Si è concluso il 19 dicembre 2024, in Francia, nel dipartimento del Vaucluse, il primo grado del processo contro Dominique Pelicot e altri 50 uomini. Il primo è stato condannato per aver drogato sua moglie Gisèle con un ansiolitico regolarmente prescritto e di averne organizzato lo stupro, quando era incosciente, per più di 200 volte e da parte di 80 uomini, contattati su una chat eloquentemente chiamata «à son insu» (a sua insaputa). 50 di questi (dai profili più disparati per età, mestiere, stato civile…) sono stati individuati, accusati e giudicati colpevoli. Pelicot ha inoltre filmato e meticolosamente archiviato (in una cartella del suo computer che ha chiamato «Abusi») queste violenze.
«La honte doit changer de camp» (la vergogna deve cambiare campo) ha affermato Gisèle, chiedendo che il dibattimento del “processo di Mazan” (dal nome del luogo di residenza della coppia) si svolgesse a porte aperte, in quanto il dispositivo del processo a porte chiuse partecipa alla colpevolizzazione delle vittime di violenza sessuale. Gisèle non ha niente da nascondere, la vergogna da esporre al giudizio anche pubblico è tutta dalla parte degli accusati. Molte femministe, a partire da questa presa di posizione, hanno fatto appello, come Lola Lafon, a fare, intorno a quel che succede al processo «un baccano d’inferno».
Per questo motivo abbiamo pensato di pubblicare alcune brevi interviste a partire dal “processo di Mazan” e dai tanti temi che sta facendo affiorare, con studios@ che di questi temi si occupano, ciascun@ a suo modo, in una prospettiva storica.
Il nostro contributo a quel necessario, sacrosanto «baccano d’inferno».
Simona Feci e Laura Schettini, Fare un baccano d’inferno. Intervista su violenza, mobilitazione collettiva, autodifesa e consenso
Sofia Bacchini, Francesca Capece, Maddalena Cataldi e Bianca Gambarana
Qualche anno dopo aver curato La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (Viella, 2017), Simona Feci e Laura Schettini sono tornate a proporre un lavoro collettivo, come una sorta di continuazione della riflessione avviata allora sulla violenza di genere, con L’autodifesa delle donne. Pratiche, diritto, immaginari nella storia (Viella, 2024). Un libro che vuole essere l’avvio di un archivio delle tante e diverse forme di difesa messe in campo dalle donne nella storia e che si propone esso stesso come «strumento di autodifesa collettiva e femminista». Nell’introduzione (richiamando anche il lavoro di Elsa Dorlin) le curatrici fanno riferimento alla «considerazione secondo cui i soggetti storici costruiti come prede – le donne e i popoli colonizzati, per esempio – sono (stati) sistematicamente rappresentati ed educati come se fossero “senza difesa”. Incapaci e impossibilitati a reagire e a disarmare la violenza dei rapporti di potere e di dominio, perché più deboli, perché in minoranza, perché al cospetto di forze soverchianti», nonché all’«ingranaggio fondamentale di questa rappresentazione – che funziona al suo meglio se si fa percezione di sé che addirittura inibisce la «reazione muscolare», lo scatto –» e che consiste nella «metodica rimozione delle storie di resistenza, autodifesa e contrattacco dal piano dell’immaginario e dei saperi» perché «se qualcosa non è mai accaduto, se non esiste neanche nei sogni, difficilmente è pensato e immaginato come possibile e realizzabile». La battaglia si svolge quindi anche sul piano degli immaginari e delle narrazioni (e quindi, a margine, sul piano della riflessione e della ricerca storica): da una parte individuando quegli elementi, tanti, che partecipano tutt’ora concretamente a riprodurre la violenza e dall’altra scrivendo, recuperando, trasmettendo le tante e diverse pratiche messe in campo dalle donne nella storia per sottrarsi e per rispondere alla violenza, così da rendere l’autodifesa delle donne pensabile innanzitutto, e quindi agibile.
In questa prospettiva ci sembra che il processo di Mazan assuma un significato che è molto più che simbolico.
Per questo, proseguendo il percorso che ci ha portato a dialogare prima con Aïcha Limbada e poi con Nadia Maria Filippini, abbiamo posto a Simona Feci e Laura Schettini alcune domande che consentano di mettere in prospettiva la vicenda, il processo e la mobilitazione intorno a Gisèle Pelicot.
Cosa ci dicono questo processo, l’emozione e il dibattito che sta scatenando, se accostati alla lunga storia della violenza contro le donne?
