La storia in piazza
Buenos Aires, dicembre 2001: in fondo alla grande avenida un fumo denso, la strada è deserta, i palazzi di vetro delle corporation rifrangono la luce chiara di mezzogiorno. C’è qualcuno che corre in avanti fuggendo dai lacrimogeni. Poi dal fumo, in lontananza, al centro della strada, appaiono un cavallo, tre cavalli, sette cavalli. Galoppano poderosi sull’asfalto sempre più vicini, governati da robocop alla caccia di corpi in movimento.
La fase eroica della piazza che in tanti pensavano esaurita con il Novecento, si è riproposta con forza in questo inizio secolo, insieme ai suoi storici attori: il movimento operaio con i metallurgici in testa e il movimento contadino. E in questo stridere di elementi di passato e futuro, la sequenza di Buenos Aires girata dagli attivisti di Indymedia – la carica a cavallo novecentesca e i robocop – è una delle icone che visualizzano il passaggio di secolo.
Ci avevano abituati a pensare che, nell'”era digitale”, la contiguità di corpi che si muovono in un determinato spazio pubblico fosse destinata a marginalizzarsi, se non a scomparire. Invece la piazza, luogo per eccellenza della socializzazione e della fisicità, ha riconquistato la scena sociale e politica, si è anzi connaturata come uno dei tratti fondativi dei nuovi movimenti. È accaduto a Seattle, cogliendo tutti di sorpresa, nelle giornate del novembre 1999: il vertice del Wto costretto ad essere sospeso, l’ingresso dei delegati impedito dall’occupazione delle strade, gli scontri di piazza vissuti poliedricamente come presa di coscienza, pantomima mediatica, autodifesa o, ancora, atto distruttivo neonichilista. È continuato poi in occasione di altri vertici dei “grandi” con modalità sempre diverse ed estendendosi ad altri frangenti. La piazza diffusa della “marcia zapatista”, con l’invasione della metropoli più grande del mondo da parte di “quei tutti che sono di tutti i colori del cuore della terra”. La “seconda Intifada”, cominciata in seguito all’occupazione militare israeliana di una piazza-simbolo, la spianata delle moschee, a testimonianza della centralità della piazza come luogo dell’identità e della memoria.
In Italia, nella Napoli del “controvertice” del marzo 2001, nella trappola di piazza Municipio (con le via di fuga sbarrate), nella caccia all’uomo iniziata in strada e proseguita nelle caserme “Raniero” e “Pastrengo”, la piazza come scenario privilegiato del conflitto politico-sociale s’impone di nuovo, imprevedibilmente e con prepotenza, alla ribalta mediatica, fino allo choc della morte di Carlo Giuliani e degli scontri di Genova. Da lì è tutto un susseguirsi di piazze: dai “girotondi” alle nuove manifestazioni “oceaniche” sindacali. Accanto a questa ritrovata centralità, in un’intricata e non risolta simbiosi con i modelli novecenteschi, si sono fatte largo forme, rappresentazioni, modalità inedite dell’essere in piazza che coinvolgono a vario titolo molti soggetti sociali operanti in diverse parti del mondo (dall’occidente all’oriente), quasi a prefigurare una piazza globale e plurale – composta da segmenti differenti di “folla” – e la progressiva dissolvenza dei caratteri nazionali a vantaggio di quelli locali, in cui il micro trova espressione e si valorizza nel macro, disegnando una geografia che non si risolve più e soltanto entro i confini dei singoli stati.
Il 15 febbraio 2003 (la piazza del sentimento contro la guerra, degli uomini e delle donne che pretendono un futuro), le innumerevoli manifestazioni cominciate in quell’ultimo giorno d’inverno che ha segnato l’inizio dell’aggressione angloamericana all’Iraq lasciano supporre che oggi la storia sia tornata a consumarsi anche e soprattutto nelle piazze.
