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Archivista “alla griglia”

Pubblichiamo un intervento di Giovanni Pietrangeli e Alessandro Stoppoloni sul “decreto Bonisoli” (224/2019), che ha definito gli elenchi nazionali per regolamentare l’accesso alle professioni applicate ai beni culturali. Tuttavia, le griglie di Bonisoli, pur ispirandosi alle competenze individuate dal Quadro europeo delle qualifiche (EQF), ne stravolgono un assunto di base: a un’idea di formazione continua formale e informale, infatti, sostituiscono percorsi di studio quasi sempre formalizzati ed eccessivamente settorializzati.
Che riflessione se ne può trarre, tenendo in considerazione il quadro di precarizzazione dei mestieri che ruotano attorno alla cultura? Ci auguriamo che a questo articolo ne seguano altri, per costruire all’interno di SIM uno spazio di confronto sullo stato del mondo dei lavori connessi all’analisi, alla didattica e alla comunicazione della storia.

Archivista “alla griglia”. Note per una proposta di discussione

di Giovanni Pietrangeli e Alessandro Stoppoloni

Una premessa doverosa: queste righe non vogliono risultare né assertive né polemiche. Al contrario, vogliono aprire uno spazio di discussione a partire dal nostro sito per quanti e quante, aderenti o meno a Storie in Movimento, si interrogano sulla propria identità, come soggetti produttivi, cittadini e cittadine.
All’interno di SIM trova spazio chi lavora nella ricerca, nella didattica scolastica, nel mondo dell’editoria, degli archivi e dei musei. Ma anche chi fa tutt’altro, ma coltiva la propria passione per l’analisi critica del passato con attenzione e cura. Più o meno tutti e tutte abbiamo però un problema comune: la precarietà economica, che ci porta ciclicamente a compiere scelte “di buon senso”, ma umanamente e politicamente poco appaganti, o scelte di rottura, per preservare la propria integrità a costo di accantonare desideri e progetti coltivati per anni. Ci auguriamo che, al di là del tema dell’articolo, si apra a partire da SIM un laboratorio di riflessione critica sul lavoro e i tanti mestieri che maneggiano il passato e la sua interpretazione.

Sulla «Gazzetta Ufficiale» del 29 maggio 2019 è stato pubblicato il decreto 244 del 20 maggio, firmato dal ministro per i beni culturali Alberto Bonisoli, relativo ai profili che possono accedere agli elenchi ministeriali per l’esercizio delle professioni di archeologi, archiviste, bibliotecari, demoetnoantropologhe, antropologi fisici, esperti ed esperte di diagnostica e di scienza e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte.
Il decreto è il frutto di una campagna che da anni cerca di ottenere l’effettiva applicazione dell’articolo 2 della legge 110/2014 (modifica al Codice dei Beni culturali e del Paesaggio) e che ha visto in prima fila le associazioni professionali che in teoria rappresentano gli interessi di quanti esercitano lavori in ambito culturale. Chiaramente, si intende gli interessi di quanti sono iscritti, partecipano al dibattito interno, all’elezione delle cariche direttive, ecc..

L’Archivio dei movimenti sociali di Freiburg
Da: Michael Koltan, Lottare per il futuro guardando al passato, in «Zapruder», n. 47, set-dic 2018, p. 58.

A muovere l’attenzione delle associazioni nella direzione di una regolamentazione serrata dei curricula necessari ad accedere agli elenchi è stata, probabilmente, la migliore delle intenzioni: di fronte alla consuetudine di mandare avanti enti culturali con profili a basso costo (o nullo) e quasi senza verifica di competenze, si è voluto accelerare per tutelare quante e quanti, in un disastroso quadro occupazionale, si barcamenano tra borse di studio, consulenze professionali, dequalificazione. Basti pensare all’utilizzo spropositato di diverse forme di “volontariato”, previsto già dalla legge n. 4 del 14 gennaio 1993 (c.d. Legge Ronchey) , fatto negli anni più recenti (per esempio durante il ministero Franceschini) o la vicenda degli “scontrinisti” della Biblioteca nazionale di Roma, venuta a galla un paio di anni fa. Si è così scelto di fissare dei livelli formativi e di esperienza minimi necessari per entrare a far parte degli elenchi, con lo scopo di fornire dei criteri di riferimento per il settore. Sono state inoltre previste diverse categorie di specializzazione: per esempio, per diventare archivista di terza fascia occorre avere almeno una laurea triennale e aver maturato 24 cfu in discipline archivistiche, paleografiche o diplomatistiche. È necessario anche dimostrare di avere almeno dodici mesi di esperienza lavorativa.

