È uscito per Carocci e verrà presentato domani a Roma (29 Aprile | 17:00 c/o Fondazione Lelio e Lisli Basso, more info qui) il libro di Andrea Tappi e Javier Tébar Hurtado “La Resistenza e la Transizione spagnola a scuola. Storia e memoria del passaggio dalle dittature alla democrazia” (Carocci 2025) che analizza la memoria e la didattica della Resistenza e della Transizione post franchista (l’indice qui).
Quando ha pronunciato la sua ultima lezione alla Scuola Normale superiore di Pisa, Andrea Giardina, entrato a scuola a metà degli anni 50, ha detto di non aver ricevuto nessuna lezione, nessun corso di storia sulla guerra, sul fascismo e sulla Resistenza in nessuno dei suoi anni di istruzione (primaria e secondaria). E ha aggiunto che, con questa cosa inaccettabile, lui non è ancora “placato”. In effetti, ogni riferimento al fascismo era stato eliminato dagli insegnamenti dalla commissione di epurazione dei manuali presieduta dal pedagogo statunitense Carl Washburne. Anche se l’insegnamento e la discussione sulle esperienze partigiane era già l’elemento caratterizzante della pedagogia dei convitti di Rinascita, un’esperienza di scuola popolare maturata a guerra ancora in corso per iniziativa di alcuni partigiani della repubblica dell’Ossola (Luciano Raimondi e Guido Petter, in primis) e aperti già dal 1945, è solamente durante le discussioni sulla legge Scelba (legge 20 giugno 1952, n. 645) che questa discussione viene affrontata in Parlamento, dove, abbastanza unanimemente, si ritiene importante ampliare i programmi e di rivedere i manuali al fine di diffondere tra le nuove generazioni i valori dell’antifascismo. Restati a lungo lettera morta, nel clima infuocato che seguì la formazione del governo Tambroni nel luglio 1960 con l’appoggio esterno dell’Msi, questi propositi verranno messi in atto dal terzo governo Fanfani, per quel che riguarda i programmi dei licei classici, dei licei scientifici e degli istituti magistrali, nel 1960 (D.P.R. 6 novembre 1960, n. 1457).
Tutti questi elementi si trovano nel libro pubblicato quest’anno per Carocci da Andrea Tappi e Javier Tébar Hurtado, che ritorna sulla traiettoria storica che ha portato la storia della Resistenza italiana e della Transizione spagnola sui libri di testo adottati dalle rispettive scuole pubbliche, restituendo le cronologie e i dibattiti che ne hanno accompagnato l’emergere. Gli autori mettono al centro un confronto sulla storia della Resistenza e sulla Transizione spagnola come prisma per indagare, attraverso il contesto scolastico, la rielaborazione del dibattito pubblico e storiografico e anche «l’applicazione di un approccio allo studio della storia consapevole e metodologicamente fondato».
Analizzando un folto gruppo di manuali, i due autori realizzano una storia che considera questi testi come “vettori di uno studio consapevole della storia e come specifici prodotti culturali, al fine di individuare la relazione tra la ricerca accademica e i testi, verificare l’applicazione delle conoscenze storiche e decifrare quali messaggi trasmettono nel campo della formazione civica e politica”. Interessa anche sottolineare che gli autori considerano che i manuali partecipano a formare la “coscienza storica”, risultato di un’attività intellettuale (l’apprendimento della storia) «volta a interpretare il passato, a comprendere il presente e a formulare aspettative per il futuro».
Per questo abbiamo voluto porre ad Andrea Tappi qualche domanda sulle nuove Indicazioni nazionali per l’insegnamento della storia nel ciclo della scuola primaria e secondaria di primo grado del Ministro dell’istruzione e del merito (di cui ci eravamo già occupati nei giorni scorsi) e sul dibattito che si è sviluppato intorno alla loro adozione.