Simona: Il processo di Mazan ha portato sulla scena un’esperienza di violenza all’apparenza eccezionale, per la natura, la forma, il metodo e le dimensioni e, come è occorso già altre volte, si è rivelato un percorso attraverso cui quella vicenda è divenuta capace di far entrare in risonanza i vissuti individuali e trasformarli in una esperienza di mobilitazione collettiva. In questo caso, grazie ad alcune scelte decisive come la celebrazione a porte aperte, il rituale si è fatto detonatore di una più matura riflessione sulla violenza. I fatti raccontati – cioè un insieme di violenze reiterate in modo compulsivo, metodico e tramato nella complicità maschile – provocano al tempo stesso sgomento ma anche una eco di familiarità: chi infatti non conosce o non riconosce la pervasività di comportamenti e posture come l’impossessamento del corpo femminile, la pretesa subdola di usarne a proprio piacimento, la spartizione tra uomini, l’irrilevanza della persona della donna (pensiamo alla violenza sessuale come reato contro la persona) e della sua volontà, financo la irrisolta duplicità tra il buon padre di famiglia, di cui Pelicot sembrava incarnare un ottimo esempio anche agli occhi della sua stessa famiglia, e il predatore sessuale? La storia della violenza sessuale e della violenza di genere ha dimostrato come tutto ciò sia stato parte dell’armamentario usato in modo sistematico per fissare e riprodurre i rapporti di potere disuguali ed evidentemente è ancora largamente attivo. La recente indagine tedesca sui canali Telegram in cui un complesso di 70.000 iscritti di molte nazionalità diverse si scambiano consigli su come stuprare donne, anche loro compagne, ha messo in prospettiva la rete di Pelicot e dei 50 complici, confermando che quest’ultima non è un fenomeno isolato, da rubricare sotto l’ombrello rassicurante della patologia o della criminalità, ma qualcosa di più organico alle relazioni tra i generi.
Gisèle ha compiuto un rovesciamento del discorso importante con le sue prese di posizione pubbliche, perché «la honte doit changer de camp»: ha scelto di disfarsi dell’immagine di “vittima perfetta”, completamente passiva e di rovesciare il peso della vergogna sui suoi stupratori, mostrando al pubblico la loro “ordinarietà” il loro aspetto “familiare”, ha scelto di non rimanere sola in aula di fronte a quei, numerosissimi, aggressori. Alla fine, in un rovesciamento totale anche simbolico, ha addirittura dichiarato di aver scelto di conservare il cognome da sposata durante il processo, Pelicot, perché i suoi nipoti non debbano vergognarsi di essere nipoti di Dominique, ma possano invece andare fieri di essere nipoti di Gisèle. Come vedete il fatto che una singola donna, seppur sostenuta da un più ampio movimento d’opinione e politico, si faccia carico pubblicamente di una questione così intrinsecamente collettiva, e culturale, come la violenza di genere: è un rischio, una potenzialità o entrambi?
Simona: Innanzitutto azzarderei che Gisèle rappresenta la ‘vittima perfetta’ ideale: cioè una donna rispettabile, che si è ritrovata a essere completamente innocente, passiva e inerme di fronte alla violenza. I contorni della vicenda, quindi, sono stati un trampolino efficace per sfuggire alle trappole della vittimizzazione secondaria, per intestare senza esitazione la responsabilità morale e materiale dell’accaduto sugli autori delle violenze e per coagulare la mobilitazione collettiva. Gisèle è stata coraggiosa ma, ancora una volta, si accoda ad altre donne che, protagoniste in Francia così come in Italia di processi che hanno fatto la storia della lotta contro la violenza, hanno alzato la voce, si sono espresse in modo attivo e discordante rispetto a quanto la società si aspettava e per questo hanno potuto diventare figure rappresentative, vettori di mobilitazione e cambiamento.
Caroline Darian, la figlia di Gisèle Pelicot, ha fondato e presiede un’associazione che si occupa della prevenzione della Soumission chimique («M’endors pas» “non mi addormentare”); ci ha detto Aïcha Limbada che questa è una pratica antica. Il dibattito attuale, suscitato dal processo di Mazan, mostra una polarizzazione tra due modi di comprendere la sottomissione chimica: secondo alcuni/e commentatori/trici rimanda a un immaginario sessuale (anche pornografico) deviante/trasgressivo, secondo altri/e invece la droga/farmaco è solo un espediente pratico, ovvero il dispositivo moderno che permette di organizzare una cosa vecchia come il mondo : la dominazione del corpo e l’annichilimento della volontà di chi ne è vittima (= rendere una persona un oggetto). Secondo voi cosa c’è di specifico nella sottomissione chimica e cosa invece avvicina questa ad altre forme di dominazione?