Interrogandoci sulla centralità della piazza nell’agire sociale, iniziamo dunque il nostro percorso di ricerca. Lo facciamo perché la piazza, intesa in senso lato (dunque anche la strada, il foro, la corte, ecc.) quando non come sinonimo di “gente”, “folla”, “popolo” o come costruzione metaforica (si pensi alla paura dei “cavalli russi che si abbeverano in piazza San Pietro”, dove quella piazza è addirittura sinonimo di una civiltà millenaria) è stata, in quasi tutte le epoche e in numerosi quanto differenti contesti, una delle cornici ideali delle manifestazioni di conflittualità sociale. Lo spazio per trovarsi e prendere la parola ma anche, in determinati momenti, agente periodizzante e – come già ricordato – spazio fisico della costruzione identitaria e luogo della memoria. La storia del fascismo italiano da piazza San Sepolcro a piazzale Loreto (passando per piazza Venezia); le piazze fiorentine dei Ciompi; piazza Fontana a Milano e piazza della Loggia a Brescia; plaza de las Tres culturas a Città del Messico; plaza de Mayo a Buenos Aires. Sono luoghi che rimandano a eventi, processi, strutture, idee, sentimenti, di un passato che non passa, si sedimenta, per poi essere letto da angolature, attraverso filtri e con finalità differenti.
Questo primo numero di “Zapruder” non si addentra, se non tangenzialmente, nell’indagine del rapporto tra storia e memoria, come non approfondisce la questione delle finalità – scientifiche, giornalistiche, politiche, commerciali, ecc. – delle letture del passato in tema di piazze e conflittualità. Tre su quattro degli articoli dello Zoom sono centrati sui momenti “alti”, per intensità, del conflitto (rivolte, tumulti, scontri) e del controllo (la repressione poliziesca) negli spazi pubblici. Le messe a fuoco e i soggetti sono però differenti. Se Cecilia Ricci concentra l’attenzione sui repressori, sulla polizia dell’Impero romano, Roberto Bianchi analizza le piazze in tumulto osservando, in particolar modo, i rivoltosi. Con il suo contributo, Marco Grispigni valuta i modelli e le dinamiche dello scontro di piazza nell’Italia repubblicana, allargando il campo visuale fino a includervi “manganellati” e “manganellatori”, “sanpietrinati” e “sanpietrinatori”. L’intervento di Carla Pagliero sposta invece l’asse dal piano militare a quello ludico-creativo: la piazza come palcoscenico privilegiato di un teatro “militante” e conflittuale, dato che – anche in piazza – la conflittualità sociale non può essere scandagliata solo quando raggiunge le vette della manifestazione politica o della ribellione violenta. Questi modi di vivere il conflitto sociale nello spazio pubblico sono percepibili leggendo (perché anche le foto si possono leggere) il lavoro – in bilico tra saggistica, narrativa e poesia – di Tano D’Amico che apre la rubrica Le immagini. Nella stessa rubrica, pregno di significati è il contributo curato da Matteo Dominioni: sette foto che raffigurano le fasi finali della breve vita di cinque etiopi, uccisi dai militari italiani, colà presenti per civilizzare gli abissini e “liberarli” dal Negus, dispotico ras dei ras di una società basata sui rapporti feudali anziché su un “moderno” codice penale… ancora in vigore. La rubrica Schegge ospita due interventi che tornano ad accostarsi al tema portante del numero, mentre le altre rubriche accolgono – com’era nelle intenzioni di coloro che hanno discusso su forme e contenuti di questa rivista – articoli che se ne discostano.
Se la piazza torna alla storia, anche la storia (con le storiche e gli storici) torna in piazza. Pensiamo infatti che vi sia bisogno di spazi aperti, di luoghi dove trovarsi, condividere percorsi ed esperienze, prendere la parola, in tanti e diversi, senza presunzioni, per sperimentare insieme.
Da: Zapruder n. 1, pp. 8-10.