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«Per conquistare il futuro bisogna prima sognarlo»: ciao Assunta!

Ieri se n’è andata Assunta Signorelli. Femminista, psichiatra, una voce che non ha mai avuto paura di “praticare la differenza” (come recita il titolo di uno dei suoi lavori). La ricordiamo rileggendo l’intervista pubblicata a metà fra due rubriche, “Voci” e “Immagini”, di Pazza idea, il n. 41 di «Zapruder», che da oggi è possibile scaricare anche scaricare in .pdf. (La foto di copertina è di Ugo Panella, che ringraziamo)

Mule matte. Voci e volti dall’ospedale psichiatrico di Trieste

a cura di Luca Meneghesso

LUCA (Indicando il Presepio) Qua poi ci vengono tutte montagne con la neve sopra. Le casette piccole per la lontananza. Qua ci metto la lavandaia, qua viene l’osteria e questa è la grotta dove nasce il Bambino. (Ammiccando) Te piace eh? Te piace!
TOMMASINO (annodandosi la cravatta) No.
LUCA Bè, certo adesso è abbozzato, non si può dare un giudizio, è giusto. […] (Indicando un altro punto del Presepe) Qua poi ci faccio il laghetto, col pescatore, e dalla montagna faccio scendere la cascata d’acqua. […] Te piace, eh?
TOMMASINO No.
[…]
LUCA (arrabbiato) E allora vattènne, in casa mia non ti voglio.
[…]
TOMMASINO (alludendo al Presepe) Ma guarda un poco, quello non mi piace, mi deve piacere per forza?
LUCA Ma dalla casa mia te ne vai.
TOMMASINO Ma il Presepio non mi piace.

Eduardo De Filippo, Natale a casa Cupiello, Einaudi, 1984, atto I, pp. 16-17.

A novembre 2015 sulla rivista «Internazionale» viene pubblicata una recensione entusiastica del libro curato da Franco Rotelli L’istituzione inventata (L’istituzione inventata. Almanacco Trieste 1971-2010, edizioni Alpha Beta Verlag, collana 180, 2015), un grande almanacco che «dispiega quel che un vasto gruppo di persone ha fatto e tentato di fare, lavorando a Trieste dapprima con Franco Basaglia e poi per altri trent’anni dopo la sua morte. […] Sorta di diario di lavoro di un gruppo che è stato comunque insieme per 40 anni» (dall’abstract pubblicato sul sito della casa editrice[icon name=”external-link” class=”” unprefixed_class=””]).

Quest’ultimo «comunque» ci fa presagire qualcosa. Rispetto al consenso raccolto da quest’opera infatti non mancano voci critiche. Noi abbiamo raccolto quella di Assunta Signorelli, che ci offre uno sguardo obliquo sulla storia della psichiatria radicale, rivelando tratti forse inaspettati.

Assunta Signorelli è una psichiatra; nel dicembre 1970 ha varcato il portone del manicomio di Parma per incontrare Franco Basaglia. Lo ha poi seguito a Trieste. L’ultimo suo libro si intitola Praticare la differenza. Donne, psichiatria e potere (Ediesse, 2015), in cui rilegge la “rivoluzione basagliana” e critica quel che ne è rimasto.

Tra le altre sue pubblicazioni, In direzione ostinata e contraria testimonia la sua esperienza di restituzione dei diritti a persone con sofferenza psichica e handicap diversi (resa impossibile da connivenze fra la Pubblica amministrazione e il malaffare) presso l’Istituto Papa Giovanni XXIII di Serra D’Aiello (Cs) (Fabrizia Ramondino, Renate Siebert, A. Signorelli, In direzione ostinata e contraria, Tullio Pironti, 2008, con 80 immagini di Ugo Panella). Assunta è anche curatrice del libro Fatevi regine (Sensibili alle foglie, 1996) con l’introduzione di Franca Ongaro, che raccoglie contributi per una cultura delle donne.

