chatroom francese, “coco.gg”, ora chiusa: ognuno di loro si è unito a una discussione chiamata “à son insu”, ossia “a sua insaputa”, e ha ricevuto un messaggio da Pelicot che diceva “sei come me, ti piace la modalità stupro”. La discussione che ne è seguita li ha condotti a casa sua, dove hanno violentato sua moglie. L’anonimato totale offerto dalle comunità online, tra cui coco.gg, rende difficile fare confronti con altre epoche e luoghi, in termini di connessioni che si possono creare o delle possibilità che possono essere al tempo stesso immaginate e pianificate. Ancora una volta, è difficile persino immaginare paralleli storici. La quantità di prove, le ragioni per cui esistono e il livello di voyeurismo di questo caso rendono difficile analizzarlo in relazione a ciò che pensavamo di sapere.
La tensione che la vostra domanda mette in evidenza – questo caso ci dice qualcosa sugli uomini (oggi) o svela una particolare forma “tossica” di mascolinità? – mostra quanto sia importante e difficile parlare di mascolinità o di identità maschile in quanto storic* o studios*. Per fortuna, atti politici – quelli di Gisèle Pelicot e di altr* che costringono a interrogarsi su questioni difficili e prove scomode – obbligano gli studiosi e le studiose a fare di più. La filosofa Simone de Beauvoir ha sottolineato come la mascolinità e l’identità maschile non fossero socialmente connotate, ma fossero la norma. Essere uomo era un aspetto dell’essere individuo; essere donna invece significava molto di più. Le femministe hanno ripetutamente messo in discussione questa idea, principalmente attraverso un’analisi critica della femminilità e dell’identità femminile, e in particolare del loro funzionamento (per esempio, come il “secondo sesso”). Questo ha permesso a studiosi e studiose di iniziare a decostruire entrambe. Solo più tardi, dagli anni ’90, si è iniziato a prestare un’attenzione mirata alla mascolinità e all’identità maschile.
Non sorprende che la maggior parte degli studiosi e delle studiose insista sul fatto che dobbiamo parlare di mascolinità al plurale e di identità maschili. Ci sono prove evidenti di quanto il significato di questi termini cambi radicalmente in diversi contesti geografici e culturali, oltre a essere mutato in modo sostanziale nel tempo. Per essere chiari, quali corpi vengono definiti maschili, quali comportamenti vengono considerati femminili o effeminati? I confini variano, possono sembrare strani a distanza, ma di solito risultano autoevidenti per chi fa parte dello stesso contesto. Tuttavia, le fonti dimostrano in modo lampante che queste definizioni mutevoli rimangono sempre strettamente legate a come una determinata società o un ambiente sociale definisce la femminilità e chi è femmina. Poiché la femminilità è quasi sempre socialmente connotata, ci sono molti più elementi su di essa, il che rende particolarmente importante, per comprendere il polo “maschile”, prestare attenzione a come i due generi interagiscono. Nel caso del processo di Mazan, ad esempio, il fatto che Gisèle Pelicot fosse la vittima “perfetta”– nulla di ciò che ha detto, indossato, bevuto o fatto poteva essere collegato a ciò che questi uomini hanno scelto di farle – ha contribuito a creare le condizioni per la sua decisione eccezionale di rendere pubblico il processo e le prove. Norme e regole che ancora gravano sulle donne rendono incredibilmente difficile prendere decisioni di questo tipo. È anche evidente quindi che le dinamiche di potere sono cruciali nel modo in cui il genere opera: certamente tra identità femminili e maschili e tra maschio e femmina, ma anche tra diverse mascolinità. Uno degli aspetti più inquietanti e rivelatori delle testimonianze del processo è stato il numero di stupratori reclutati dal marito che hanno raccontato di essersi sentiti intimiditi da lui: a causa della sua “corpulenza”, ma molto più spesso per la sua posizione sociale, ritenuta borghese, che per molti dei suoi complici era considerata “superiore” alla propria.
