Ecce Mater! L’inquisizione italiana novecentesca
di Tamara Roma
Eccoci alla seconda (e ultima) parte di un contributo che apre una riflessione su maternità, aborto e difesa ipocrita della vita, ricostruendone la genealogia fino ad arrivare ai giorni nostri, con uno sguardo volutamente critico e di parte. Leggi l’atto primo qua.
L’aborto, a partire dai cambiamenti avvenuti nell’Ottocento, passando per gli stati totalitari fino a oggi, continua a rivelarsi il perno intorno a cui ruota il dibattito di parte del panorama politico, Chiesa e dei movimenti prolife. L’atteggiamento della società nei confronti dell’aborto svela più semplicemente quello verso le donne stesse, riconosciute solo nel loro potenziale riproduttivo e nel ruolo di madri: laddove tale visione è più radicata (ne sono un esempio oltre all’Italia, la Polonia e l’America latina) l’accesso all’aborto non a caso tende a essere ostacolato o vietato, rivelando lo storico connubio tra tradizione fascista propria di alcuni ambienti di destra e intransigenza cattolica (Furedi 2016).
L’Italia più di ogni altro paese, accanto alla legislazione di matrice fascista – che sanciva giuridicamente i ruoli e fondava la società su matrimonio, famiglia e supremazia maschile vietando divorzio, contraccezione e aborto – aveva ed ha la particolare caratteristica dell’ingerenza della Chiesa cattolica, la quale individuava e individua tuttora nella donna il «collante della famiglia tradizionale» (Balzano e Flamigni 2015, p. 26).
Il codice Rocco, Codice penale fascista italiano, considerava l’aborto un delitto contro l’integrità della stirpe, prevedendo da sette a dodici anni per aborto senza consenso della donna (art. 545), da due a cinque alla donna consenziente (art. 546) e a chi lo procurava con il suo consenso (art. 555), e infine da uno a quattro anni alla donna che se lo procurava (art.547). Fino al 1978 il diritto penale italiano ha quindi costretto le donne a partorire o, in alternativa, rischiare di morire di aborto clandestino o essere denunciate se fossero sopravvissute.
A Padova agli inizi del 1970 Gigliola Pierobon venne invitata a presentarsi in procura per un interrogatorio: qualcuno aveva fatto il suo nome come colei «a conoscenza dell’indirizzo di una donna che fa quelle cose», ma l’interrogatorio si spostò ben presto sul piano personale: «come nella caccia alle streghe». Lola si ritrovò a dover confessare «di aver visto il diavolo perché l’inquisitore fosse soddisfatto», quindi a dover confessare un aborto avvenuto sei anni prima (Pierobon 1974, p. 27). Dalle parole della stessa Pierobon emergono le contraddizioni della società italiana degli anni settanta, chiusa in un silenzio moralistico appoggiato e portato avanti da istituzioni scolastiche, famiglie, politica e Chiesa: la (dis)educazione sessuale era nelle mani di un prete, non esisteva dialogo con la famiglia ma solo il pudore e il senso di colpa per essere stata “notata”, lo sfruttamento del corpo da parte degli uomini, l’abbandono e il terrore di una gravidanza indesiderata. Durante il processo, apertosi il 5 giugno 1973, non ci fu alcun interesse nel ricostruire la vita della ragazza, la provenienza e la motivazione che l’avesse spinta alla scelta.
Al contrario di ciò che accadde nel 1972 in Francia nel processo di Bobigny a Marie-Claire Chevalier che, proprio per la potenza e l’impatto sull’opinione pubblica di voci autorevoli e numerose testimonianze, fu alla base della discussione e promulgazione della legge Veil sull’ivg (1975), il processo Pierobon avvenne all’insegna dell’attacco sul piano morale e dell’infangamento a livello sessuale (Perini 2014).
L’attenzione rimase sul corpo, sulla posizione delle gambe, sul dolore fisico, sul suo utero: si volle sapere tutto, ogni dettaglio di un corpo che venne ulteriormente martoriato e sezionato. Le femministe presenti in aula si autodenunciarono cercando di mostrare come il problema “della Pierobon” fosse di tutte le donne.
Dopo l’umiliazione di un interrogatorio inquisitorio e dopo la violenza di una perizia ginecologica per “accertare” l’avvenuto aborto, all’imputata venne concesso il perdono giudiziale (dopo la condanna) dichiarando estinto il reato. Nonostante la magistratura avesse mostrato segni di disagio di fronte all’applicazione del “vecchio” codice Rocco e nello specifico dell’art. 546, tanto da sottolinearne l’arretratezza anche durante la sentenza, con il processo Pierobon ne ribadì la sua validità in quanto garante dei “veri valori” da rispettare.