Dopo una breve esperienza come direttora del Dipartimento di salute mentale di Trieste, finita drasticamente (cfr. Gabriella Ziani, La psichiatria a Trieste gestita da quattro capetti in una stanza, «Il Piccolo», 21 febbraio 2014), ora è in pensione. Attualmente collabora con l’Associazione progetto sud di Lamezia e con l’Associazione trama di terre di Imola nella formazione del personale impegnato in attività di assistenza e reinserimento sociale di migranti richiedenti asilo, donne vittime di tratta e di matrimoni forzati, persone con problemi di tossicodipendenza e di sofferenza mentale.

Signorelli Cerato Trieste 1972

Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste, padiglione Q (già “Reparto Agitate”), 1972, sciopero per il riconoscimento del proprio lavoro (foto di Pier Luigi Cerato, Archivio privato Assunta Signorelli)

La nascita del reparto di Diagnosi e cura (Servizio ospedaliero psichiatrico di diagnosi e cura, Sopdc, una struttura “ospedaliera” che accoglie persone in situazioni di urgenza ed emergenza) e quella del Centro donna salute mentale sono state articolazioni dei servizi di salute mentale triestini in cui tu sei stata protagonista…

Il Diagnosi e cura a Trieste lo apriamo io e un gruppo di 10 infermiere nel 1980: il Servizio di guardia psichiatrica dell’Ospedale generale viene trasformato nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, previsto dalla legge 180, con funzioni di pronto soccorso psichiatrico.

Nel libro L’istituzione inventata [che è anche il titolo della relazione introduttiva di Franco Rotelli al convegno La pratica terapeutica dell’ottobre 1988. Cfr. F. Rotelli, Per la normalità. Taccuino di uno psichiatra, edizioni e, pp. 129-140, ndr] è scritto in modo impersonale che il Diagnosi e cura viene attivato e non viene riportato il mio nome.

Quando si parla di Centro donna ci si limita a dire che era diretto da Assunta Signorelli. Il Centro donna è stato voluto e aperto da un gruppo di donne operatrici dei servizi di Salute mentale, donne appartenenti all’associazione Luna e l’altra (operatrici, donne in cura presso i servizi e cittadine) di cui ero il punto di riferimento istituzionale: si è trattato di un processo collettivo. Nel libro si personalizza l’esperienza e scompare il collettivo. Non solo per quanto riguarda Centro donna.

Non sono le uniche lacune. All’inizio del libro c’è un elenco di 500 nomi citati tra i partecipanti all’esperienza triestina dove mancano nomi significativi. Io sono stata, finché è vissuto, la compagna di Fabio Inwinkl. Giornalista de «l’Unità», ha seguito Basaglia sin da Gorizia in qualità di corrispondente locale del quotidiano del Partito comunista fino alla chiusura delle pagine regionali avvenuta nel 1984.

C’è dell’altro. Nel settembre 1977 a Trieste si svolge il terzo incontro internazionale del Réseau Internazionale di Alternativa alla Psichiatria. Oltre 4000 persone provenienti da tutto il mondo animano i dibattiti nel parco di San Giovanni [quartiere triestino abitato in maggioranza da sloveni e in cui c’è uno dei due ingressi all’ex Ospedale psichiatrico, ndr]. Alla fine delle giornate del Réseau Fabio Inwinkl e Vojmir Taucer [giornalista e direttore del «Primorski Dnevnik» (il quotidiano del Litorale), il giornale sloveno di Trieste, ndr] curano l’edizione di un quotidiano che si chiama «Il circuito del controllo» [cfr. Il circuito del controllo dal manicomio al decentramento psichiatrico. Atti e documenti del Reseau di alternativa alla psichiatria, Cooperativa libraria – Centro culturale, 1980]. Mi ricordo che tutte le sere partecipavo a riunioni fino a notte fonda, quando il «Primorski» aveva una sua rotativa a San Giacomo [quartiere popolare triestino, ndr], e poi si stampava questo giornale. Per una settimana «Il circuito del controllo» dava la relazione di quello che era avvenuto il giorno prima. Rotelli nel suo libro mette diverse foto de «Il circuito del controllo» ma i nomi di Vojmir Taucer e Fabio Inwinkl non compaiono. Io su questo sono estremamente critica.

