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«Ogni processo per stupro è un processo politico». Fare un baccano d’inferno dagli anni settanta

Si è concluso il 19 dicembre 2024, in Francia, nel dipartimento del Vaucluse, il primo grado del processo contro Dominique Pelicot e altri 50 uomini. Il primo è stato condannato per aver drogato sua moglie Gisèle con un ansiolitico regolarmente prescritto e di averne organizzato lo stupro, quando era incosciente, per più di 200 volte e da parte di 80 uomini, contattati su una chat eloquentemente chiamata «à son insu» (a sua insaputa). 50 di questi (dai profili più disparati per età, mestiere, stato civile…) sono stati individuati, accusati e giudicati colpevoli. Pelicot ha inoltre filmato e meticolosamente archiviato (in una cartella del suo computer che ha chiamato «Abusi») queste violenze.
«La honte doit changer de camp» (la vergogna deve cambiare campo) ha affermato Gisèle, chiedendo che il dibattimento del “processo di Mazan” (dal nome del luogo di residenza della coppia) si svolgesse a porte aperte, in quanto il dispositivo del processo a porte chiuse partecipa alla colpevolizzazione delle vittime di violenza sessuale. Gisèle non ha niente da nascondere, la vergogna da esporre al giudizio anche pubblico è tutta dalla parte degli accusati. Molte femministe, a partire da questa presa di posizione, hanno fatto appello, come Lola Lafon, a fare, intorno a quel che succede al processo «un baccano d’inferno».
Per questo motivo abbiamo pensato di pubblicare alcune brevi interviste a partire dal “processo di Mazan” e dai tanti temi che sta facendo affiorare, con studios@ che di questi temi si occupano, ciascun@ a suo modo, in una prospettiva storica.
Il nostro contributo a quel necessario, sacrosanto «baccano d’inferno».

Nadia Maria Filippini, Fare un baccano d’inferno. Intervista su consenso, violenza giudiziaria, processi a porte aperte e partecipazione dei movimenti

Sofia Bacchini, Francesca Capece, Maddalena Cataldi e Bianca Gambarana

«Ho sentito l’esigenza che questo processo non sia solo contro i due stupratori, ma contro tutti i condizionamenti che usa la società contro la donna, per mantenerla, opprimerla in uno schema di comportamento prestabilito»: sono queste le parole pronunciate da Alma durante la conferenza stampa che si svolge all’uscita del tribunale di Verona nell’ottobre del 1976, al termine della prima udienza del primo processo per violenza sessuale che si svolge a porte aperta nella storia d’Italia. Alma è lo pseudonimo scelto da Nadia Maria Filippini per la sedicenne veronese protagonista della vicenda – umana, processuale, ma soprattutto politica – che viene ricostruita nel libro Mai più sole contro la violenza sessuale. Una pagina storica del femminismo degli anni Settanta (Viella, 2022). Un processo, quello di Verona, dalla portata epocale per tanti motivi: per la coraggiosa presa di parola pubblica della giovanissima sopravvissuta allo stupro, che fin dall’inizio sfidò una narrazione che imponeva alle donne violentate «la vergogna del silenzio e l’emarginazione sociale»; per la mobilitazione collettiva che ne scaturì nell’immediato con il coinvolgimento dei gruppi femministi del territorio, che accompagnarono Alma per tutta la durata del procedimento giudiziario e oltre, e che si strutturò negli anni successivi in un vero e proprio movimento di contrasto alla violenza; per la forte esposizione mediatica, che se da un lato perpetuava dinamiche di spettacolarizzazione della violenza e colpevolizzazione della vittima, dall’altro fecero da cassa di risonanza alle istanze femministe. Per la prima volta, infine, si mettevano sotto accusa i meccanismi del sistema giudiziario stesso, permeato, come le altre istituzioni da una «cultura solidale con lo stupro».

L’interrogativo da cui parte la ricerca di Nadia Maria Filippini riguarda la scomparsa dalla memoria collettiva di questo snodo fondamentale della storia del movimento femminista italiano, quasi sempre oscurato dal ben più noto processo di Latina per il massacro del Circeo, che si svolse due anni dopo quello di Verona. La risposta che si dà l’autrice prende in considerazione, oltre alla marginalità geografica della vicenda rispetto a una narrazione che tende a centrare lo sguardo sulle grandi città, anche il fatto che «il tema stesso della violenza sessuale, dopo l’iniziale fioritura di interesse negli anni Settanta, è rimasto piuttosto a margine delle ricerche storiche in Italia», fino a tempi più recenti. Oggi comincia infatti ad essere riconosciuta l’importanza di una prospettiva storica per «analizzare le radici della violenza, i modelli di genere che l’hanno alimentata, le norme e le forme di legittimazione che ne hanno consentito il perpetuarsi nel corso del tempo; aspetti essenziali anche ai fini della messa a punto di iniziative di contrasto nella realtà sociale».