Negli anni ’90, il lavoro della sociologa marxista Raewyn Connell ha introdotto la categoria di “mascolinità egemonica” per evidenziare sia come diverse società inquadrassero le diverse forme della mascolinità, sia il fatto che vi fossero sempre mascolinità alternative, meno potenti e definite in relazione alla forma egemonica. Lavori storici più recenti, che trovo molto convincenti, spostano invece l’attenzione sul processo con cui si “diventa” e si “è” un uomo. L’obiettivo è rendere conto delle dinamiche di potere senza presupporre, semplicisticamente, una qualsivoglia coerenza della “mascolinità egemonica” o di qualsiasi altra identità. Ben Griffin, ad esempio, sostiene che analizzare gli aspetti performativi e le pratiche della mascolinità offra modi per cogliere quanto siano importanti le dimostrazioni e le rivendicazioni dell’ “essere un uomo” nelle società e per gli individui. Tali dimostrazioni e rivendicazioni, in molti casi, sono obbligatorie per coloro che sono identificati come uomini. Ciò che vuol dire “essere un uomo” cambia significato, da questa prospettiva, all’interno di una società, tra società diverse e anche durante la vita di un singolo individuo: ad esempio, le pratiche e la performatività di genere tipiche dell’età adolescenziale – sia per chi le mette in atto che per chi le osserva – raramente sono le stesse legate alla vecchiaia.
La pratica della sottomissione chimica, che era già diventata un tema di grande preoccupazione (le cosiddette “droghe dello stupro”), emerge come qualcosa di ancora più significativo nel caso di Mazan. Concordo con coloro che vedono nell’indebolimento di certe strategie per “tenere le donne al loro posto” un fattore chiave per cui questa modalità di controllo è oggi così in vista. Dalla metà del XX secolo, l’ “essere un uomo” ha perso alcuni fondamentali ancoraggi istituzionali: un aspetto piuttosto unico che si è cristallizzato esplicitamente nella Rivoluzione francese è stata la creazione di una categoria giuridica che pretendeva di comprendere tutte le “donne” come gruppo, per escluderle dall’esercizio della cittadinanza e da un’enorme quantità di altri diritti e possibilità legali legati all’essere un “individuo adulto”, che venivano così implicitamente riservati agli uomini.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, in Francia (come in Italia), le donne hanno iniziato a ottenere il diritto di voto; più lentamente, altre restrizioni legali sono svanite. È scomparso un confine giuridico che garantiva a tutti i membri della categoria “uomini” determinati diritti (“suffragio universale [=maschio adulto]”). Anche i tentativi di escludere le donne da vasti settori dell’economia “moderna”, in particolare dalla produzione industriale, hanno iniziato a sgretolarsi. Naturalmente, in Francia, le forme nazionali e ufficiali di identificazione continuano a insistere sulla distinzione maschio/femmina, e vi sono molti sforzi per mantenere tali marcatori di differenze.
