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Fare un baccano d’inferno

Si è concluso oggi (19 dicembre 2024), in Francia, nel dipartimento del Vaucluse, il primo grado del processo contro Dominique Pelicot e altri 50 uomini. Il primo è accusato di aver drogato sua moglie Gisèle con un ansiolitico regolarmente prescritto e di averne organizzato lo stupro, quando era incosciente, per più di 200 volte e da parte di 80 uomini, contattati su una chat eloquentemente chiamata “à son insu” (a sua insaputa). 50 di questi (dai profili più disparati per età, mestiere, stato civile…) sono stati individuati e accusati. Pelicot ha inoltre filmato e meticolosamente archiviato (in una cartella del suo computer che ha chiamato «Abusi») queste violenze.

Aïcha Limbada, Fare un baccano d’inferno. Intervista sul processo di Mazan, l’ignoranza e il dibattito sulla “cultura dello stupro”

Sofia Bacchini, Francesca Capece, Maddalena Cataldi e Bianca Gambarana

«La honte doit changer de camp» (la vergogna deve cambiare campo) ha affermato Gisèle, chiedendo che il dibattimento del “processo di Mazan” (dal nome del luogo di residenza della coppia) si svolgesse a porte aperte, in quanto il dispositivo del processo a porte chiuse partecipa alla colpevolizzazione delle vittime di violenza sessuale. Gisèle non ha niente da nascondere, la vergogna da esporre al giudizio anche pubblico è tutta dalla parte degli accusati. Molte femministe, a partire da questa presa di posizione, hanno fatto appello, come Lola Lafon, a fare, intorno a quel che succede al processo “un baccano d’inferno”.
Per questo motivo abbiamo pensato di pubblicare alcune brevi interviste a partire dal “processo di Mazan” e dai tanti temi che sta facendo affiorare, con studios@ che di questi temi si occupano, ciascun@ a suo modo, in una prospettiva storica.

Il nostro contributo a quel necessario, sacrosanto “baccano d’inferno”.

Cominciamo con l’intervista ad Aïcha Limbada, storica che lavora sulla questione del consenso e che si è interessata al processo di Mazan, recandosi anche in tribunale per assistere a una delle udienze.

Aïcha Limbada nel 2023 ha pubblicato per La Découverte un volume tratto dalla sua ricerca di dottorato (che ha vinto il premio Pierre Lafue), intitolato La nuit de noces: une histoire de l’intimité conjugale. La ricerca si sviluppa lungo due linee principali, che sono interdipendenti. La prima ricostruisce la concreta realtà, storicamente situata, della prima notte di nozze in ambiente urbano, borghese, dal 1800 al 1920 in Francia. La seconda esamina la costruzione sociale del rito – la prima notte di nozze- che norma la prima relazione sessuale tra gli sposi. Una volta passato questo momento si ritiene che il matrimonio sia “consumato”.

Per accedere a questo momento privato Limbada ha utilizzato la documentazione relativa ai processi del Tribunale della Rota Romana della Congregazione del Concilio (conservata all’Archivio apostolico vaticano). In alcuni casi, i tribunali diocesani possono dichiarare nullo il matrimonio o concedere la dispensa per scioglierlo. Per giungere alla loro decisione, spesso guardano al modo in cui è avvenuto il primo incontro sessuale tra i coniugi. Il rifiuto di compiere il proprio“dovere coniugale” è considerato dai teologi del XIX secolo come un indizio della non consensualità del matrimonio, che può quindi essere annullato. Quello che succede tra marito e moglie durante la prima notte di nozze è quindi esattamente quello che interessa i giudici ecclesiastici, che raccolgono le testimonianze degli sposi e del loro entourage (p. 54). Ma, anche se né lo stato né la Chiesa considerano la “consumazione” del matrimonio come strettamente obbligatoria per la validità del legame matrimoniale, le norme sociali e morali della Francia dell’epoca fanno della prima notte di nozze un passaggio obbligato per rendere effettiva l’unione legale.