Inoltre tra quei 500 nomi ce ne sono altri che hanno avuto rapporti con l’esperienza che sono mediati da rapporti personali.

Il Centro donna salute mentale è stata forse l’esperienza che più significativa che hai vissuto a Trieste…

Centro donna salute mentale è stato attivo dal novembre del 1992 fino all’ottobre del 2000 con un’équipe composta solo da operatrici, rivolto al bisogno di cura delle donne e, per la coesistenza in esso dell’associazione Luna e l’altra, punto di incontro e di riferimento teorico pratico per tutte le donne della città. Centro donna salute mentale è stata la risposta che un gruppo composito di donne ha dato alle questioni poste dalla differenza di genere che, dopo la chiusura del manicomio, sono divenute centrali per affrontare la sofferenza psichica come riconoscimento di specificità e valorizzazione delle diversità singolari, oscurate dalla psichiatria istituzionale subalterna alla cultura del più forte.

Per parlare di Centro donna ne L’istituzione inventata viene utilizzato un lungo brano del libro di Fabrizia Ramondino Passaggio a Trieste [Einaudi, 2000] in cui io non vengo mai nominata e che ha poco a vedere con l’esperienza perché è centrato sul problema dell’habitat. È un pezzo su Antonio Villas [“psicoingegnere” che ha progettato gli spazi dei servizi di salute mentale triestini, ndr] che è stata una persona estremamente importante nell’habitat sociale ma quello di cui si parla, se nell’economia del libro forse ha un senso, non permette di capire cosa fosse il Centro donna.

Signorelli Cerato Trieste 1972

Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste, padiglione Q (già “Reparto Agitate”), 1972, sciopero per il riconoscimento del proprio lavoro (foto di Pier Luigi Cerato, Archivio privato Assunta Signorelli)

Fabrizia Ramondino è stata una persona profondamente legata a te come emerge anche dal suo libro che hai citato…

Il libro di Fabrizia è molto importante e bello anche perché lascia la parola alle persone. I pezzi contenuti li hanno scritti le persone. C’è sempre il rischio dell’esproprio della parola dell’altro. Il problema non è parlare a nome di, il problema è fare in modo che chi è in grado di farlo possa parlare. Se una persona usa un linguaggio poco comprensibile, il tuo mestiere è rendere comprensibile al mondo quel suo linguaggio. Se no cadi nella tutela e nell’invalidazione dell’altro. Io non tollero che gli psichiatri facciano le storie dei matti. In questo c’è una negazione della loro identità. Io tutt’al più ricostruisco la storia del mio rapporto con la persona. La cosa è mediata dalla relazione per cui lascio all’altro sempre lo spazio di identificazione. È una questione di rispetto, di etica. «Noi non dobbiamo “parlare a nome di”, noi dobbiamo costruire luoghi dove gli altri possano prendere la voce», diceva Basaglia.

Ci sono psichiatri che costruiscono la loro identità, la loro fama, sulle storie degli altri: io credo che ciascuno possa parlare solo in proprio nome.

Io avevo chiesto di ripubblicare nella collana 180 [collana delle edizioni Alpha beta verlag diretta da Peppe Dell’Acqua, psichiatra, per diciassette anni direttore del Dsm di Trieste, ndr] il libro di Fabrizia e il Diario di Augusta F. scritto da Giovanna Del Giudice [Sensibili alle foglie, 1995] ma tutto ciò che riguarda la componente femminile è stato totalmente censurato.

Quello che sta emergendo è che come donne all’interno del Centro donna e all’interno del processo di deistituzionalizzazione, pur avendo cercato sempre di evitare di riprodurre dinamiche maschili, siete state “castrate” da un potere di tipo maschile…

Non solo ma quelle di noi che sono andate avanti sono quelle o che hanno subito questo potere e si sono su questo appiattite, o hanno assunto le stesse modalità di azione. E non c’è niente di peggio di una donna che si comporta come un uomo perché deve farsi perdonare il fatto di essere donna.

