Il 27 maggio 2021 il presidente Emmanuel Macron, in visita a Kigali, ha ammesso una “responsabilità” francese nel genocidio ruandese che causò l’uccisione di almeno 800.000 persone. Abbiamo chiesto a Michele Vollaro di illustrare il rapporto problematico fra relazioni internazionali, ricostruzione storica e memoria ufficiale.
La Francia e il genocidio in Ruanda
di Michele Vollaro
Il discorso del presidente francese Emmanuel Macron, pronunciato lo scorso 27 maggio davanti al memoriale dedicato alle vittime del genocidio in Ruanda, è stato salutato come un punto di svolta fondamentale nelle relazioni tra Parigi e Kigali. Furono almeno 800.000 le persone, principalmente tra la minoranza tutsi ma anche tra gli hutu moderati, uccise nei massacri andati avanti nel Paese dell’Africa orientale per circa un centinaio di giorni, dal 7 aprile al 15 luglio 1994. Più volte infatti l’attuale presidente ruandese Paul Kagame ha accusato le autorità francesi, all’epoca sotto la guida di François Mitterrand, di aver sostenuto il precedente governo dominato dalla maggioranza hutu e di aver avuto quindi un ruolo nelle uccisioni. In questo articolo non ho l’ambizione di ripercorrere quegli eventi, né tantomeno di trattare le relazioni “privilegiate” tra Francia e continente africano, ma piuttosto di provare a osservare le dinamiche dell’appropriazione politica e dell’uso pubblico della storia nei rapporti tra un Paese dell’Europa e uno dell’Africa a partire dal discorso di Macron (qua potete vedere l’intervento di Macron oppure leggere la sua trascrizione).
Nel suo intervento al Memoriale del Genocidio di Kigali Macron non ha presentato le scuse della Francia ma ha invece ammesso le “responsabilità” di Parigi, perché la Francia «non ha ascoltato le voci di coloro che l’avevano avvertita, o ha sopravvalutato la sua forza pensando di poter fermare il peggio». La Francia, ha proseguito Macron, «non ha capito che, volendo prevenire un conflitto regionale o una guerra civile, era in realtà al fianco di un regime genocida» e ha perciò «assunto una responsabilità schiacciante in una spirale che ha portato al peggio, anche se stava proprio cercando di evitarlo». Ma, ha precisato ancora il presidente francese, «gli assassini che infestavano le paludi, le colline, le chiese non avevano il volto della Francia. La Francia non è stata complice». Parole che sono state accolte con grande soddisfazione da Kagame, che nel corso della successiva conferenza stampa congiunta con il suo omologo francese ha così commentato: «È stato un discorso potente, con un significato speciale, relativo a ciò che accade oggi, e che avrà un’eco al di là dei nostri confini». Anzi, secondo Kagame, le parole del presidente francese «hanno avuto un significato più importante di semplici scuse: si è trattato della verità e dire la verità è pericoloso, ma si fa, perché è giusto, anche quando costa, anche quando è impopolare».
Tanto da un punto di vista storiografico quanto da quello politico, il discorso sarebbe in realtà molto più complesso e non semplicemente riconducibile alla questione delle scuse e della richiesta del perdono. Basti in questo senso citare il recente intervento sul quotidiano «Le Monde» del filosofo camerunese Achille Mbembe, considerato tra i maggiori teorici del postcolonialismo e nominato dallo stesso Macron per preparare il vertice istituzionale Africa-Francia previsto a ottobre a Montpellier. Evidenziando come anche la politica delle scuse e del perdono abbia i suoi limiti perché «le scuse non hanno senso se non hanno conseguenze concrete per la persona che le fa», Mbembe ha ricordato infatti che il Ruanda non ha mai fatto della richiesta di scuse alla Francia un prerequisito per la normalizzazione dei rapporti con Parigi. Allo stesso tempo, il filosofo camerunese – che ha definito una «sfida storica» quella che sta portando avanti Macron per mettere fine al ciclo della cosiddetta Françafrique – ha comunque sottolineato che «la politica della memoria non può essere utilizzata come strumento di soft power», aggiungendo che sarebbe necessario «smettere di collegare le lotte per la memoria alle lotte per l’identità intesa come differenza insormontabile» e «sostituire la politica della differenza con la politica dell’essere in comune».