Il che naturalmente porta alla seconda dimensione del lavoro di Limbada: quali sono e come si costruiscono queste norme sociali e morali? L’autrice si dedica allora alla ricostruzione dell’immaginario sociale intorno alla prima notte di nozze da parte di medici, giornalisti, poeti, romanzieri e romanziere etc. Questa ricostruzione non serve però solo a fare una storia della cultura o della famiglia. Per Limbada questa ricostruzione serve a stabilire il perimetro tra quello che si dice e quello che si tace della prima esperienza della sessualità per molte donne (gli uomini si dà per scontato che abbiano avuto esperienze prima del matrimonio). Come hanno suggerito Robert Proctor e Nancy Tuada il segreto, il silenzio e l’ignoranza non si devono considerare delle semplici mancanze di sapere, ma come costruzioni attive[1]. Limbada dimostra che il segreto che avvolge la camera degli sposi e la prima notte di nozze è costruito all’intersezione tra l’ignoranza della donna (coltivata e poi “svelata” dagli esperti del corpo medico) e il silenzio – dalla società e specialmente delle donne, madri, amiche, che parlano o tacciono anticipando alla “vergine” quello che sarà il suo “obbligo coniugale”. Il perimetro, molto diverso tra i due coniugi, tra quello che si sa e quello che si ignora dell’oggetto dei voti matrimoniali che si sono pronunciati quello stesso giorno davanti a Dio, costruisce e delimita la questione del consenso, e inscrive la dominazione sessuale dell’uomo sulla donna proprio nel cuore del matrimonio, l’istituzione base della società nell’Ottocento europeo. L’analisi dell’immaginario della prima notte di nozze dimostra che l’idea che la sposa sia “impaurita al momento di sottomettersi al dovere coniugale” è totalmente accettata. L’immaginario della vergine pudica, ignorante della sessualità, contribuisce a creare e difendere questa realtà dei fatti, ne veicola l’accettabilità e ne forza l’accettazione (p. 199). La prima notte di nozze è percepita dai contemporanei come una violenza, anche nel quadro di matrimoni voluti e tra persone consenzienti. Attraverso un’analisi delle opinioni che circolano, veicolate dai giornali, nello spazio pubblico, Limbada dimostra che a partire dal 1820 il “dovere coniugale” è accostato per molti a uno “stupro legale” (p. 200). E la prima notte di nozze analizzata da Limbada è il dispositivo sociale che cristallizza il possesso illimitato del corpo della sposa da parte dello sposo. Per questo motivo Limbada si è interessata al processo di Mazan, al punto da recarsi ad assistere a un’udienza.

In Francia questo processo ha innescato un dibattito pubblico che oppone chi ritiene che il processo sia fuori dalla norma, nei termini dell’oggetto e del numero degli imputati, etc. e chi pensa invece che sia sociologicamente rappresentativo della società francese e quindi costituisca una base per giudicare la “cultura dello stupro”. Perché la prima notte di nozze è pertinente per capire il processo Mazan, al punto che hai voluto andare a vedere una delle udienze del dibattito? Alla luce delle tue ricerche, come ti collochi in questo dibattito sul significato stesso della nozione «cultura dello stupro»?

È vero che il processo per stupro di Mazan è insolito, per la sua durata (diversi mesi) e per il numero di imputati; inoltre, perché è senza precedenti la presenza di così tante prove materiali (soprattutto video) che non lasciano dubbi sulla realtà dei crimini commessi. Ma rivela anche ciò che accade troppo spesso quando viene presentata una denuncia per stupro: la maggior parte degli autori di stupro non riconosce i propri atti nonostante le prove, i fatti vengono minimizzati o addirittura negati, alcuni avvocati si accaniscono sulla vittima… questo è un altro promemoria del motivo per cui molte vittime non vogliono presentare una denuncia: sanno che il processo è un’altra prova in cui le loro parole vengono messe in discussione e il loro comportamento esaminato senza motivo. Hanno parlato del modo in cui Gisèle Pelicot si vestiva in casa, per esempio. Il processo mostra anche cosa sia la cultura dello stupro, ovvero la banalizzazione o l’eufemizzazione dello stupro. Il fatto che gli imputati abbiano ritenuto di non dover chiedere il permesso a Gisèle Pelicot perché lo avevano ottenuto dal marito dimostra che l’idea che una donna sia proprietà del marito, che può usarla a suo piacimento, è persistente.

Cos’è il “dovere coniugale”? e quale è la relazione di questa nozione con quella di “stupro legale”? 

Fin dalle origini del cristianesimo, il dovere coniugale è stato il dovere di essere sempre sessualmente disponibili per il proprio coniuge. Il matrimonio è visto come un rimedio alla concupiscenza. Questa nozione religiosa si basava sull’uguaglianza e sulla reciprocità tra uomo e donna e comprendeva solamente l’atto sessuale che poteva portare alla procreazione, cioè la penetrazione vaginale. In pratica, è l’uomo che più spesso esige il dovere coniugale. A causa dei ruoli di genere nella sfera sessuale, le donne non chiedono nulla: aspettano che sia l’uomo a prendere l’iniziativa e non chiedono nulla, tranne nei casi in cui il marito è totalmente impotente. Le donne vengono educate a credere che devono obbedire ai mariti in tutto e per tutto e che devono sottomettersi ai loro desideri, che a volte sono visti come bisogni. L’idea che l’uomo abbia esigenze sessuali più forti e più pressanti è diffusa e confermata dai medici, che ritengono che la continenza faccia male alla salute e raccomandano il matrimonio per questo motivo. Le donne sposate, quindi, non hanno scelta. Nel XIX secolo, pensatori, romanzieri e romanziere, femministe e medici denunciarono questa realtà: troppe donne sposate erano sottoposte a rapporti sessuali che non desideravano e che venivano loro imposti fin dalla prima notte. Per evidenziare questo paradosso si usa l’espressione “stupro legale”: la legge punisce l’imposizione di un atto sessuale senza il consenso dell’altra parte, tranne nel caso del matrimonio, dove la legge non prevede che il consenso possa mancare. Lo stupro all’interno del matrimonio è quindi autorizzato dalla legge, fino alla fine del XX secolo nel caso della Francia.