Dopo aver sentito Aïcha Limbada sulle forme storiche della dominazione sessuale che persistono nelle relazioni di genere attuali, abbiamo chiesto a Nadia Maria Filippini di rispondere ad alcune domande suscitate dal processo di Mazan a partire dai suoi studi intorno alla storia dei processi per stupro. Le analogie tra il processo di Mazan e il processo di Verona del 1976 forniscono una prospettiva utile per ragionare sulla pratica femminista della politicizzazione del processo per stupro.

La storia e la ricchezza del dibattito femminista sembrerebbero insegnarci che, dato che sono le leggi stesse, storicamente, a sancire il dominio maschile, i tribunali possono essere non solo territorio nemico – in cui ancora oggi si perpetua spesso una vittimizzazione secondaria delle survivors, tanto che si parla, tra le diverse forme di violenza di genere, anche di “violenza giudiziaria” – ma anche teatri di cambiamenti epocali. In effetti, la storia della liberazione delle donne è segnata da processi-chiave che hanno permesso di costruire una mobilitazione all’interno della società civile e di produrre delle svolte significative all’interno della giurisprudenza (pensiamo ai processi per aborto clandestino, come il processo Pierobon in Italia o Chevalier in Francia, al processo per violenza sessuale e sequestro tramite il quale Franca Viola rifiutò pubblicamente il matrimonio riparatore, alcuni processi molto noti per violenza sessuale, come quello del Circeo ecc.). Pensi che il Processo di Mazan possa avere una valenza simile? Nel 1976, investire il processo, mediaticamente e politicamente, era anche una delle forme di contestazione dei tribunali e dello Stato. Il movimento femminista contestava le modalità di interrogatorio delle parti civili, rifiutava il risarcimento, insomma c’era una critica del ruolo stesso del Tribunale e dello Stato che fa le sue leggi. Su questo (come su altri temi) c’è stata una spaccatura nel movimento. Questo tema sembra completamente abbandonato. Cosa è cambiato?

Negli anni settanta il movimento femminista ha compiuto una scelta dirompente e rivoluzionaria: quella di trasformare i tribunali da luoghi di applicazione di leggi asimmetriche e repressive, in luoghi non solo di manifestazione di solidarietà femminile, ma di denuncia della vittimizzazione secondaria, delle mentalità sessiste delle corti di giustizia, di contestazione delle norme stesse. Per molte la scommessa era anche più alta: quella di trasformare i processi (per aborto o violenza sessuale) in “processi politici”, cioè in casse di risonanza che mettessero sotto accusa, sul banco degli imputati, oltre ai codici, la struttura patriarcale che li sostanziava, la cultura e la mentalità che vi stavano a monte, nella convinzione che queste si potessero cambiare cominciando anche dalle aule dei tribunali, come afferma Tina Lagostena Bassi nell’arringa del processo di Latina del 1979.

Questi erano i variegati obiettivi della cosiddetta “politica dei processi”: un movimento che si è sviluppato a partire dai processi-chiave di Bobigny, di Padova, di Verona, modelli di decine di mobilitazioni in tutto il paese, da nord a sud, dalle grandi città ai piccoli paesi. In una recente pubblicazione ne ho contate almeno 22 in Italia, in occasione di processi per stupro, nel solo arco cronologico compreso tra il 1976 e il 1980. Ed è un bilancio ancora provvisorio, perché la ricerca su questo terreno è appena agli inizi. Quanto è avvenuto nei giorni scorsi ad Avignone rappresenta una ripresa di questa mobilitazione. Ad averla rimessa in moto, dopo decenni di abbandono, sono a mio avviso due fattori concomitanti: da un lato la centralità che la questione della violenza maschile contro le donne ha assunto negli ultimi anni nel movimento femminista, di fronte alle terribili cifre dei femminicidi; dall’altro le caratteristiche peculiari di questa violenza Pelicot: il suo essere interna alla sfera domestica, al rapporto coniugale di una famiglia francese “nomale”; il lungo reiterarsi dei fatti, l’alto numero dei maschi coinvolti di tutte classi sociali, e soprattutto l’idea intrinseca ai fatti del corpo della moglie come proprietà e in quanto tale “oggetto” di scambio, da offrire inerte ad altri maschi. Tutto ciò ne fa un caso emblematico delle mentalità sessiste e delle forme di potere sul corpo delle donne che permeano settori anche insospettabili della società civile.

