In questi giorni ci ha raggiunto la triste notizia della scomparsa di Claudia. L’abbiamo incontrata sul nostro cammino in occasione della stesura di «Zapruder» 41, una “Pazza idea” che abbiamo avuto anche con lei che di salute mentale e donne si era sempre occupata. La ricordiamo con il contributo che ci ha lasciato (che potete trovare anche in PDF).
Archivio dell’ospedale psichiatrico San Salvi di Firenze
Claudia Celentano
La nascita dell’ospedale psichiatrico di San Salvi a Firenze il 9 settembre del 1890 fu un evento storico e sociale importantissimo: «anche la colta e gentile capitale della Toscana ha un nuovo e grandioso manicomio […]», disse il dottor Algeri nel discorso inaugurale (cfr. Le radici del futuro. San Salvi oggi si racconta, «I quaderni dell’archivio della città», n. 5, Archivio storico comunale di Firenze, 2014).
L’ospedale psichiatrico, costruito alla periferia della città, nel quartiere di San Salvi, venne intitolato a Vincenzo Chiarugi, figura di primo piano nell’ambito della psichiatria fra Settecento e Ottocento, autore di un famoso trattato sulla pazzia. Il nuovo complesso fu progettato come luogo in grado di rispondere alle tendenze che emergevano nella psichiatria del tempo. Il progetto, infatti, si sviluppò da una stretta interazione fra il progettista Giorgio Roster e gli psichiatri Tamburini, Grilli e Pellizzari. Fu realizzata una struttura a villaggio, costituita da vari padiglioni distribuiti all’interno di un ellisse. Sull’asse maggiore, a ovest, si trovavano le strutture mediche maschili, mentre a est quelle femminili. Le due strutture erano collegate da corridoi terrazzati e gallerie sotterranee. C’erano vari reparti nell’ospedale, e i pazienti vi erano divisi in base a condizioni di salute e considerazioni morali: tranquilli; infermi e paralitici; semiagitati, sudici ed epilettici; agitati; pensionario; sezione piccoli paganti.
San Salvi, il nome con cui l’ex manicomio ancora è noto alla città, si deve al santo francese del VII secolo cui i monaci vallombrosiani dedicarono il loro convento attiguo alla chiesa di San Michele, confinante con il manicomio. Nel gergo popolare, come per altri luoghi della follia, fu apostrofato “tetti rossi” dal colore delle tegole che svettavano al di là dell’alta cinta muraria, che nascondeva i padiglioni schierati simmetricamente. Nel nuovo manicomio di San Salvi rimase ben ferma l’idea del Chiarugi che il folle dovesse essere inserito in una struttura artificiale, ordinata e rigorosa da opporsi alla malattia mentale intesa come «disordine delle passioni» (cfr. Donatella Lippi, San Salvi. Storia di un manicomio, Olschki, 1996). Del resto, la legislazione contribuì a spogliare i malati della propria soggettività: la legge del 1904 sulla Disposizione dei manicomi e degli alienati mentali li privava di tutti i diritti civili, dichiarando che: «debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo». Per molti anni i malati, vestiti per lo più di camicioni, vivevano a San Salvi in grossi cameroni protetti da sbarre e chiusi a chiave, avevano poche ore d’aria in piccoli recinti ed erano controllati dall’alto dei camminamenti dagli psichiatri. Solo i più tranquilli avevano il permesso di lavorare, non perché esercitavano un diritto della persona, ma come prassi di cura, quella che fu poi definita “ergoterapia”. Negli anni cinquanta del secolo scorso, le “cure” agivano sul corpo al pari di torture: elettroshock, insulinoterapia, malaria-terapia, lobotomia. Veniva adoperata la contenzione fisica, poi parzialmente sostituita dagli psicofarmaci somministrati in quantità rilevanti.
Il San Salvi si presentava quindi come un gigantesco manicomio. Un luogo per “dare ordine alle menti disordinate”. Dal giorno della sua apertura, vi sono state rinchiuse fino a 4.000 persone in condizioni da “lager”, tra i quali il poeta Dino Campana, che vi rimase internato per quattordici anni, dal 1918. Due affermati fotografi italiani, Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, nel 1968 documenteranno in un agghiacciante reportage fotografico anche la situazione di San Salvi: immagini dure di donne e uomini prigionieri, legati, umiliati (cfr. Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Morire di classe, Einaudi, 1969).