Le affermazioni degli storici riguardo alla pluralità delle forme di mascolinità e delle identità maschili sono piuttosto facili da dimostrare nella maggior parte delle epoche e dei contesti, tranne in uno. La distinzione tra maschi/femmine e maschile/femminile, nella maggior parte delle società, era rilevante, ma nella maggior parte delle società variava enormemente tra i diversi gruppi, ad esempio tra nobili e contadini, sacerdoti e guerrieri, liberi e schiavi. Nessuno, nella Francia prerivoluzionaria, avrebbe pensato che la regina e una contadina appartenessero allo stesso gruppo. La ragione per cui oggi gli studiosi enfatizzano la molteplicità delle identità è quindi legata alle storie contemporanee (occidentali), in cui le regole giuridico-politiche e i molti altri sviluppi che le hanno accompagnate hanno reso necessario riconoscere gli “uomini” come una categoria unica. Ma grazie all’attivismo femminista, questo insieme omogeneo, senza precedenti storici, è diventato meno rilevante. “Essere una donna” o essere femminile ha sempre implicato una serie di pratiche e performance fortemente normate, esplicitamente limitate (legalmente e in altri modi) e connotate socialmente. Queste definizioni hanno iniziato a perdere di importanza nell’ultimo mezzo secolo. La definizione dell’essere un uomo, o essere virile, per questa stessa ragione si è fatta meno chiara. Ciò che sembra centrale è che la condizione femminile soffre meno per l’allentamento di questi limiti, che offre a tutte le donne la possibilità di esercitare stili di vita più personali e flessibili, mentre dall’altra parte, al di fuori della connotazione “maschile, tutti gli uomini dispongono di basi meno solide da cui proclamare la propria individualità. Dalla metà del XX secolo, in paesi come la Francia si è continuato a trasformare sia il modo in cui le mascolinità e le identità maschili funzionano, sia i loro significati. Se il binarismo di genere sembra rimanere fondamentale, allo stesso tempo ha perso i pilastri che ne chiarivano il funzionamento. Questo ha destabilizzato molti.
Tuttavia, l’orribile pratica della sottomissione chimica è un prodotto specifico dei nostri tempi: il simbolismo di ciò che ha fatto il marito di Gisèle Pelicot – pubblicizzare l’accesso sessuale alla moglie drogata, di cui almeno ottanta uomini hanno approfittato – si legge come un rifiuto diretto dell’idea che le donne abbiano autonomia sessuale. Di fatto, si sovrappone perfettamente all’ecosistema online e di estrema destra che alcuni chiamano la manosfera[1], ben rappresentato forse da un post con cui il neonazista statunitense Nicholas Fuentes celebrava la sconfitta elettorale di Kamala Harris per mano di Donald Trump: “your body, my choice, forever”. Il movimento #MeToo e le lotte correlate hanno portato alla ribalta la questione dell’autonomia sessuale delle donne. Le iniziative per rendere lo spazio pubblico più accessibile alle donne hanno messo in discussione il modo in cui uomini, che possono esprimere diverse definizioni di mascolinità, comprendono il mondo. È importante leggere questo caso, così come la politica “maschilista”, come parte di una reazione contro l’idea che coloro che vengono definite donne e/o femminili debbano avere il diritto di vivere il sesso e le interazioni erotiche secondo i termini che ogni persona sceglie o quantomeno accetta.
La violenza della dominazione coloniale è stata paragonata da alcune storiche femministe alla violenza della dominazione di genere, e in alcuni casi è sembrata essere un elemento costitutivo nella costruzione della mascolinità. Puoi aiutarci a riflettere su questa relazione, alla luce di ciò che è stato detto durante o a proposito del processo di Mazan (da femministe, media, ecc.)?
Fare confronti o cercare connessioni con altri sistemi di dominazione è un’operazione complessa, ma necessaria. Parte della difficoltà deriva dal modo in cui le conoscenze legate al colonialismo e alle sue eredità sono oggi diffuse in Francia e hanno influenzato la discussione stessa sul caso Mazan. Durante il processo, per esempio, abbiamo assistito al tentativo concertato da parte di alcuni commentatori di estrema destra di classificare il caso nell’unico schema che accettano per discutere della violenza sessuale e della vittimizzazione delle donne: la presunta “Grande Sostituzione” dei bianchi in Francia da parte di presunti “afro-maghrebini”. Hanno infatti deviato l’attenzione su una notizia infondata secondo cui Pelicot cercasse attivamente uomini neri e nordafricani perché sua moglie era razzista. L’umiliazione di Gisèle Pelicot, allora, poteva essere paragonata a ciò che gli antirazzisti cercavano di imporre ai razzisti.