La discussione, almeno in Francia, anche sul piano giuridico, sembra essersi spostata dalla definizione della violenza sessuale alla definizione del consenso, il che ha ricadute giuridiche ma anche più generali. Ci puoi aiutare a pensare cosa cambia, se ti sembra che un cambiamento ci sia, e come è avvenuto questo slittamento?

Spostare l’attenzione sul tema del consenso della donna è molto importante per almeno due ragioni: una di carattere storico-culturale, l’altra legata all’attualità e al diffondersi della droga dello stupro o di altri tipi di psicofarmaci (come nel caso Pelicot), per cui si è coniata la definizione di “sottomissione chimica”. 

Per quanto riguarda la prima non si deve dimenticare che secondo una lunghissima tradizione, rimasta viva fino a tempi recenti, il rifiuto della donna delle avances sessuali maschili era atteso e interpretato non come una reale convinzione, ma come espressione intrinseca della sua “natura” femminile, caratterizzata da ritrosia, passività e freddezza, versus una “natura” maschile al contrario attiva, focosa, intraprendente; oppure come un finto atteggiamento di negazione, atto a salvaguardare l’immagine di donna virtuosa. Una vastissima letteratura anche scientifica sosteneva e legittimava la cosiddetta “vis grata puellae”, con ripercussioni pesanti pure in campo giuridico che andavano appunto a legittimare varie forme di violenza contro le donne. La forzatura o l’irrilevanza del consenso era insomma normalizzata. Spostare dunque il focus sul consenso consente di uscire dalle sabbie mobili di questa tradizione e costruzione culturale. Accanto a questo va sottolineato l’altro aspetto che riguarda invece più l’attualità. Il diffondersi delle droghe dello stupro rende la vittima del tutto passiva, incapace non solo di opporsi, ma anche di capire e decidere. Mettere a fuoco il consenso, anche in termini giuridici, vuol dire presupporre invece una persona lucida, consapevole, attiva, cioè in grado di valutare e decidere riguardo al proprio corpo e sessualità in ogni momento del rapporto sessuale.

All’inizio del processo si è detto che Gisèle Pelicot era la “vittima perfetta” perché la presenza di video non avrebbe permesso la vittimizzazione secondaria (ovvero il fatto che la vittima sia chiamata a dover provare di non essere lei stessa in qualche modo responsabile della violenza subita), ma abbiamo visto questi temi diventare comunque argomenti della difesa dei 50 accusati…

I dati oggettivi, riscontrabili, non sono di per sé sufficienti ad evitare la vittimizzazione secondaria, come dimostra la storia di molti processi. Anche nel processo del Circeo, esistevano prove schiaccianti della violenza (che cosa di più eclatante di un cadavere nel bagagliaio e del corpo nudo e ferito di Donatella Colasanti?), ma questo non è bastato ad evitarle una pesante violenza giudiziaria. Esiste purtroppo una prassi giuridica fatta propria da molti penalisti i quali, forti di una lunga tradizione e letteratura giuridica, travalicano i limiti non solo del rispetto della vittima, ma dei limiti e delle norme che le nostre istituzioni recentemente hanno posto agli interrogatori, grazie alle battaglie condotte dal movimento delle donne. Negli ultimi anni, l’Italia è stata ripetutamente sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per vittimizzazione secondaria in alcuni processi. Ma anche la Francia – come si vede – e tutt’altro che esente da queste distorsioni.

Nell’introduzione del tuo libro Mai più sole contro la violenza sessuale. Una pagina storica del femminismo degli anni Settanta scrivi che, in maniera controintuitiva, la storia della violenza sessuale sulle donne, presa sul lungo periodo, è una storia di forza e non di debolezza perché mostra la grande capacità e diversità di strategie messe in atto «nei secoli per farvi fronte» (p. 13). In questo Gisèle Pelicot sembra una figura paradigmatica, che vuole incarnare il rifiuto del silenzio (attraverso il rifiuto del processo a porte chiuse) come il rifiuto della vittimizzazione. Anche storicamente, il protagonismo di una vittima si è articolato in vari modi con il movimento femminista. Ti sembra che in questo caso il rifiuto, se non addirittura il rovesciamento del ruolo di vittima abbia funzionato?

Ho voluto sottolineare che esiste “anche” un’altra faccia di questa storia, che è stata poco indagata ed evidenziata. A questo proposito va ricordato che rappresentare le donne solo e sempre come vittime passive finisce per rafforzare lo stereotipo del maschio dominante attivo e della donna succube, impotente, come in una specie di destino ineluttabile e immodificabile. È importante non solo storicamente, ma anche ai fini di una costruzione di una nuova rappresentazione dei rapporti di genere, fare luce sulle forme di opposizione e di agency delle donne che si sono articolate nel tempo contro la violenza maschile, come abbiamo cercato di fare anche nella recente pubblicazione Donne e giustizia. Dissimetrie legislative e agency delle donne («Ateneo Veneto», CCXL, 23/1, 2023, o in quella a cura di Simona Feci e Laura Schettini sull’Autodifesa delle donne).