Solo conoscendo questi aspetti della storia manicomiale si può capire pienamente cosa ha significato il movimento “rivoluzionario” che, dalla prima metà degli anni sessanta in poi, ha portato in Italia alla chiusura dei manicomi. Nel 1968, con la Legge Mariotti, il disagio mentale non venne più registrato nel casellario giudiziario, venne introdotta la volontarietà del ricovero ospedaliero e rese operative le équipe di salute mentale multidisciplinari e a carattere territoriale (cfr. John Foot, La Repubblica dei matti, Feltrinelli, 2014).
In quegli anni, a Firenze si avviò un progetto fatto di esperienze alternative all’assistenza psichiatrica incentrata sul manicomio. Tale scelta, sostenuta dall’amministrazione provinciale, aveva per obiettivo il superamento dell’ospedale psichiatrico. Nel 1964, un gruppo di operatori del San Salvi pensò di aprire un centro riabilitativo utilizzando una casa colonica all’interno dell’ospedale. Al piano terreno c’era il magazzino dove venivano conservano i tini, da cui il nome del centro, “Tinaia”. La Tinaia divenne per i ricoverati uno spazio di riattivazione, socializzazione, punto di passaggio verso un reinserimento nell’ambiente sociale di provenienza e nel mondo del lavoro (cfr. I tetti rossi: San Salvi da manicomio a Libera Repubblica delle Arti, Polistampa, 2010).
Durante gli anni settanta si arriverà alla definitiva chiusura dei manicomi con la Legge 180 del 1978, conosciuta come legge Basaglia dal nome dello psichiatra che, insieme a un movimento di psichiatri “illuminati”, si batté per riaffermare il diritto all’essere persona di ogni malato e, dunque, per la loro liberazione da un sistema che aveva grandi somiglianze con quello carcerario. In verità il processo di deistituzionalizzazione e restituzione dei diritti dei pazienti a Firenze, come nel resto d’Italia, si realizzò molto più tardi: San Salvi festeggiò la definitiva chiusura nel 1998. Fu una chiusura soprattutto burocratica, iniziata a Firenze nel corso degli anni settanta, quando era già stato avviato il processo di apertura del manicomio e della cura della follia sul territorio. Per i pazienti rimasti senza famiglia venne ristrutturato un reparto del manicomio e furono realizzati al suo interno una serie di piccoli appartamenti. Gli utenti potevano viverci in autonomia, con il sostegno di una équipe medica e psicologica.
All’epoca della fondazione dell’ex ospedale psichiatrico, Firenze contava circa 170.000 abitanti. Se ne dedurrebbe che c’era un matto ogni 40 fiorentini. A svelare le cause di questa evidente anomalia sono i racconti di Claudio Ascoli che a San Salvi, con la sua compagnia teatrale Chille de Balanza, lavora da diciotto anni. Nel 1998, infatti, Ascoli e i Chille erano alla ricerca di uno spazio teatrale e la scelta ricadde su San Salvi, all’epoca diretto dal dottor Pellicanò, l’ultimo ad aver assunto la direzione dell’ospedale. Da qui i molteplici progetti messi in atto dalla compagnia, su tutti lo spettacolo itinerante C’era una volta il manicomio, frutto di un lavoro di ricerca ultradecennale teso a diffondere e preservare la memoria storica di San Salvi. Artista e studioso delle memorie del luogo, Ascoli ha scoperto che non erano solo le persone con disagio psichico a venire rinchiuse al San Salvi. C’erano infatti una serie di categorie di persone che non avevano alcuna patologia: i poveri (soprattutto se donne, e ancor di più se ragazze madri), gli omosessuali (lesbiche in particolare), i dissidenti del regime fascista, gli alcolisti e altri diseredati dalla società civile (cfr. http://www.chille.it/).