Ci sono sempre stati dissidi nel gruppo basagliano? Perché tu, Rotelli e Dell’Acqua eravate insieme già a Parma…

Io sono stata la prima ad arrivare, li ho visti arrivare tutti. Io sono arrivata a Parma che ero ancora studentessa e ho frequentato gli ultimi 2 anni di università fra Parma e Trieste.

Conflitti e discussioni ci sono sempre stati. Eravamo profondamente diversi tra di noi. I modi della deistituzionalizzazione possono essere i più diversi, ma formavamo un gruppo che riconosceva un obiettivo comune. All’interno di questo gruppo si erano definiti ruoli e posizioni diverse. Ad esempio c’erano quelli più capaci di svolgere un’attività pratico-concreta, di solito erano le donne con la loro economia domestica così importante per l’opera di deistituzionalizzazione. Ciascuno ha assunto un suo ruolo. Un suo ruolo anche significativo e importante, perché agiva all’interno di un gruppo. C’è chi come Dell’Acqua ha sempre agito il ruolo del comunicatore. Finché era comunicazione di un agire collettivo era utile al gruppo; nel momento in cui questo è diventato affermazione di sé, si sono rotte le cose. I comportamenti sono diversi se avvengono in una situazione collettiva e di confronto o in situazioni di separazione e di rottura.

L’operazione di deistituzionalizzazione era anche un’operazione di messa in discussione dell’istituzione cardine di questo paese che è la famiglia. La famiglia è il nucleo e il modello dal quale nascono tutte le istituzioni, soprattutto quelle di controllo. Nelle donne c’è stata questa maturazione inizialmente con poca consapevolezza ma quasi naturalmente.

Un altro elemento gravissimo di questo libro è la semplice menzione di Maria Grazia Giannichedda [sociologa, una delle più strette collaboratrici di Franco Basaglia e Franca Ongaro, ndr], che è stata una persona che ha lavorato nella pratica ma è stata soprattutto un elemento di teorizzazione fondamentale e quindi avrebbe meritato maggiore considerazione.

Signorelli Cerato Trieste 1972

Trieste, 1972, prime feste nell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste (foto di Pier Luigi Cerato, Archivio privato Assunta Signorelli)

Negli anni in cui lavoravo a Trieste Giannichedda si vedeva spesso. Aveva anche introdotto un’antologia di scritti di Franco Basaglia, L’utopia della realtà (a cura di Franca Ongaro Basaglia, Einaudi, 2005). In un libro molto simile a L’istituzione inventata di pochi anni prima poi la presenza di Giannichedda è molto forte (Claudio Erné, Basaglia a Trieste. Cronaca del cambiamento, Stampa alternativa/Nuovi equilibri, 2008)…

L’istituzione inventata è un libro in cui Rotelli ha deciso di dare la lettura di Trieste dal suo punto di vista eliminando le persone che non erano funzionali al suo dire.

Riconosco però che senza Franco Trieste non ci sarebbe stata. Sicuramente ha avuto un’intelligenza, una capacità di leggere in prospettiva le cose e di indirizzarle in un certo modo. Poi come tutti gli uomini capi, si è circondato di persone che riusciva a controllare. A lungo andare non avere una dialettica, non avere un altro da sé, non ti permette di capire gli errori che fai. In vecchiaia si perde di vista il complessivo e ci si concentra su se stessi, soprattutto se si è uomini; visto che non ci si sente continuati dalla prole il segno si lascia a partire da sé.