Il decreto non ha soddisfatto tutte le aspettative: oltre ai consueti dibattiti su mailing list e social network, il quotidiano «la Stampa», il 9 giugno 2019, ha dato spazio a una lettera aperta al ministro, firmata da vari coordinatori e coordinatrici di corsi di laurea magistrale in Archivistica e Biblioteconomia. Nella lettera si critica proprio la possibilità di entrare negli elenchi senza un titolo specifico. I firmatari ritengono che una laurea umanistica e pochi esami non bastino «a garantire una adeguata preparazione all’esercizio di questa professione».

Queste prese di posizione offrono almeno alcuni spunti per sviluppare una discussione.
Il primo aspetto riguarda l’università italiana: di fronte alle riforme strutturali che l’hanno travolta negli ultimi due decenni, alcuni dei problemi evidenziati in passato sembrano iniziare a emergere con evidenza. Né la settorializzazione che ha spezzettato i campi del sapere, né la crescita esponenziale del numero dei corsi sono riuscite a valorizzare le competenze acquisite durante gli studi. Al contrario, hanno contribuito ad appiattirle, escludendo l’interdisciplinarietà e una sensibilità aperta a molteplici aspetti della conoscenza dall’orizzonte della formazione. Questo a sua volta ha avuto evidenti ricadute sulla professionalizzazione: da una parte infatti abbiamo persone con profili molto specifici, dall’altro un mercato del lavoro dove la molteplicità di competenze richieste e l’adattabilità sono forse alla base della domanda, caratterizzata per altro da una forte precarizzazione e dall’instabilità dell’impiego, specie ad alto livello di qualificazione (basti pensare all’utilizzo massiccio di lavoro autonomo, per altro assai diffuso nelle professioni archivistiche). Inoltre, lo spezzettamento accademico ha escluso ampie fasce di laureati dalle opportunità di formazione post lauream, in particolare dottorale. Viene da chiedersi: quante borse di dottorato sono bandite in Italia ogni anno per questo tipo di percorsi, per permettere di approfondire gli studi percependo allo stesso tempo un reddito? Esiste la possibilità di frequentare dei master e la Scuola di specializzazione in beni archivistici e librari, ma in entrambi i casi il costo previsto non è indifferente.

Il secondo aspetto ha più a che vedere con la materia del decreto: in nessuna delle prese di posizione intorno alla costituzione degli elenchi si è mai fatto cenno all’esigenza di adeguare alcuni dei percorsi formativi previsti alle rinnovate esigenze della disciplina: in particolare, le Scuole di archivistica, diplomatica e paleografia degli Archivi di stato, gratuite e aperte anche a chi ha il diploma di scuola superiore, raramente (anche perché ancora vincolate al loro regolamento originale risalente al 1911) si discostano dallo studio del documento medievale e di età moderna. La prova di esame finale è ancora articolata su due scritti di cui uno è, appunto, di paleografia e diplomatica (legata alle tipologie di scrittura presenti negli archivi stessi, con sensibili differenze da archivio ad archivio). Da più parti negli scorsi anni si è parlato della possibilità di riformare le scuole, senza raggiungere risultati concreti. Questo fa sì che i corsi di questo tipo non offrano una preparazione in linea con le esigenze di un archivio con documentazione contemporanea, per non parlare di tipologie particolari come il digitale o l’audiovisivo, nonostante negli anni ci sia stato qualche tentativo di introdurre nei piani di studio delle ore dedicate all’informatica e agli archivi in formazione.

Da: Diego Cavallotti, Transarchivio, in «Zapruder», n. 47, set-dic 2018, p. 117.