Il fatto che lo stupro si verifichi all’interno della coppia genera confusione sulla “normalità” della sessualità della coppia o degli imputati. Nel processo Mazan, gli avvocati si sono concentrati molto sulla normalità della vita sessuale della coppia e degli imputati. Cosa ne pensi? Puoi spiegare la profondità storica di questa questione?

Mi hanno colpito alcune domande del giudice alle partner o ex partner degli imputati. Ad esempio, sembrava che cercasse di capire perché questi uomini fossero “andati a cercare altrove” – una formulazione strana perché si riferisce all’adulterio, non a ciò che era accaduto, cioè allo stupro. Il giudice ha anche chiesto alle donne la frequenza e la natura degli atti sessuali, usando una formulazione che suggeriva che forse gli uomini (gli imputati) erano andati alla ricerca di ciò che non riuscivano a trovare nella loro relazione – un altro modo per far sentire indirettamente le donne in colpa. Anche le domande sulla “normalità” degli atti compiuti sono singolari: non si capisce perché i tribunali siano interessati alle “fantasie sessuali” (altra espressione usata dal giudice) degli imputati e delle loro partner. L’unico elemento di interesse dovrebbe essere il consenso, non la natura di questi atti (nella misura in cui non sono contrari alla dignità umana). Qui vediamo la persistenza di una rappresentazione della sessualità che a volte è vista più dal punto di vista della morale che da quello del consenso. In un certo senso, possiamo fare un parallelo con alcuni processi della fine del XIX secolo: i giudici (civili o penali – non parlo qui dei giudici ecclesiastici) non condannavano lo stupro all’interno del matrimonio, a meno che non ritenessero gli atti innaturali o immorali. Così, la penetrazione vaginale senza consenso non era condannata, ma quella anale o orale sì.

Infine una domanda sulla sottomissione chimica (“soumission chimique”), ovvero l’utilizzo di droghe o altre sostanze che alterano la volontà a fini di ottenere un rapporto sessuale, qual è la sua storia? Anche qui possiamo rintracciare dei precedenti ottocenteschi? E cosa ci dice l’analisi dei processi dell’epoca sulla questione attuale?

La sottomissione chimica consiste nella somministrazione di una sostanza (alcol, farmaci, droghe, ecc.) a una persona a sua insaputa o sotto minaccia, per approfittare del suo stato di vulnerabilità per scopi criminali (ad esempio, il furto) o atti criminali (ad esempio, la violenza sessuale). Purtroppo questa pratica è antica. Mi sono interessata a questo argomento per quel che riguarda il XIX secolo. Nella letteratura, alcuni intrighi dei romanzi erano basati sullo stupro di donne che erano state drogate a loro insaputa. Negli archivi vaticani che ho studiato, ho trovato diversi casi in cui le donne raccontavano di essere state violentate dai loro mariti che usavano alcol o sonniferi per raggiungere i loro scopi. Anche questo era un argomento di interesse per gli scienziati forensi: pensavano che il fatto fosse possibile, ma allo stesso tempo erano molto sospettosi nei confronti delle donne che dicevano di esserne state vittime. Non sorprende quindi che le vittime abbiano presentato così poche denunce, soprattutto perché all’epoca era più diffusa la convinzione che un atto sessuale imposto senza una precedente violenza fisica non fosse uno stupro. Le loro difficoltà e reticenze sono ancora più comprensibili se si considera che, ancora oggi, è difficile raccogliere prove di sottomissione chimica: i test biologici devono essere effettuati molto rapidamente dopo il fatto, il che rende difficile condannare gli autori in assenza di una confessione. La figlia di Dominique Pelicot, ad esempio, si trova in questa situazione.


[1] Tuana, Nancy (2004). Coming to Understand: Orgasm and the Epistemology of Ignorance. Hypatia 19 (1):194-232 ; Proctor, Robert N. 1995. Cancer wars: How politics shapes what we know and don’t know about cancer. New York: Basic Books

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