Certamente l’esperienza di deistituzionalizzazione è stata un’esperienza profondamente maschilista nella quale le donne si sono anche lasciate usare. Le donne però continuano a vivere attraverso i propri figli. Gli uomini invece continuano a vivere se diventano eroi e più sono vecchi più hanno bisogno di confermare se stessi. Le donne si proiettano nell’eternità attraverso la carne della propria carne. Quello che a me interessa è che i miei figli siano significativi, non che ci si ricordi di me, perché i miei figli mi portano con sé. La maternità di fatto è ciò che ti permette la rottura dell’immortalità attraverso la carne. Invece man mano che l’uomo invecchia perde il rapporto col collettivo perché ha il problema di proiettare se stesso ed è quello che è successo a Rotelli. Franco è sempre stato una persona molto poco pubblica inizialmente. Si parlava di lui non perché si proponesse ma perché le persone che lavoravano con lui lo citavano, perché era il deus ex machina sempre molto defilato. Defilato in maniera intelligente, defilato anche in maniera scaltra. Oggi lo dico avendo conosciuto l’altra parte. Lui sapeva che bisognava permettere agli altri di crescere e questo accresceva anche lui.

A un certo punto Trieste, come tutte le esperienze avanzate, come tutte le esperienze significative, crolla. Kronos mangia i suoi figli. Franco ha distrutto il Dipartimento di salute mentale così come lo ha costruito.

C’è comunque una certa capacità di Rotelli, ma anche di Dell’Acqua, di porsi e proporsi da un punto di vista mediatico se viene detto che questo è “il libro più bello dell’anno”. Il libro manca perfino della numerazione delle pagine neanche fosse un dépliant da agenzia turistica e infatti avendo attraversato San Giovanni appare un’operazione pubblicitaria promozionale e poco critica…

Oggi siamo ai tempi della pubblicità. Dell’Acqua è stata la persona che per prima ha capito il valore della comunicazione. Il suo impegno è sempre stato quello di enfatizzare, di fare da cassa di risonanza nelle cose che avvenivano. Ma questo elemento di far sapere quel che accadeva era estremamente importante in un mondo che si apriva alla comunicazione. Soltanto che ad un certo punto quello che era l’enfatizzazione, l’amplificazione di un processo collettivo si trasforma nell’amplificazione di sé. Non fai più sapere le cose e non dai più spazio agli attori, alle attrici, ai protagonisti delle cose ma ti proponi tu come quello che le ha fatte [ad esempio nella prima edizione del libro di Dell’Acqua, Non ho l’arma che uccide il leone il sottotitolo era Storie del manicomio di Trieste (Cooperativa editoriale, 1980); con la seconda edizione il sottotitolo diventa Trent’anni dopo torna la vera storia dei protagonisti del cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni (Stampa alternativa, 2007); nella terza edizione, diffusa in Friuli venezia giulia allegata ai quotidiani locali del gruppo «L’Espresso», il libro diventa Non ho l’arma che uccide il leone. La vera storia del cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni (Alpha beta verlag, 2014), ndr]. Questo è stato un processo collettivo che senza un collettivo non avrebbe potuto esserci. Soprattutto in questo libro di Rotelli c’è la scomparsa totale del grande protagonismo del personale infermieristico, senza il quale non si sarebbe fatta Trieste.

Forse c’è anche una questione più generale. Ad esempio l’aziendalizzazione della sanità…

Probabilmente l’aziendalizzazione non è stata una buona cosa, ma forse in quel momento ce n’era bisogno. Una cosa che ci ha insegnato Franco Basaglia, e che anche Franco Rotelli aveva in sé, è che non bisogna mai innamorarsi dei modelli perché sono funzionali a un’epoca. Ogni cosa ha un suo lato positivo e un’altra faccia negativa. Quando hai esaurito la parte positiva di una cosa, devi cambiare.

Un’altra delle questioni che ha distrutto Trieste è stato il progetto di esternalizzazione spinta. Nel momento in cui tu esternalizzi ci saranno aspetti positivi, ma ci dev’essere un’intelligenza nell’esternalizzazione. Nel momento in cui esternalizzi diminuisci i diritti da una parte e dall’altra specializzi le tue professioni interne. Perdi quella complessità dell’intervento dentro le singole figure professionali. È vero che le figure professionali hanno delle competenze specifiche, però all’interno di queste competenze specifiche c’è una competenza allargata. Se io ne tolgo un pezzo perdo la complessità della persona, parcellizzo l’intervento.