Su un altro piano, durante il processo, uno degli stupratori ha dichiarato a quella che sembrava essere una giuria interamente bianca di provenire dalla Guinea, “un paese colonizzato dalla Francia”, un tentativo tra molti di confondere le acque. Entrambi gli esempi ci ricordano che il “colonialismo”, per come lo intendiamo oggi, è profondamente implicato nei processi di razzializzazione. Quando parliamo di colonialismo, il riferimento è agli imperi occidentali moderni d’oltremare, in cui paesi dotati di armi moderne hanno imposto il loro dominio su altre società, definite per questo motivo “inferiori”. Sono esistite, ovviamente, altre forme di dominazione coloniale, che non si basavano su simili assunti.
Come per il genere, potremmo dire che l’epoca contemporanea ha ridefinito il colonialismo: da modalità di organizzare le differenze attraverso gerarchie multiple, a uno schema in cui colonizzati e colonizzatori sono stati assimilati ai binarismi di base – moderno vs non moderno, civilizzato vs non civilizzato, bianco vs non bianco. Tuttavia, se il colonialismo moderno ha rispecchiato i moderni regimi di genere per il modo in cui la differenza è stata binarizzata, si è però fondato su forme di violenza costantemente più brutali per mantenerne il perimetro, mentre i colonizzati erano sottoposti a una minore sorveglianza e pressione sociale rispetto alle donne nelle società occidentali. Entrambi questi “sistemi” entrarono in crisi a metà del XX secolo, in gran parte perché coloro che stavano in basso seppero sfidarli con successo, fossero femministe o anticolonialisti. Ha quindi senso pensare la dominazione di genere insieme alla dominazione coloniale, soprattutto oggi, di fronte ad atti evidenti o emergenti di imperialismo da parte degli Stati Uniti, di Israele o forse della Russia. Il confronto potrebbe non reggere sul piano analitico per gli studiosi e le studiose, ma può ancora avere un ruolo politico importante, così come negli anni Settanta quando la femminista statunitense Andrea Dworkin paragonò le conseguenze delle interazioni tra uomini e donne a “Dachau”.
I dati evidenziano un trend interessante relativo alla violenza coniugale in area europea, ovvero un aumento dei casi di “violenza letale” a fronte di una diminuzione dei casi di “violenza non letale”. Il caso di GP, pur non essendo letale in senso stretto, è comunque caratterizzato da una brutalità impressionante, che eccede i confini delle violenze coniugali più comuni e ricorrenti. Tuttavia, per quanto brutale, non si tratta di una violenza “letale”, ovvero di un femminicidio: quali sono i diversi significati che possono essere attribuiti alle diverse forme, e ai diversi esiti, della violenza maschile sulle donne? Esiste una differenza qualitativa tra le violenze legate alla pretesa di possesso e controllo del corpo femminile, come appunto lo stupro, e quelle che portano alla sua distruzione, o possiamo collocarle in una sorta di continuum?
La distinzione tra violenza letale e non letale si basa su un criterio chiaro – la sopravvivenza o meno della vittima – che tuttavia viene messa in discussione dai dibattiti sulla violenza sessuale. Come suggeriscono femministe e altre critiche, gli effetti riguardano non solo l’integrità ma anche l’autonomia del corpo delle vittime. Questi argomenti ci spingono a guardare oltre il danno inflitto alla funzione fisica, per considerare il danno all’identità del sé.
Sì, mi sembra chiaro che parlare di continuum sia molto utile, sia dal punto di vista femminista sia da quello accademico, ma abbiamo anche ragioni per essere cauti nel fare di questa intuizione la base per giudizi legali o decisioni istituzionali. Come le femministe scoprirono negli anni Settanta, in Francia, negli Stati Uniti e altrove, il ricorso al sistema giudiziario comportava dei rischi, tra cui la complicità con il classismo strutturale, il razzismo e la misoginia. Guardando al processo Pelicot, un aspetto che colpisce è che ogni uomo condannato ha ricevuto una sentenza individualizzata, anche se tutti hanno ricevuto pene severe.