Gisèle Pelicot è in questo senso una figura emblematica, come lo sono state nel passato Franca Viola o Alma di Verona negli anni ‘60 e ‘70.  Ci sono molte analogie tra il suo atteggiamento e quello appunto di queste altre due figure, in particolare per quanto riguarda la rottura del silenzio della vergogna. Le sue parole: «Que la honte change de camp!», divenute subito uno slogan, riecheggiano quelle della ragazza di Verona, quando, nel chiedere le porte aperte del processo a soli 16 anni, dichiarava «Non è mia la vergogna!». La rottura del silenzio in questo caso di Mazan è ancor più emblematica, perché coinvolge la sfera privata, va a rompere i suoi confini e il patto di silenzio implicito e atteso nel rapporto coniugale da parte delle donne; quel patto che sottintende non solo che la moglie subisca, ma che subisca in silenzio, nascondendo il male subìto in nome e per l’onorabilità della famiglia e della figura del marito, fino a occultarne il volto violento. 

Ecco, rinunciando all’anonimato, chiedendo le porte aperte e la divulgazione del processo, Gisèle ha rotto questo modello familiare, ha avuto il coraggio di esporre al pubblico le perversioni del marito, rifiutandosi di esserne implicitamente connivente; ha scardinato il ruolo di vittima, trasformando la sua vicenda in un fatto pubblico e politico.

In un recente intervento sul «Manifesto» ti sei soffermata sul peso della decisione presa dal Tribunale di Venezia di respingere la richiesta di costituzione di parte civile avanzata da cinque associazioni che si battono contro la violenza sulle donne nel processo per il femminicidio di Giulia Cecchettin. Hai voluto in particolare sottolineare «l’aspetto simbolico e culturale che la loro presenza avrebbe avuto nel processo e che la loro esclusione ha fatto mancare». Potresti riprendere rapidamente il filo di quel ragionamento, in relazione al caso ben diverso del processo per gli stupri di Mazan e del dibattito che lo sta accompagnando? Se il processo per violenza, come dici nel libro, è un po’ il momento in cui si cristallizzano le diverse dinamiche politiche di questo campo, e anche lo stato del dibattito femminista, Mazan che cosa ci dice del nostro momento?

«Ogni processo per stupro per violenza sessuale è un processo politico» – affermavano le femministe degli anni settanta – nel senso che non riguarda la singola vittima, ma tutte le donne in quanto tali, «perché la violenza scaturisce dal dominio che l’uomo ha consolidato storicamente nei suoi rapporti con la donna; è un’espressione di questo dominio, che caratterizza la società patriarcale». Lo dicevano prima che questo fosse scritto nella Convenzione di Istanbul del 2011. Con questa motivazione i gruppi e le associazioni femministe chiedevano le porte aperte nei processi e la costituzione di parte civile; una possibilità riconosciuta a distanza di quasi vent’anni in Italia dalla legge 66/1996.

La scelta voleva sottolineare, allora come ora, il dato oggettivo e simbolico che ogni violenza contro le donne non è mai casuale e non riguarda solo la singola, ma coinvolge tutte le donne, in quanto espressione di una cultura patriarcale e solidale con lo stupro, come scriveva Susan Brownmiller nel suo Against our will (1975). Per questo il rifiuto della Corte di Assise di Venezia, nel processo Cecchettin, di ammettere cinque associazioni femministe (peraltro impegnate nel lavoro di contrasto alla violenza di genere), ha rappresentato un passo indietro rispetto alle conquiste delle donne.

Questi contenuti sono stati fortemente ripresi nella mobilitazione femminista che ha accompagnato processo di Mazan, che è stata da questo punto di vista estremamente significativa, con le femministe non solo presenti in massa al dibattimento, ma che hanno organizzato manifestazioni in varie città francesi (Parigi, Marsiglia, Bordeaux, Lille, Nantes,  ecc.), con cortei, sit-in, campagne sui social media, rappresentazioni teatrali e artistiche, volantini e cartelloni (che recitavano tra l’altro: «La culture du viol ça suffit!», «Croyez les victimes!», «Justice pour Gisèle») , proprio come negli anni Settanta, ottenendo un forte ed efficace impatto mediatico.

Si può dire insomma che il Tribunale di Avignone sia stato l’epicentro di una scossa culturale e politica di elevata magnitudine che ha investito la società civile.

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