Ora sono tutti contenti perché ci sono i protocolli. Se seguendo il protocollo succede qualcosa sei tutelato, se non lo segui e succede qualcosa allora tu non sei nemmeno tutelato. E allora ti chiudi. E questa direzione è proprio quella della parcellizzazione e della spaccatura. È il divide et impera. Questa rottura impressionante è ormai profonda.

Tu ti interrogherai come mai in un Dipartimento di salute mentale hai un numero di domande di trasferimento che non si è mai dato in quaranta anni? Può darsi che queste persone che hanno chiesto il trasferimento stiano sbagliando, ma almeno bisognerebbe porla come questione e non continuare ad andare in giro dicendo che siamo i più belli, i più buoni e i più bravi.

C’è una gestione miope, arrogante e incapace di rendersi conto di ciò che accade. Trieste è oramai diventata la stellina che ci si mette addosso per far carriera.

Scusami, forse taglio un po’ le cose con l’accetta, forse andrebbero un po’ più mediate…

L’istituzione inventata non è stata più inventata…

È successo quello che ripeteva Basaglia: «l’ideologia è libertà mentre si fa e oppressione quando si è costituita». Noi facciamo comunque parte di un sistema di potere. Gli psichiatri e le psichiatre appartengono alla classe dirigente, di potere.

Ho sempre pensato che non mi pagassero per far star bene la gente ma per controllarla, se poi io riuscivo a mettere in moto dei meccanismi di liberazione e far sì che crescessero era la sfida. Allo stato che mi pagava interessava che io controllassi queste persone evitando che facessero casini. Nella contraddizione tra quello che era un atteggiamento cosiddetto antipsichiatrico (contrario al controllo, che però rischiava di diventare abbandono) e quello che era invece un atteggiamento che diceva «noi dobbiamo controllare», cercavamo spazi di azione per l’emancipazione delle persone.

Franco ha scritto un articolo bellissimo tanti anni fa che si intitolava Le panchine di neve [F. Rotelli Franco, A. Signorelli, Servono o no le panchine di neve, «Ombre Rosse», n. 15/16, luglio 1976], nel quale diceva che la nostra forza sta nel costruire panchine di neve che d’inverno si sistemano e d’estate si sciolgono al sole. Ad un certo punto queste panchine di neve sono diventate di ferro.

Adesso si insiste sulla distinzione dei ruoli…

Abbiamo perso l’ascolto con la parcellizzazione degli interventi. Io ho pensato sempre che quanto più alto è il ruolo che tu ricopri, tanto più il tuo ruolo comprende anche quelli inferiori. Se io sono un medico e sono responsabile del benessere di una persona, se questa ha bisogno che le si pulisca il culo, a me compete anche pulirgli il culo e non devo chiamare quello che glielo pulisce se sto là. Invece oggi la responsabilità non è una responsabilità diretta di presa in carico della persona, è una responsabilità che si declina attraverso parcellizzazioni successive. Quello che ci ha permesso di riformare il manicomio è stato agire nel modo che ho imparato da Franco Basaglia, il quale disse una volta: «se io ho una persona nella merda non gli faccio la psicoterapia. Prima lo tolgo dalla merda e poi in caso gli faccio la psicoterapia». Oggi i medici invece fanno la psicoterapia con la persona nella merda. Oppure per toglierlo dalla merda devono mettere in moto quattro o cinque professionalità e passa un lasso di tempo per cui la tua psicoterapia diventa inutile.