Solo il 18 febbraio 1975 la Corte costituzionale italiana ha ritenuto fondata la questione dell’illegittimità dell’art. 546 del Codice penale nella parte in cui l’aborto era punibile anche qualora fosse accertato il grado di necessità. La novità della sentenza fu giudicare la pericolosità non più solo a livello fisico, ma anche in riferimento all’equilibrio psichico: nonostante venisse ribadita la tutela del concepito, con il richiamo ai diritti del fanciullo, allo stesso tempo si affermò che il feto non potesse essere considerato “persona” se non dopo un determinato periodo di gestazione e che i diritti della donna, in quanto già “persona”, venissero prima di quelli del concepito. La sentenza è stata alla base di quel vuoto normativo che, insieme ad anni di lotte, consultori autogestiti, autodenunce, petizioni, convegni, processi e morti per aborto clandestino, ha portato alla promulgazione della legge 194 del 1978 Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza.
L’esempio della legge 194/78: autodeterminazione o gentile concessione?
La promulgazione della l. 194/78, seppur salutata come una vittoria, non fu nel complesso giudicata positivamente dalle femministe perché al suo interno l’autodeterminazione non venne di fatto riconosciuta. La legge, varata dal governo del “compromesso storico”, è essa stessa un compromesso: gli strumenti per il suo boicottaggio si trovano nel suo testo evidenziando sul piano culturale quanto le donne non avessero e non abbiano ancora diritto al controllo del proprio potenziale riproduttivo.
Fin dal titolo la legge rivela il suo scopo reale: parlare di maternità in una legge che regolamenta le ivg significa accentuare che essa va protetta e di conseguenza che l’aborto non è né scelta né tantomeno diritto, ma semplice e “gentile” concessione dello stato alla donna quando sussistono determinati motivi, quest’ultimi valutati dal medico. La legge inizia con un’accezione religiosa, quella della “procreazione” che deve essere cosciente e responsabile: il suo compito è quello di proteggere «il valore sociale della maternità» e tutelare la «vita umana fin dal suo inizio» (art. 1).
La costituzione (art. 2) afferma tuttavia che la repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali dove si svolge “la sua personalità”. Ma l’embrione, dal momento che vive nell’organismo di un altro individuo, può essere considerato come singolo?
L’art. 2 della legge autorizza i consultori, «sulla base di appositi regolamenti o convenzioni», ad avvalersi «della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni di volontariato», permettendo al Movimento per la vita, nato in opposizione alle battaglie per la legge sull’aborto, e oggi ad altri gruppi come Provita, di siglare contratti, partecipare a bandi, finanziare e aprire i loro centri di aiuto alla vita in consultori e ospedali pubblici. L’art. 5 consente ai medici di concedere alla donna sette giorni di sospensione per poter “riflettere” ulteriormente sulla decisione, e con l’art. 9 si accorda al personale sanitario la possibilità di avvalersi dell’obiezione di coscienza, sottraendosi dall’assistere le donne richiedenti.
Come mai è così difficile rispettare i diritti sessuali e riproduttivi?
In un contesto culturale in cui la donna e il suo corpo sono legati all’idea di generazione, tutela e cura della vita, la possibilità di riconoscere spazio a decisioni che contemplano la volontà di non riprodursi e di interrompere la gravidanza non vengono prese del tutto in considerazione (Balzano e Flamigni 2015).
Oggi, tuttavia, consentire a una persona di interrompere una gravidanza indesiderata significa prendere atto in primis che non sono esclusivamente le donne biologiche a ricorrere all’aborto. Pertanto, la questione di fondo che l’interruzione volontaria di gravidanza pone ai nostri sistemi sociali è quindi il riconoscimento della autodeterminazione: occorre avere un corpo in grado di generare per abortire, e questo rompe gli schemi dell’uguaglianza formale tra uomini e donne rivelando la competenza soggettiva su maternità e sessualità.
Aborto e famiglia naturale: la crociata antigender
La Chiesa e le proposte politiche neoconservatrici vedono nella restaurazione della famiglia tradizionale, maschilista ed eterosessuale, dei ruoli di genere e della maternità come unico vero destino femminile, un modo per contrastare i mutamenti apportati nella concezione della sessualità, dei generi e della genitorialità, ma a differenza del passato anziché opporsi alla “modernità” la combattono con i suoi stessi strumenti (Turina 2013).
