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Kashmir. Stagioni di un conflitto

Lo scorso 5 agosto dal subcontinente indiano sono arrivate notizie allarmanti. La “più grande democrazia del mondo”, attraverso una modifica costituzionale, ha integrato pienamente il Kashmir all’interno dell’Unione. Il Kashmir è un territorio storicamente attraversato da tensioni regionaliste e confessionali, su cui il governo indiano aveva finora mantenuto un atteggiamento ambiguo volto al mantenimento di un parziale autogoverno, seppur attraverso il periodico esercizio della forza militare. Per far luce sul processo che ha portato a questa integrazione, e sulle risposte che la società locale ha dato, abbiamo chiesto un contributo a Simone Mestroni. Simone, di formazione antropologo, vive e lavora in India, dove svolge le sue attività di ricerca e produzione audiovisuale. Tra il 2008 e il 2012 ha condotto una ricerca etnografica di lungo termine nel Kashmir indiano, incentrata sulle dinamiche identitarie legate al conflitto. Sul tema ha scritto un libro (Linee di controllo, Meltemi, 2018), girato un documentario (After prayers), prodotto materiale fotografico, che in parte vi proponiamo all’interno dell’articolo. Al termine dell’articolo potete trovare alcuni consigli di approfondimento a cura dell’autore. Alcuni dei temi che affronta questo articolo li ritroverete nel numero 49 di «Zapruder», dedicato all’autogoverno, e alle rivendicazioni territoriali.

Kashmir. Stagioni di un conflitto

di Simone Mestroni

Scrutando la storia del Kashmir degli ultimi 70 anni pare a volte di percepire nelle sue evoluzioni un’ambigua stagionalità, una sisifea ciclicità di improvvise e violente esplosioni alternate a periodi di “maggese”, di introspezione collettiva, fasi in cui l’ideale separatista sembra dilagare nelle piazze sotto forma di manifestazioni oceaniche e altre in cui la tensione sembra pragmaticamente livellarsi al minimo, quasi a resa dell’evidente supremazia dell’esercito indiano sulle poche centinaia di guerriglieri ancora attivi nella vallata.

Un fatto curioso è che, negli ultimi anni (2008, 2009, 2010 e 2016), il “raccolto” a seguito delle lunghe fasi di apparente calma, è arrivato, inatteso ma puntuale, in piena estate, proprio a ridosso della ricorrenza più controversa: la partition post-coloniale tra India e Pakistan. Avvenuta nel 1947, la partition viene storicamente ricordata come la genesi della disputa del Kashmir: l’ex principato a maggioranza islamica, controllato all’epoca da un marajà induista, rimaneva in una condizione ambigua nella prospettiva della “teoria delle due nazioni”, per la quale il Pakistan doveva divenire la patria dei musulmani del subcontinente e l’India quella degli induisti. Proprio per il controllo di Kashmir, India e Pakistan, all’indomani della loro nascita (14-15 agosto 1947), combatteranno una prima guerra che si “congelerà” nel 1948, grazie all’intervento dell’ONU, con l’impegno controfirmato da entrambi i presidenti di tenere un referendum inerente le opzioni di annessione e la costituzione di quella che viene ancora oggi definita “Linea di controllo”. Parliamo in sostanza del confine disputato tra i due stati, il quale, come una trincea, taglia attualmente il territorio dell’ex principato e che da 70 anni sale saltuariamente alle cronache per scambi di colpi di mortaio, infiltrazioni di guerriglieri da parte pakistana, guerre più o meno aperte (nel 1965 e nel 1999), attraversamenti di giovani kashmiri per l’addestramento alle armi nei campi oltreconfine, fino alle più recenti scorribande aeree dell’esercito indiano in area pakistana, le quali hanno alzato il pericolo di un’escalation nucleare.

Quello del Kashmir è infatti un conflitto (spesso ossimoricamente definito a bassa intensità) che presenta nitidamente una molteplicità di livelli, tra loro intrecciati, che si riproducono come frattali in un gioco di scala che va dalla geopolitica alla dimensione emotiva del martirio, dalla tensione confessionale tra induisti e musulmani al discorso dell’autodeterminazione dei popoli, dagli scambi di mortaio sulla linea di controllo e i dialoghi diplomatici agli ordinari tafferugli successivi alla preghiera del venerdì. Arene parallele e interconnesse in cui la storia, la politica e la dimensione etnografica del vivere il conflitto fermentano e generano saltuarie esplosioni, più o meno controllate, incorniciate nell’ampia stagionalità della geopolitica, o di precise strategie elettorali dell’establishment indiano.