Dal momento della chiusura, nel 1998, il San Salvi, la città nella città, si è via via trasformato. Le palazzine decrepite si mischiano oramai a quelle ristrutturate di fresco, come la cinquecentesca Villa Fabbri, divenuta la nuova sede della Asl (Azienda sanitaria locale). Le stanze di coscrizione non ci sono più, le hanno trasformate o murate, così come quelle destinate a praticare l’elettroshock, i camminamenti sopraelevati usati dai medici sono inagibili, le scritte e i disegni fatti dai matti sui muri sono stati in molti casi cancellati. È invece cadente fino alla desolazione l’immobile che ospita il muro sul quale, tra il 25 aprile e il primo maggio del 1978, i ricoverati, insieme agli studenti del liceo artistico, avevano disegnato un grande murale. Ora appartiene al comune di Firenze. Il 1° agosto 2015, un nubifragio ha devastato molti edifici e tutti i progetti di rilancio dell’area sono rimasti tuttora bloccati: si sfiora il milione di euro di danni.
San Salvi resta una città nella città: al suo interno ci sono dipartimenti Asl, uffici comunali, sedi scolastiche e universitarie, centri sociali e culturali. Tra i padiglioni ci sono i corridoi sopraelevati e le gallerie sotterranee. Uno dei luoghi che conserva ancora il ricordo di un passato importante è la biblioteca Vincenzo Chiarugi nel padiglione dell’Asl, dove negli scantinati è stata inserita una parte dell’archivio delle cartelle cliniche. Nel 2011 l’intero archivio storico-amministrativo e quello clinico fino al 1940 sono stati depositati in custodia presso l’Archivio di stato di Firenze, insieme agli archivi dell’Istituto medico pedagogico Umberto I e dell’Istituto medico pedagogico Bice Cammeo, entrambi di Firenze. L’archivio clinico posteriore al 1940 è rimasto invece sotto la responsabilità dell’azienda sanitaria di Firenze ed è ubicato in due locali presso la biblioteca della Facoltà di psicologia, al piano terra della ex palazzina direttoriale, dentro l’area di San Salvi. Tutto l’archivio delle cartelle cliniche viene quindi situato in uno di questi due locali. Il materiale depositato in questa stanza non potrebbe essere consultabile dal pubblico, se non attraverso una richiesta scritta. Eppure, come segnalato da alcuni cittadini del comitato “San Salvi chi può”, da almeno due anni la stanza che conserva parte dell’archivio clinico è aperta. Il locale non potrebbe essere visitabile, eppure la stanza è aperta. C’è un corridoio, una porta mai chiusa e nessuna sorveglianza. All’interno della piccola stanza dai soffitti alti, grandi finestre e molta polvere ci sono scaffali, quaderni, raccoglitori, fascicoli, accatastati anche a terra. Sono documenti dove si può trovare un pezzo della storia di San Salvi: schede dei pazienti con tanto di foto, diagnosi e trattamento. I documenti risalgono alla fine dell’Ottocento, cioè prima che venisse aperto San Salvi. Ci sono i faldoni con i decessi anno per anno, le richieste di spostamento, le valutazioni dei medici, i provvedimenti dei questori che dispongono l’internamento: carteggi, diari, foto, bilanci sanitari che disegnano una storia collettiva di miseria e follia. Molte carte sono già introvabili, come quelle su Dino Campana (cfr. http://www.firenzetoday.it/cronaca/archivio-abbandonato-ospedale-psichiatrico-san-salvi.html). Dopo il nubifragio, del suo passaggio a San Salvi si sono perse le tracce.
Attualmente ogni struttura del San Salvi conta i danni provocati dal nubifragio: il centro di salute mentale e alcune residenze sociali sono temporaneamente chiuse. La scuola elementare ha le impalcature, la facoltà di Psicologia resta aperta, ma con il giardino transennato. Non è unicamente compito dell’Asl ideare il recupero di San Salvi, ma né l’amministrazione comunale né la Regione hanno piani a lungo termine e resta tutto in “stand by” (cfr. http://www.lettera43.it/fatti/san-salvi-ex-manicomio-devastato-dal-nubifragio_43675182434.htm). La storia dell’ex ospedale psichiatrico resta schiacciata tra vecchio e nuovo, sbiadisce per mancata ristrutturazione o per incuria, senza la volontà delle amministrazioni locali d’investire. Il futuro della cittadella resta un grande punto interrogativo.
(La foto di copertina è di Gaia Amadori ed è presa da qui)