Laura: Io credo che la sottomissione chimica – anche se questa espressione secondo me non basta – merita di essere presa in considerazione non tanto per verificare se è una novità o se è sempre esistita. Piuttosto sono le questioni che solleva e che porta allo scoperto che hanno bisogno di essere fatte oggetto di riflessione. Non ho risposte definitive, ma intravedo dei nodi: la sottomissione chimica, per quello che ci restituiscono i servizi di analisi criminale e le cronache, compresa quella del processo di Gisèle o quelle di processi anche molto celebri oggi in Italia che vedono coinvolti rampolli di importanti uomini politici, è un rituale di gruppo, che coinvolge generalmente almeno due uomini e spesso molti di più. Il ricorso alla sottomissione chimica è in crescita tra le nuove generazioni, al pari degli stupri di gruppo, per esempio. Mi sembra che tutto questo deve allora prima di tutto interrogare la partita che si gioca tra maschi, i riti di passaggio che si danno o a cui sono spinti, i modi attraverso cui si realizza il riconoscimento (anche di potere) tra uomini. Ecco, io di fronte al piacere ricavato da un corpo inerme, da una donna che di fatto non è lì, non è partecipe, credo sia arrivato il momento di mettere sotto analisi chi rimane e si muove sulla scena: uomini in gruppo, o comunque non da soli.
Un secondo tema che vedo lievitare è ovviamente quello del consenso. Sappiamo benissimo che la considerazione del consenso femminile è cambiata nel tempo, soprattutto grazie ai movimenti femministi, e che fino alla fine del secolo scorso era poco e niente preso in considerazione. Lo testimonia per tutti l’istituto del matrimonio riparatore, in vigore in Italia fino al 1981, che prevedeva che il reato di stupro si estingueva se l’autore sposava la “vittima”, accordo raggiunto al di sopra della sua volontà. I femminismi hanno fatto una lunga battaglia per imporre che il rifiuto, il no di una donna doveva bastare. «No means no», c’era sui manifesti. La sottomissione chimica, insieme ad altre circostanze, hanno reso problematico questo traguardo e messo sul piatto l’urgenza di costruire una cultura della sessualità che valorizzi non solo l’accettazione del limite, del rifiuto, ma soprattutto l’espressione cosciente del desiderio. Si tratta di un cambiamento culturale importante, intorno a cui dovremmo lavorare.
Il processo di Mazan è stato brutale in alcuni suoi aspetti. Alla pronuncia della sentenza Gisèle Pelicot avrà passato quasi 4 mesi in una stanza gomito a gomito con una cinquantina di persone che l’hanno aggredita e violentata. Sembrerebbe ancora un’esperienza traumatica. Eppure, la richiesta che il processo venisse svolto a porte aperte è stata avanzata dalla stessa Gisèle, che, non a caso, è tornata a rimarcare l’importanza di questa scelta nella prima dichiarazione rilasciata dopo la sentenza. Questa modalità non solo ha innescato un ampio dibattito in Francia e all’estero sullo stupro e sul suo portato culturale e politico, ma ha anche permesso a tante femministe di accompagnarla al processo assistendo dalla sala vicina. La presenza di gruppi e associazioni in tribunale richiama direttamente alcune forme di azione politica messe in campo anche in passato: come scrivono Gallicchio e Stelliferi nel saggio del vostro volume che racconta i processi per aborto o per stupro che si svolsero a porte aperte tra anni Settanta e Ottanta, è in questo modo che anche il tribunale diventa oggetto di una “risignificazione politica degli spazi dominati da uomini”, rendendo possibile quello “slittamento dal privato al pubblico” che costituisce la cifra distintiva della lotta femminista. In che senso, secondo voi, ciò si può considerare una forma di autodifesa collettiva?
Laura: Se non corressi il rischio di sembrare troppo provocatoria direi che, alle parole di Gisèle «la vergogna deve cambiare campo», sarebbe bene aggiungere anche che «la paura deve cambiare campo». La partecipazione femminista, e prima femminile, ai processi ha svolto molte funzioni e tra queste certamente il tentativo di far sentire giudici, avvocati, pubblici ministeri, imputati sotto osservazione, vigilati, non credo sia stata di poco conto nel processo di lenta trasformazione delle condotte giudiziarie. Chiunque ha visto il documentario Processo per stupro (1979) credo sia rimasta come me colpita dalla spudoratezza con cui giudice, pubblico ministero, avvocati difensori ammiccavano tra loro irridendo Fiorella, pur rappresentando teoricamente parti e funzioni diverse, se non opposte.
Altrettanto rilevante è ovviamente anche il fatto che la presenza e il supporto delle donne non lasciava sola la donna che aveva denunciato, comunicava forza e produceva sostegno materiale. Inoltre, la partecipazione ai processi, negli anni Settanta sotto lo slogan “Per ogni donna stuprata e offesa siamo tutte parte lesa”, ha significato e significa anche un’altra cosa: ribadire che la violenza non è un fatto individuale né privato, ma che chiama in causa le asimmetrie di potere tra uomini e donne e la cultura della sessualità. Le donne, le femministe che partecipano ai processi, sono e sono state lì anche per ribadire una lettura fondamentalmente politica della violenza maschile.
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