La forza vera della deistituzionalizzazione è stata proprio quella del comprendere che se di processo di liberazione si tratta questo deve riguardare tutti i ruoli coinvolti. Non si liberano i malati sulle spalle degli infermieri, né sulle spalle delle famiglie, né sulle spalle di nessuno. Il processo di liberazione deve liberare i malati, gli infermieri e le famiglie. Questa è stata la grande forza di Trieste. È un processo nel quale devi continuamente cercare alleanze. Io credo che bisogni cominciare a dire quello che sta accadendo: Trieste sta diventando una situazione in cui si è persa questa dimensione. La divisione tra gli operatori e la dirigenza diventa sempre più ampia, e se noi non denunciamo l’involuzione, che ogni processo di trasformazione porta con sé, corriamo il rischio che lo denunci qualcun altro. Le critiche se partono dall’interno tengono anche conto del valore dell’esperienza, se le mettono in moto altri possono mettere in discussione anche i fondamenti dell’esperienza stessa. Trieste ha avuto una grande importanza nell’evidenziare nelle cose e nella pratica la connivenza che c’era tra la psichiatria e il potere. Oggi Trieste non è più quello perché ormai si declina solo come istituzione di piccoli poteri personali.

Signorelli Cerato Trieste 1972

Trieste, 1972, prime feste nell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste (foto di Pier Luigi Cerato, Archivio privato Assunta Signorelli)

Dalla rubrica “Immagini”

In quanto operatore sociale di base a lungo impiegato a Trieste nell’ex Ospedale Psichiatrico (anche se ora lavoro in Friuli), ho attraversato gli stessi servizi e gli stessi spazi frequentati da Assunta Signorelli, ma non l’ho mai incrociata lavorativamente.

In occasione di questo incontro, attraverso uno sguardo obliquo e dal basso, abbiamo cercato di tratteggiare quello che è stato l’agire antistituzionale da Basaglia in poi e cosa sia ora la salute mentale a Trieste.

Anche per questo, a corollario dell’intervista ad Assunta, pubblichiamo due serie di fotografie. Ce le ha fornite Assunta stessa facendoci consultare il suo archivio interessante e sostanzioso composto da documenti, pubblicazioni e appunto fotografie dell’esperienza di deistituzionalizzazione triestina, iniziata da Franco Basaglia, dalle origini ad oggi.

Le prime immagini sono inedite e non professionali. Risalgono ai primissimi anni settanta e sono state scattate da Pier Luigi Cerato nel parco di quello che era ancora l’Ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste. Documentano il primo sciopero per il riconoscimento del proprio lavoro effettuato dalle internate del padiglione Q (che era stato quello destinato a rinchiudere le “agitate”). Fu l’inizio dell’azione istituzionale, diretta da Basaglia, che portò poi alla costituzione della prima cooperativa sociale. Si vedono anche due immagini che ritraggono delle persone che per la prima volta partecipano ad attività di aggregazione al di fuori dei padiglioni. Si notino la divisione tra i sessi e le reti: l’esperienza triestina era alle primissime mosse.

Segue una serie di scatti del 1997 sul Centro donna salute mentale effettuate dal fotoreporter Ugo Panella da anni impegnato nelle tematiche politiche e sociali.

Alcune di queste foto sono già comparse altrove: in primo luogo nel catalogo della mostra fotografica allestita a Trieste nella sala espositiva regionale dal 13 al 25 ottobre 1998 dall’Assessorato alla cultura del Comune di Trieste. (cfr. Anna Maria Marinello, Trieste dei manicomi. Antologia precaria di un cambiamento epocale: diciannove fotografi raccontano, Cultura viva, 1998, pp. 162-167). Sul web si trovano negli Archivi generali della deistituzionalizzazione, a cura del Dsm di Trieste[icon name=”external-link” class=”” unprefixed_class=””]. Anche nel libro curato da Franco Rotelli compare una fotografia di Panella, il quale però non viene citato né in calce all’immagine né tra i 500 nomi né tra i ringraziamenti ai fotografi.

Al di là della qualità e del valore del singolo scatto queste immagini, presentate insieme, acquistano ulteriore significato e rilevanza sia in senso artistico che illustrativo dell’esperienza di Centro donna salute mentale e di quanto per anni ci ha girato intorno.

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