Nella prima prospettiva il conflitto del Kashmir detiene una invisibile ma strutturale connessione con l’Afghanistan, rispetto al quale sembra in qualche modo rappresentare un fenomeno complementare nella precipitazione concertata del potenziale della guerriglia di matrice islamista. È stata infatti la “mitologia” della resistenza Afgana contro l’invasione Russa (1979-89) ad alimentare l’immaginario dell’insurrezione armata kashmiri, esplosa proprio con la ritirata delle truppe sovietiche ed il crollo del comunismo nel 1989; d’altro canto, sotto un profilo logistico, il potenziale accumulato dall’intelligence militare pakistana in funzione antisovietica (e quindi con il supporto esplicito da parte degli Usa) si è di fatto riversato sul territorio storicamente disputato con l’India.

Per tutti gli anni ’90 la valle del Kashmir sarebbe diventata il parcheggio di questo potenziale destabilizzante, qui convogliato in una guerriglia largamente sostenuta dalla popolazione, nell’intento di perseguire l’ideale dell’indipendenza o dell’annessione al Pakistan. Sono questi gli anni in cui le violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito indiano raggiungono l’apice, di fatto gli stessi in cui sono nati e cresciuti i giovani tra i venti e trent’anni del Kashmir contemporaneo. Si tratta inoltre del decennio in cui la narrazione mediatica globale percorre la sua transumanza dall’assetto bipolare della Guerra fredda, all’interno della quale i mujhaiddin erano stati incoronati come eroi della resistenza anticomunista, a quello post-11 settembre, dove l’Islam, acriticamente assimilato al terrorismo, è diventato il nemico nella nuova dicotomia sancita dall’autoesplicativo “scontro di civiltà”. In Afganistan si apre una nuova lunga stagione di guerra, il Pakistan assume i tratti sospetti di uno stato pericoloso, che finanzia e sobilla il terrorismo: molte organizzazioni di guerriglia, alcune delle quali operative in Kashmir, vengono messe ufficialmente al bando. Si stratta di una fase di apparente stagnazione del movimento separatista, schiacciato appunto dalle congiunture internazionali emergenti.

Ma nel 2008 il fenomeno riesplode improvvisamente, in parte appunto in funzione di concertazioni di taglio elettorale interne all’India: la crisi legata al pellegrinaggio di Amarnath ha prodotto un’agitazione di massa durata mesi di alternarsi di intenso coprifuoco, scioperi e guerriglia urbana permanente, questa volta ad opera dei più giovani armati di sole pietre contro le forze armate indiane. Il “casus belli”, attorno al quale si elaboreranno nuove strategie politiche di partiti nazionali e regionali, era scaturito dal tentativo da parte di Delhi di acquisire larghe porzioni di territorio in prossimità di un pellegrinaggio induista, una politica che, aggirando l’autonomia costituzionale dello stato del Jammu e Kashmir (proprio quella eliminata a inizio agosto 2019), viene assimilata da parte separatista a quella israeliana in Palestina. Un parallelo di stampo transazionale che, in sinergia con la diffusione di taglio generazionale del fenomeno delle sassaiole, farà parlare di una nuova “Intifada kashmiri”.

La guerriglia vera e propria era intanto divenuta un fenomeno operativamente marginale (anche per l’indebolimento del fattore Pakistan), ma presente, soprattutto per i continui reclutamenti di giovani frustrati dai precedenti insuccessi e dalla politica di oppressione militare esercitata dall’India. I funerali dei guerriglieri, raduni oceanici in cui l’istanza separatista si coagula nel cordoglio per il martire di turno per l’azadi (libertà in urdu), attirano e affascinano nuove leve, alimentando la spirale degenerativa della violenza, oramai ben inquadrata in una legittimità morale diffusa in tutto il tessuto sociale della vallata. Negli stessi anni le espressioni più radicali dell’Islam politico, in genere legate alla scuola salafita, hanno preso piede tra le nuove generazioni, a discapito della più morbida tradizione sufi storicamente diffusa nella zona.

Un’ulteriore importante svolta si è avuta nell’estate del 2016 con l’uccisione di Burhan Wani, giovane e carismatico leader del gruppo armato pro-pakistano Hizbul mujaideen, al seguito della quale una nuova ondata di proteste e di scontri di piazza ha sconvolto la vita degli abitanti del Kashmir: mesi di coprifuoco, decine di morti e centinaia di feriti, specialmente grazie al diffuso utilizzo della pellet-gun, una controversa arma non letale in dotazione alle forze armate indiane per disperdere le folle. Non c’è ormai una singola famiglia, a Srinagar e dintorni, che non annoveri tra i parenti più stretti, tra gli amici, tra i vicini o i conoscenti, un martire per la causa, o quantomeno un episodio di abuso di potere da parte dell’esercito e che non nasconda, nel momento in cui ci sia un minimo di confidenza, una simpatia per chi imbraccia le armi per affrontare la tirannia indiana, consolidatasi territorialmente nella presenza militare più densa al mondo (si parla di 700.000 unità). Un’empatia che ha sotterraneamente toccato anche il martirio di Adil Ahmed, un ragazzo che nel febbraio scorso si è fatto esplodere contro un autobus dell’esercito causando 40 vittime.