Quella di Macron è stata la seconda missione di un capo di Stato francese nel Ruanda postgenocidio, dopo che già Nicolas Sarkozy si era recato in visita nel febbraio 2010 allo stesso Memoriale. In quell’occasione anche Sarkozy, nel corso di una conferenza stampa con Kagame, parlò di «un errore di valutazione» da parte della Francia che non seppe vedere la dimensione genocidaria di quanto stava accadendo nel Paese africano. «Quello che è successo qui obbliga tutta la comunità internazionale, compresa la Francia, a riflettere sugli errori che hanno impedito di prevenire e fermare questo spaventoso crimine», aveva dichiarato Sarkozy aggiungendo inoltre:
«Lasciamo che gli storici facciano il loro lavoro. Non sono uno storico, ho detto solo alcune cose secondo il mio punto di vista. […] Ma c’è il lavoro degli storici. Come possono lavorare gli storici? Con un po’ di tempo e un po’ di senno di poi. La riconciliazione invece non può aspettare e il presidente Kagame ha già cominciato. Il lavoro degli storici deve seguire invece la sua strada».
Il richiamo sulla libertà di ricerca degli storici fatto da Sarkozy, che durante il suo mandato all’Eliseo sostenne con forza una controversa legge sul genocidio armeno, serve d’appiglio per ricostruire quei passaggi che porteranno al successivo discorso di Macron, la cui visita a Kigali è stata preceduta una decina di giorni prima da un viaggio di Kagame a Parigi e dalla pubblicazione lo scorso marzo di un rapporto realizzato da una commissione di studiosi istituita proprio per studiare gli archivi francesi, inclusi quelli militari, relativi al Ruanda e al genocidio dei tutsi accedendo in questo modo a fonti in parte ancora secretate. Alla guida della commissione è stato chiamato Vincent Duclert, storico francese che dal 2013 ricopre un ruolo presso l’Ispettorato generale del ministero dell’Educazione nazionale ed è stato tra 2016 e 2018 presidente di una missione di studio dello stesso ministero sulla ricerca e l’istruzione su genocidi e crimini di massa che ha raccomandato di inserire il massacro ruandese nei curriculum scolastici francesi. La richiesta di istituire una commissione incaricata di esaminare gli archivi francesi per valutare l’effettivo ruolo avuto da Parigi era stata avanzata in più riprese da diversi storici nel corso dell’ultimo ventennio, ma ad accelerare la sua creazione è stata la pubblicazione nel corso del 2018 di una serie di articoli su «Le Monde» in cui venivano citati anche documenti ancora riservati delle istituzioni competenti. Secondo la lettera d’incarico indirizzata quindi ad aprile 2019 da Macron a Duclert, obiettivo della commissione sarebbe stato quello di offrire un punto di vista critico-storico sulle fonti consultate, analizzare il ruolo e l’impegno della Francia in Ruanda durante questo periodo, tenendo conto del ruolo degli altri attori internazionali coinvolti e contribuire al rinnovamento delle analisi storiche sulle cause del genocidio dei tutsi, nonché sul suo svolgersi, «in vista di una maggiore comprensione di questa tragedia storica e di una sua migliore inclusione nella memoria collettiva». Ma è soprattutto l’assenza dalla commissione di due studiosi come Stéphane Audoin-Rouzeau ed Hélène Dumas ritenuti tra i migliori ricercatori specializzati sul genocidio dei tutsi a suscitare aspre polemiche in seno alla categoria degli storici sulla legittimità stessa della commissione proposta da Macron, spingendo per esempio Christian Ingrao a promuovere una petizione per denunciare l’esclusione di Audoin-Rouzeau e Dumas dal comitato di esperti.
Al netto di queste polemiche, che hanno chiaramente anche una parte di loro motivazioni interne e corporative, il lavoro della commissione guidata da Duclert produce un rapporto lungo quasi mille pagine che porta a una doppia conclusione: seppure le ricerche negli archivi non abbiano mostrato una complicità francese nel genocidio, le autorità di Parigi sono rimaste impegnate a lungo al fianco di un regime che si è macchiato di massacri razzisti.
«La ricerca stabilisce un insieme di responsabilità, pesanti e travolgenti», recita il documento che dà anche un parere sulla operazione Turchese condotta dalle forze armate francesi sotto mandato delle Nazioni Unite con l’obiettivo di porre un limite ai massacri in corso nel Paese giudicandola tardiva e inefficace. Queste responsabilità, prosegue ancora il documento, «sono politiche nella misura in cui le autorità francesi hanno mostrato continua cecità nel loro sostegno a un regime razzista, corrotto e violento», ma sono anche istituzionali, intellettuali, etiche e morali.
Tali conclusioni sono quindi alla base del discorso di Macron che, rispedendo al mittente le accuse di complicità, ha voluto finalizzare il riavvicinamento al governo di Kigali attraverso una formula che potremmo definire di ‘responsabilità senza dolo né colpa’ poiché prive di coscienza e volontà della condotta.