Dagli anni ottanta, ma più marcatamente negli anni novanta e duemila, l’attivismo neocattolico e prolife è tornato alla ribalta con un’offensiva che si presenta come la diretta conseguenza delle “innovazioni” del pontificato di Giovanni Paolo II: la critica mossa a seguito della Conferenza di Pechino (1995) alla categoria di gender perché in grado di “denaturalizzare” l’ordine tra i sessi; la riformulazione della dottrina cattolica riguardante corpo, sessualità e famiglia; il riconoscimento di un genio femminile e dell’uguaglianza e complementarietà dei soggetti all’interno della coppia eterosessuale; e infine l’appello lanciato ai cristiani di agire “attivamente” nella vita civile e sociale (Garbagnoli e Prearo 2018).
Il “rinnovato” dibattito sull’aborto è coinciso, anche e non a caso, con quella rivoluzione tecnologica che negli stessi anni ha investito l’ambito della gravidanza: grazie alle immagini fetali molto più chiare rispetto al passato è nata una vera e propria «fascinazione per il feto» (Piontelli 2020, p. 37) che ha permesso il depotenziamento della donna incinta in quanto soggetto più prossimo al feto. Senza questo disancoramento il “parlare per il feto” prolife non sarebbe stato possibile: il feto è stato estratto e ricostruito come oggetto e soggetto di particolare tipo mentre la donna cancellata o messa «in scena come antagonista» (Haraway 2019, p. 89).
La personificazione e vittimizzazione del feto non fa altro che alimentare pregiudizi sessisti in quanto la sua presunta vulnerabilità viene descritta in antagonismo all’egoismo della donna che intende abortire. In questo modo il feto può essere presentato come bisognoso di qualcuno che parli per lui.
Ma parlare per il feto significa sottrarre voci alle donne.
Gruppi neocattolici e/o prolife transnazionali per battaglie globali
La crociata antigender, pur essendo di matrice religiosa, si presenta come apolitica, apartitica e aconfessionale (Dionisio 2012) ma è nei fatti condivisa da Vaticano e destre a livello globale (Jousset e Rawlins-Gaston 2018).
In Italia la pericolosità di questa nuova offensiva si è resa evidente a partire dal 2013: i leader di Giuristi per la vita e del Comitato difendiamo i nostri figli vantano, tra il 2014 e il 2016, l’organizzazione di centinaia di conferenze che, seppur tenute molto spesso nelle parrocchie, rivelano un aspetto innovativo: l’uso di un “linguaggio scientifico” più condivisibile e pervadente nella società secolarizzata del XXI secolo. L’obiettivo “educativo” si persegue anche nelle scuole, in quanto luoghi dove si tenta di decostruire gli stereotipi di genere e valorizzare le relazioni libere e il rispetto di tutte le identità sessuali, e negli ospedali e consultori all’interno dei quali si tenta di dissuadere la donna che richiede l’ivg dal portare avanti la propria scelta in un mix di disinformazione e colpevolizzazione (Garbagnoli e Prearo, 2018).
Se si analizzano le retoriche di Provita, uno dei movimenti più forti attualmente sul territorio italiano, si comprende che la retorica dell’aborto come omicidio è stata sostituita a favore di una campagna di (dis)informazione infantilizzante, come mostrano i manifesti “Michelino” (2018) e “Biancaneve” (2020): il primo, rappresentante un feto di undici settimane, ne “spiega” le caratteristiche morfologiche, il secondo invece raffigura una donna morta a causa della ru486, da considerarsi un vero e proprio veleno.
Provita utilizza anche un linguaggio alternativo a questo, una narrazione dai toni più marcatamente “politici”, come quella alla base della raccolta firme lanciata durante i primi mesi della pandemia di Covid-19 per bloccare le ivg al fine di «liberare posti letto», la campagna per il riconoscimento giuridico dei diritti dell’embrione, o la più recente testimonianza di una donna che chiede di fermare lo «sterminio dei bambini disabili» definendosi una “sopravvissuta”, accostando quindi l’aborto terapeutico alla tristemente nota politica eugenetica nazista: l’Aktion T42.