Partiamo dalle nuove Indicazioni nazionali…
La pubblicazione delle Indicazioni nazionali da parte del Ministero dell’istruzione e del merito, che dovrebbero entrare in vigore dall’anno scolastico 2026/27, è stata in qualche modo l’occasione per ritornare a parlare anche di insegnamento della storia a scuola. Un’occasione, tuttavia, dal sapore amaro, perché nel merito e nel metodo le Indicazioni non solo non costituiscono un passo in avanti, ma rispecchiano e acuiscono il pessimo stato della storia studiata nelle scuole. Ancor prima che il documento vedesse la luce nel marzo scorso, alle prime indiscrezioni sul suo contenuto, le associazioni degli storici e delle storiche, di didattica e alcune di pedagogia hanno iniziato a segnalare con vigore i principali difetti della storia che si vorrebbe insegnata nelle aule. Il testo che, al modo dei testimoni di Geova, esordisce con una frase decontestualizzata tolta dall’Apologia della storia di Marc Bloch («Solo l’Occidente conosce la storia»), propone infatti una prospettiva marcatamente nazionalista, eurocentrica e neocoloniale, esaltata dall’evocazione emotiva di determinati momenti della storia nazionale. Inoltre, muovendo da un impianto fortemente prescrittivo, prevede un ritorno al nozionismo e si fonda sulla convinzione che lo studio della storia sia funzionale a esprimere un giudizio morale sul passato piuttosto che a stimolare l’abitudine a problematizzarlo. D’altra parte, vengono ignorati temi come l’alfabetizzazione storica, il pensare storicamente, la coscienza storica e il rapporto fra formazione storica e potere politico, come pure il rapporto fra storia accademica e sapere storico diffuso. Non minori polemiche ha suscitato il metodo tenuto dalla commissione ministeriale, presieduta dalla pedagogista Loredana Perla, che nel 2023 ha pubblicato un pamphlet dal titolo significativo Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo scritto a quattro mani con Ernesto Galli Della Loggia, a sua volta a capo della sottocommissione nominata per la stesura del curricolo di storia. A dispetto delle dichiarazioni ministeriali di avviare una fase di consultazione con le associazioni professionali e disciplinari, con le associazioni dei genitori e degli studenti e con le organizzazioni sindacali della scuola, a oggi è stato distribuito nelle scuole un questionario chiuso, che solo prevede la possibilità di riportare un commento di appena 250 caratteri. Questionario che peraltro può essere compilato esclusivamente dal dirigente scolastico senza il coinvolgimento del collegio dei docenti. Del resto, nei mesi la commissione non ha mostrato alcun interesse per le istanze provenienti dagli addetti ai lavori, nella direzione di aggiornare il testo e di rivedere un’interpretazione generale che subordina la storia a uno specifico progetto politico.
Quali sono i precedenti?
Un analogo atteggiamento di chiusura si è verificato anche in passato, provocando un generale senso di disorientamento tra le associazioni didattiche nazionali all’indomani della promulgazione della legge 28 marzo 2003, n. 53, di delega al governo sulla riorganizzazione del sistema scolastico, per impulso del ministro Moratti durante il secondo governo Berlusconi. Disorientamento dovuto per un verso alla volontà dell’esecutivo di non far trasparire all’esterno i nomi dei responsabili né le modalità di lavoro del gruppo che stava mettendo mano alla riforma e, per un altro, ai contenuti dello studio della storia che per le superiori avrebbero previsto lo «sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla collettività nazionale ed alla civiltà europea». Delusione tanto più cocente in considerazione del fatto che tale chiusura tagliava di netto con il recente passato, quando il tentato riordino dei cicli scolastici, voluto dal ministro Berlinguer ottant’anni anni dopo Gentile aveva alimentato lo scambio con le parti sociali e con gli esperti di settore, guadagnando alla riforma della scuola e all’insegnamento della storia una visibilità pubblica oggi impensabile.
Insieme alla sconfitta elettorale del centrosinistra nel maggio 2001 veniva vanificato anche il lavoro della commissione composta da 250 esperti, nominata dal suo successore nel secondo governo Amato, il noto linguista Tullio De Mauro, per compilare un decreto attuativo che desse corpo ai nuovi cicli e alle programmazioni delle diverse materie riformate. Per quanto riguarda la storia, venivano proposte tre fasi di un curricolo verticale che si sarebbero dovute sviluppare lungo tutto il corso degli studi e che riguardavano la «grammatica» della disciplina (gli strumenti del sapere storico), la «sistematica» (la conoscenza organica della materia) e i «percorsi» (approfondimenti particolari). Sul piano dei contenuti, per la prima e ultima volta venne affermata l’assoluta e fondamentale novità di sostituire la tradizionale impostazione eurocentrica con un’impostazione mondiale, che prima ancora di essere mortificata dalla vittoria di Silvio Berlusconi, venne tuttavia disconosciuta da un’eletta schiera di storici accademici, trentatré dei quali sottoscrissero il manifesto dal titolo Insegnamento della storia e identità europea. Oltre al merito dei contenuti, il dato rilevante è che, nonostante l’esito negativo dell’iter legislativo, il tentativo di riforma avviato da Berlinguer e proseguito da De Mauro costituì un tornante fondamentale, in quanto coincise probabilmente con l’ultimo grande terreno di confronto pubblico sui problemi della didattica e sullo specifico dei contenuti dell’insegnamento della storia, che neanche la polemica nel 2018 seguita alla soppressione della traccia specifica di argomento storico all’esame di stato ha poi saputo eguagliare.