Responsabilità che è richiamata anche in un altro rapporto sul coinvolgimento della Francia nel genocidio, commissionato questa volta però dal governo ruandese allo studio legale statunitense Levy, Firestone & Muse e pubblicato ad aprile di quest’anno, la cui conclusione senza mezzi termini è che «lo Stato francese ha una pesante responsabilità per aver consentito che si verificasse un genocidio che era ampiamente prevedibile». Per molti anni, affermano i redattori, lo Stato francese ha sostenuto il regime del presidente ruandese «corrotto e assassino» Juvenal Habyarimana. I funzionari francesi hanno «armato, consigliato, addestrato, attrezzato e protetto il regime ruandese, a prescindere dalla volontà del regime del presidente Habyarimana di disumanizzare i tutsi in Ruanda e, garantire, a termine, la loro distruzione e la loro morte», si legge nel rapporto. Gli autori del rapporto commissionato da Kigali, nel sottolineare che in molte parti le constatazioni della commissione Duclert combaciano con le loro, precisano tuttavia come i due studi differiscano profondamente nelle valutazioni conclusive. In particolare su due punti, gli autori del rapporto Muse – che hanno volutamente atteso la pubblicazione del rapporto Duclert – evidenziano la distanza con quanto stabilito dalla commissione di studiosi francesi. In primo luogo, pur riconoscendo una responsabilità francese nel genocidio, secondo gli autori del rapporto Muse la commissione Duclert non ha chiarito in cosa sia effettivamente consistita tale responsabilità. In secondo luogo, poi, gli studiosi incaricati da Macron ritengono che le autorità francesi non si sarebbero accorte che era in preparazione un massacro dei tutsi, mentre la mole di documenti disponibili dimostrerebbe piuttosto che si è trattato di una scelta deliberata, cioè continuare ad appoggiare il regime genocidario al fine garantire il mantenimento degli interessi francesi in Ruanda.
A fronte della mole documentaria a cui hanno avuto accesso gli autori dei due rapporti, in particolare la commissione di storici francese, il risultato che emerge è quello di una lettura sicuramente approfondita delle fonti disponibili ma allo stesso tempo priva di quell’analisi critica al centro degli studi post-coloniali, che avrebbe contribuito senz’altro ad approfondire meglio il ruolo effettivamente svolto dalla Francia prima, durante e dopo il genocidio. L’uso di un determinato lessico e linguaggio nelle note diplomatiche, la concezione etnicistica del potere e la centralità dell’amicizia tra i presidenti Mitterand e Habyarimana che in diversi casi spinge ufficiali governativi francesi a ritrattare loro precedenti dichiarazioni per allinearsi alla ‘ragion di Stato’ della Françafrique sono tutti elementi che, soprattutto nel rapporto Duclert, sono affrontati marginalmente riproponendo una prospettiva storiografica classica e impedendo in questo modo di allargare il quadro al contesto politico, sociale, culturale e antropologico in cui le istituzioni politiche, diplomatiche e militari francesi agivano effettivamente nel periodo della crisi ruandese.
Le differenze esistenti tra le conclusioni dei due rapporti, che hanno evidentemente permesso a Kagame di accettare la responsabilità francese senza scuse né colpevolezza, mostrano però con chiarezza i limiti della commissione istituita da Macron e, in generale, di un’indagine assegnata agli storici il cui committente è la stessa autorità statuale che di quella indagine dev’essere l’oggetto. Resta però aperto l’interrogativo su quale sia stato il vantaggio di creare una commissione che ha avuto libero accesso a fonti di archivio altrimenti secretate se poi, com’è effettivamente avvenuto, questi documenti non sono stati sufficienti per circostanziare le responsabilità istituzionali di quanto verificatosi. Il dubbio, così come in occasione del provvedimento legislativo che prevedeva il carcere per chi negava il genocidio armeno, è che il discorso di Macron sul genocidio dei tutsi più che essere indirizzato al pubblico ruandese, e in generale africano, per illustrare una parità di rapporti sia stato in realtà pronunciato per essere ascoltato soprattutto in patria, come chiave per un riavvicinamento con un Paese partner dell’Africa, in vista del prossimo appuntamento con le elezioni presidenziali previste nel 2022.
In copertina: foto via Wikimedia.
Bibliografia orientativa
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(2017) Une initiation. Rwanda 1994-2016, Paris, Seuil.
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(2014) Rwanda: mille collines, mille traumatismes, Bruxelles, Nevicata.
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(2000) Hutu-Tutsi: alle radici del genocidio ruandese, Torino, Bollati Boringhieri.
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(2016) La radio e il machete. Il ruolo dei media nel genocidio in Rwanda, Formigine (MO), Infinito.
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