Tornando alle griglie predisposte dal decreto Bonisoli e cercando di circoscrivere ancora di più l’accesso alle professioni archivistiche, si ha il dubbio che l’istituzione degli elenchi possa favorire la nascita di alcuni atteggiamenti corporativistici, rischiando di continuare a guardare il dito e a ignorare la luna. Se, giustamente, ci si preoccupa della disoccupazione e della precarietà dilagante nell’ambito archivistico e più in generale dei professionisti dei beni culturali (come se questa poi non fosse condizione generalizzata), non ci si può non concentrare sul disinvestimento che questo settore ha complessivamente subito negli ultimi decenni. L’idea di piena occupazione precaria, per cui si lavora, certo, ma male, sottopagati e senza tutele né welfare in caso di disoccupazione o malattia, specie per il lavoro autonomo, è infatti imperante nel quadro complessivo. Né il pubblico né il privato hanno intenzione di valorizzare i soggetti che escono ogni anno dai corsi umanistici, tanto quelli più “generici”, quanto quelli più settoriali. Si rischia, quindi, di esasperare una sorta di concorrenza fra precari e precarie («ci tirano gli avanzi poi ci osservano sbranarci», come direbbero gli Assalti frontali) che non può che nuocere alla categoria. Una posizione condivisibile è arrivata dall’associazione Archivisti in movimento, nella quale si mette l’accento sulle molteplicità di percorsi che portano alla professionalizzazione e sulla necessità di non considerare questi elenchi come una sorta di barriera all’accesso per il lavoro archivistico. Come già emerge da questo appello sarebbe importante riuscire a salvaguardare e a far riconoscere possibilità di apprendimento che non siano legate solo alle occasioni di didattica formale mirate all’ottenimento di un titolo di studio. Sembra opportuno non dimenticare che il mestiere di archivista, come tutti i mestieri, va imparato sul campo, idealmente con maestri o maestre che guidino chi si sta affacciando alla professione. Occorrerebbe cercare un bilanciamento fra l’esigenza dello Stato di garantire dei livelli minimi di qualità e la possibilità di imparare in modi diversi e, a volte, inaspettati. Sembra opportuno ricordare che un problema simile si era già verificato per i restauratori, per i quali solo dopo un lungo percorso si è riusciti a stabilire dei requisiti di ingresso alla professione. Si potrebbe argomentare che i tirocini, ampiamente previsti nei piani di studio dei corsi universitari, sono stati pensati proprio per raggiungere un simile scopo. Il problema è che questi hanno spesso lo svantaggio di non essere retribuiti, configurandosi così spesso come lavoro gratuito o sottopagato. Gli stessi mesi di lavoro richiesti dal decreto Bonisoli, pur mirando a riconoscere anche il valore dell’esperienza diretta, rischiano di alimentare questo fenomeno, portando le persone a impegnarsi in attività del genere con la prospettiva di poter essere inseriti negli elenchi.

Ci viene da fare una proposta. Come è emerso anche dal numero 47 di «Zapruder», dedicato agli archivi di movimento, esiste, in Italia e all’estero, una rete di luoghi in cui si può fare pratica di lavoro archivistico e si possono condividere saperi e pratiche senza necessariamente avere qualcuno pronto a darci un voto o un giudizio alla fine del nostro periodo di attività. Ciò non significa che gli archivi di movimento siano un terreno in cui tutti agiscono senza regole. Per esempio, è fondamentale il confronto con chi su questi archivi ha fatto affidamento per la tutela della propria storia e con chi sulle fonti qui conservate basa le proprie ricerche. Tenere in piedi strutture del genere è molto faticoso e richiede un lavoro costante e accurato. L’impegno militante e volontario può essere discontinuo e non garantire sempre l’accesso e una adeguata tutela per un patrimonio collettivo senza il quale la ricostruzione delle lotte e delle conquiste sociali sarebbe forzatamente monca. Per chi si affaccia all’esercizio della professione frequentare strutture di questo tipo può essere un buon modo per uscire dalla spirale di un periodo formativo che non sembra avere mai fine e che non sempre garantisce una giusta crescita delle competenze. Occorre far sì che i momenti di formazione non siano uno strumento per settorializzare ulteriormente il mercato del lavoro in una continua rincorsa all’occupabilità e, allo stesso tempo, non bisogna abbandonare l’idea di un welfare che permetta di vivere in maniera degna, ed eventualmente continuare a formarsi, in quest’epoca di precarietà strutturale.

Costruire dunque professionalità ed economie all’interno degli archivi dei movimenti e far sì che a questi percorsi di apprendimento, per quanto informali, venga riconosciuta la giusta dignità, può essere una delle direzioni per sottrarci a un orizzonte dominato dall’ottenimento di titoli accademici. In situazioni del genere si può mettere in pratica quello che si è imparato sui libri e si può portare avanti un apprendimento legato ai problemi che occorre risolvere.

Basta a superare il problema? No, ma può essere un modo per creare delle aree di convivialità preziose sia per chi vuole essere un archivista professionista sia per chi si avvicina con altri scopi.
Per gli archivi stessi, questo potrebbe anche essere uno stimolo ad alzare la qualità del loro lavoro, anche a costo di dover studiare un po’.

(Per l’immagine di copertina ringraziamo lArchivio delle donne in Piemonte[icon name=”external-link” class=”” unprefixed_class=””])

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