Nel libro tentate di dar conto di alcune problematiche strutturali che pesano sull’insegnamento della storia alle superiori…
La pubblicazione delle nuove Indicazioni nazionali rappresentano in realtà l’ultimo capitolo di una vicenda che assume i connotati di un vero attacco alla disciplina. Vale la pena di ricordare che il monte ore alle superiori ha subito una decisa decurtazione negli ultimi quindici anni, sia per l’accorpamento della storia con la geografia al biennio sia per la sua diminuzione da tre a due ore nell’ultimo anno (quello dedicato interamente allo studio del Novecento) dei licei linguistici e scientifici. In alcuni casi, come in molti istituti professionali, i collegi dei docenti hanno dovuto votare la modifica dei piani orari a decorrere dall’anno scolastico 2018/19. Così, in nome di una programmazione «per competenze» da snodare per «assi culturali», che avrebbero assegnato a quello storico-sociale tre ore complessive, l’insegnamento della storia si è trovato con una sola ora di lezione alla settimana durante il biennio.
Sotto la stessa lente va letta anche l’introduzione nel 2019 dell’Educazione civica in ogni ordine di scuola. Sin dal 1958 l’educazione civica era sempre stata associata all’insegnamento della storia e integrata nel suo programma oppure inserita sotto il nome di “Cittadinanza e costituzione” nell’ambito delle aree storico-geografica e storico sociale con la cosiddetta riforma Gelmini del 2008. L’attuale legge prescrive invece che la responsabilità dell’educazione civica ricada su una pluralità di docenti, ognuno dei quali deve rinunciare a una parte delle sue ore curricolari a tutto detrimento della programmazione didattica e del sapere disciplinare proprio della materia che insegna. Sintesi mal riuscita di sedici proposte diverse e di una legge di iniziativa popolare, sotto l’egida della Lega e dell’allora ministro dell’Istruzione leghista Bussetti, il curricolo di Educazione civica viene elaborato attorno a tre nuclei, di cui uno era tradizionalmente un ambito dell’insegnante di storia, ossia quello relativo alla Costituzione. Ora questo nucleo sulla Costituzione è affiancato da quelli inerenti allo sviluppo sostenibile e alla cittadinanza digitale. Questa riorganizzazione ribalta il rapporto privilegiato che l’educazione civica aveva stabilito con la storia. L’insegnante si vede quindi doppiamente privato della possibilità di lavorare nella propria classe a partire dalla sua specializzazione in storia, per un verso vedendosi sottrarre ulteriori ore curricolari e per un altro dovendo rinunciare alla prerogativa di inglobare l’educazione civica nella sua programmazione e con essa di declinarla in chiave storica. Peraltro, all’inizio di questo anno scolastico Valditara ha rivisto le Linee guida della materia, con una curvatura in chiave identitaria nazionale. Per esempio, accanto allo studio delle bandiere e degli inni nazionali ed europei compare un’inquietante accentuazione del concetto di patria, con un esplicito collegamento all’art. 52 della Costituzione («La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino»). Inoltre, nonostante nel testo siano aumentati i rimandi alla storia, di fatto, l’insegnamento sarà esclusivamente affidato ai docenti delle discipline giuridiche ed economiche, nel caso frequente che essi siano presenti nell’ambito dell’organico dell’autonomia delle scuole, a causa dell’esubero di personale degli istituti dove erano precedentemente impegnati. Come è legittimo e giusto aspettarsi, a questi insegnanti, formati in discipline diverse dall’ambito storico, non può essere richiesta una lettura contestualizzata della Costituzione e dei concetti in essa richiamati. A quest’ultimo aspetto è d’altronde collegato quello dell’atavica scarsa specializzazione degli insegnanti di storia. Per esempio, alle superiori nessuna norma è intervenuta finora a modificare l’abbinamento dell’insegnamento della storia alla filosofia o all’italiano, con il risultato che quasi mai i docenti di storia sono laureati in discipline storiche. Le classi di concorso cui fanno riferimento i laureati in storia appaiono di fatto, ancor più che in passato, altamente contendibili da parte di specialisti con una formazione universitaria orientata ad altri indirizzi. La classe di concorso in filosofia e storia (ex 37/a) prevedeva infatti il possesso, oltre che in storia, di lauree in discipline filosofiche e al massimo in pedagogia, mentre con la nuova classe a/19, introdotta nel 2016 lo spettro delle lauree magistrali concorrenziali con gli storici si è allargato a sei, riducendo quindi i margini della specifica specializzazione disciplinare nei percorsi formativi iniziali. Lo stesso dicasi per l’altra classe di concorso che dà accesso all’insegnamento della storia alle superiori, la 50/a (materie letterarie negli istituti di istruzione secondaria di secondo grado, ora a/12). In questo caso, le quattro lauree in discipline storiche esistenti fino al 2016 concorrevano con altre quindici, mentre ora la sola laurea in storia compete con altre undici.
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