Mantenere le differenze, quando possibile, sembra importante, soprattutto data l’urgenza con cui oggi si cerca di reinscrivere binarismi semplici nel nostro modo di pensare e di governare.
Quale impatto ha, e può avere, la presa di parola maschile in questa vicenda? Al coro di voci che continuano a ripetere “not all men” sembra affiancarsi questa volta, in maniera più netta, la volontà da parte di alcuni uomini di mettere in discussione i crismi della mascolinità, disarticolandone l’essenzializzazione e l’identificazione con la dominazione e la violenza, ad esempio tramite la firma di un piano d’azione. Si tratta di una novità, dovuta a una minore tolleranza sociale della violenza di genere e a una maggiore preoccupazione delle autorità pubbliche (si pensi per esempio alla Convenzione di Istanbul del 2011), oppure è un fenomeno che ha dei precedenti storici?
A partire dagli anni Settanta, piccoli gruppi di uomini hanno cercato di capire come combattere la violenza sessuale. Questo è avvenuto in quei paesi in cui le femministe sono riuscite a imporre una discussione pubblica sullo stupro come fenomeno diffuso, che colpiva donne e ragazze con conseguenze devastanti. La sfida principale, come mostra la storica Lucy Delap, è stata il confronto di questi uomini con la propria sessualità nel senso più ampio: il modo in cui interagivano con donne e ragazze e il piacere che, in molti casi, traevano da interazioni che, con il tempo, hanno iniziato a percepire come problematiche.
In modo parzialmente analogo, nel mio lavoro sulla “rivoluzione sessuale” nella Francia degli anni Settanta e i militanti per la liberazione omosessuale, è stato sorprendente osservare la rapidità con cui le loro attitudini nei confronti delle femministe sono cambiate non appena queste hanno iniziato a concentrarsi sulla violenza sessuale. Scrittori gay che fino a poco prima avevano considerato le femministe come le più grandi alleate della liberazione sessuale hanno improvvisamente cominciato a denigrarle come arpie, puritane e collaborazioniste. Molti altri uomini, allo stesso modo, sono passati rapidamente dall’essere alleati all’essere critici.
In breve, non sono sicuro che le femministe possano contare molto sulle voci maschili, soprattutto se gli uomini si organizzano separatamente dalle donne. Ma è significativo che, in Francia, le voci che mettono più in guardia dal trarre troppe conclusioni dal caso Mazan siano proprio quelle di alcune donne – come la filosofa Sylviane Agacinski, che ha messo in guardia su quanto la giustizializzazione del sesso rischi di contrapporre uomini e donne “come due eserciti in guerra”, o la sociologa Nathalie Heinich, che ha espresso il timore che possa ispirare un “neo-femminismo da incubo” – simili alle dichiarazioni di alcune celebri donne francesi in difesa della “libertà di importunare” degli uomini in risposta al movimento #MeToo.
Tutte queste voci cercano di affermare “un’eccezione francese”, che vuole contrapporsi esplicitamente agli approcci “americani” e/o “musulmani” della gestione della differenza sessuale. Dubito che il processo di Mazan riuscirà a minare seriamente queste narrazioni nazionaliste. Ma ciò che conta è che fornisce nuove basi e prove immediate e devastanti a coloro che la pensano diversamente.
[1] La manosfera è una rete di comunità maschili online contrarie all’emancipazione delle donne e che promuovono convinzioni antifemministe e sessiste. In tutti questi contesti si assiste a un’iperproduzione di discorsi sulla mercificazione della figura femminile, rivisitazioni problematiche delle nozioni di stupro e consenso sessuale, teorie pseudoscientifiche sui rapporti interpersonali e sui criteri di selezione sessuale. Per approfondire il tema consigliamo Debbie Ging, Alphas, Betas, and Incels: Theorizing the Masculinities of the Manosphere, «Men and masculinities», n. 4, vol. 22, 2017, pp. 638-657.
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