Sono tutti fattori che si misurano vivendo anche pochi giorni in Kashmir, o persino leggendo le notizie sui quotidiani locali. La popolazione, nel momento in cui un guerrigliero è sotto assedio, si mobilita regolarmente in proteste e lanci di pietre ai danni dei militari; gli adolescenti, e persino i bambini, entrano in confidenza con la violenza politica durante gli scontri di piazza, divenuti quasi un rituale di iniziazione in cui apprendono la natura del potere indiano, disputando quel weberiano “monopolio della violenza legittima” su cui si innesterebbe la sovranità e performando, attraverso la violenza stessa, altre forme di legittimità, più vicine ad un ordine morale locale che sembra vivere in simbiosi con il separatismo, il Pakistan, l’Islam. Questi sono gli orizzonti ideologici, le macro-narrazioni e le formazioni di potere alle quali il soggetto kashmiri può guardare come alternativa all’oppressione militare indiana, ed in questo aut-aut il percorso per la radicalizzazione violenta è un potenziale dormiente, ma sempre disponibile.

Delhi in questo senso ha perso la sua battaglia sul fronte secolare, propugnato idealmente dai padri fondatori Nerhu e Ghandi come motore del “nation building”, e si è progressivamente adagiata sulle politiche dell’identità confessionale, esplicite nella dottrina etnonazionalista indù del Bharatiya janata party (Partito del popolo indiano), imperniata su un induismo muscolare, aggressivo e xenofobo.

E qui arriviamo al presente, perché l’ultimo amaro frutto di questa serie di raccolti estivi, che forse rappresenta l’evento storico più radicale degli ultimi 30 anni, risale al 5 agosto, all’inatteso colpo istituzionale ai danni di quei residui di autonomia concessi al Kashmir in quanto stato disputato, ovverosia la sua totale integrazione nell’Unione indiana avvenuta attraverso l’eliminazione dell’articolo 370 della costituzione, il quale garantiva, sul piano legislativo, demografico e amministrativo una parziale autonomia, di fatto già oggetto di continue erosioni e infrazioni da parte di Delhi. In parallelo, all’interno dei più ampi cicli della geopolitica dell’area, sembra che l’Afghanistan, a seguito delle trattative tra governo di Kabul e talebani (che sono oggetto di un processo di riabilitazione), si stia avviando verso una fase di riappacificazione. Ancora una volta quel potenziale, in parte manovrato dai servizi segreti pakistani e ora riassorbitosi dopo 18 anni di resistenza, potrebbe emergere in qualche area circostante, o quantomeno esercitare, come nel 1989, il fascino mitologico di un popolo che, nel nome dell’Islam radicale, ha sconfitto e scacciato una grande potenza. La vecchia storia di Davide contro Golia quindi, un sempre efficace archetipo romantico della resistenza, che il Golia in questione sia l’Unione sovietica, gli Stati uniti, Israele o l’India.

Intanto in Kashmir, ormai da più di un mese, tutto sembra congelato da un coprifuoco panottico: internet e le comunicazioni telefoniche sono bloccate, per non parlare dei movimenti nello spazio reale della vallata. I media indiani cercano di ritrarre la situazione come sotto controllo, ma le poche informazioni raccontano di migliaia di arresti nella società civile, persino tra i politici pro-indiani. Si percepisce a distanza, nei discorsi mormorati nelle case asserragliate della vallata, un luttuoso momento di introspezione collettiva, di riflessione e recupero di forze dopo il colpo basso del 5 agosto. Questa volta, la rabbia e la frustrazione, coordinate con i movimenti tettonici della geopolitica e le geometrie della politica nazionale, avranno probabilmente ripercussioni di lungo termine e di ampio raggio. Non sarà probabilmente quindi il raccolto – di insurrezioni, di coprifuoco e di martiri – di una sola estate, ma, come negli anni ’90, di una lunga stagione di violenza.

Per approfondire

  • Victoria Shofield, Kashmir: India, Pakistan e la guerra infinita, Fazi, 2004. Estesa e approfondita analisi del contesto storico-politico del conflitto del Kashmir
  • Basharat Peer, Il sogno del soldato bambino, Newton compton, 2011. Autobiografia di chi è cresciuto negli anni dell’insurrezione armata: un romanzo di formazione che racconta gli aspetti più intimi del conflitto
  • Simone Mestroni, Linee di controllo, Meltemi, 2018. Anatomia etnografica del conflitto kashmiri tra slanci narrativi, analisi antropologiche e approfondimenti storico-politici

Per seguire gli aggiornamenti sull’area:

https://scroll.in/
https://www.thequint.com/
https://www.aljazeera.com/

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