I punti cardine dell’ideologia alla base della nuova offensiva erano emersi già chiaramente al World congress of families di Verona tenutosi nel marzo 2019 dove gruppi prolife, personalità e associazioni religiose, destre istituzionali a livello internazionale e neofascisti furono impegnati nella colpevolizzazione del femminismo, della liberazione sessuale, delle politiche contraccettive, della salute riproduttiva, del divorzio e delle sessualità non eteronormate. Con il patrocinio del governo, finanziato da gruppi prolife e movimenti neocattolici a livello globale, e con la partecipazione di politici nazionali e internazionali degli ambienti di destra e del neofascismo, il Family day e i suoi promotori hanno evidenziato come la scelta del luogo non fosse casuale. La Lega in Veneto, infatti, mostra chiaramente la sua doppia relazione con l’estrema destra extraparlamentare e i tradizionalisti cattolici e, non a caso, Verona è stata la prima città in uno dei paesi fondatori dell’Unione europea ad aver accolto il Congresso assicurandogli un ruolo politico credibile e una funzione di collante per le estreme destre a livello globale (Camilli 2019). Lo slogan del congresso riassumeva perfettamente gli intenti: Il vento del cambiamento: l’Europa e il movimento globale profamily.
L’Europa come obiettivo era già stato dichiarato nel 2014 da Agenda Europa con la mozione One of us, presentata al Parlamento europeo con la raccolta di 1.700.000 firme, che mirava a portare le lobby prolife e la loro richiesta di bloccare i finanziamenti europei per le politiche di ivg in parlamento. Tra i punti programmatici quello di impedire la ratifica della Convenzione di Istanbul sulla violenza di genere e contrastare ogni politica sulla parità (Roma 2020). Nel loro manifesto politico Ristabilire l’ordine naturale: un’agenda per l’Europa ad essere condannati sono stati la contraccezione e la dissociazione tra atto sessuale e procreativo in quanto lesivi della dignità (D’Elia e Serughetti, 2019), in linea quindi con l’appello del Vaticano per la famiglia naturale.
A livello giuridico la crociata antigender viene giocata su più fronti: sul piano internazionale attraverso la questione dei diritti dell’embrione e trasformando le istituzioni in un territorio di guerra tra opposte fazioni (Ghigi 2018); su quello nazionale attraverso il massiccio ricorso all’obiezione di coscienza, l’uso strumentale dell’art. 2, i cimiteri dei feti e infine, come hanno dimostrato regioni quali Umbria, Marche e Abruzzo che possono definirsi veri e propri “laboratori” nostrani di questa alleanza neofondamentalista, con il rifiuto delle linee guida della risoluzione del ministro della Salute Roberto Speranza sulla ru486 dell’8 agosto 2020. Nelle Marche in particolare, data la nuova Giunta regionale e la capillare presenza delle istituzioni religiose nel territorio, sono riecheggiate parole che ricordano il ventennio fascista: durante un’omelia si è definito l’aborto come “peggiore della pedofilia” e sul fronte politico un consigliere regionale di Fratelli d’Italia, lo ha collegato alla “sostituzione etnica”, una narrazione diffusa nella destra fascista europea, propagandando al contempo una famiglia in cui le “madri devono accudire” e i “padri dare le regole”.
La lotta per i presunti diritti dell’embrione è pertanto una conseguenza della continua messa in discussione dei diritti delle donne. La posta in gioco: diritti sessuali e autodeterminazione riproduttiva o diritti dell’embrione?
Conclusioni
Per le società contemporanee occidentali controllo della riproduzione e controllo dell’aborto riguardano il controllo della vita delle donne. Ogni società ha una politica pubblica che controlla quando la donna, in quanto individuo, può prendere una decisione sul contenuto del suo corpo, perché nessuna società rimane indifferente nei confronti del ruolo delle donne nella riproduzione dei suoi membri. Ma una società che rispetti veramente l’autodeterminazione sessuale e riproduttiva non dovrebbe interferire nel modo in cui una persona riconosce o meno il contenuto del proprio grembo, poiché ciò che è, è in primis nel suo corpo.
Gli obiettivi dell’attuale politica cosiddetta sovranista si sposano con la tradizionale visione cristiana di donna, famiglia e società e con gli interessi delle lobby prolife: mantenere le donne ancorate al ruolo di madre assicurando la classica divisione dei ruoli all’interno della famiglia (e quindi della società) ed escludere dal tessuto sociale chi risulta estraneo al diritto naturale, ovvero tutte quelle soggettività che non rientrano nei confini della famiglia naturale, maschilista ed eterosessuale, unico modello accettato a livello morale e base sulla quale si è retto e si regge il sistema capitalista.
Note
2. Per una chiarezza maggiore sulle retoriche e i linguaggi visitare la sezione articoli del sito Provita e famiglia https://www.provitaefamiglia.it Ultima consultazione 7 marzo 2021.
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