Il 3 ottobre scorso il Laboratorio Crash! ha organizzato il convegno “Città, spazi abbandonati, autogestione” a Bologna, città travolta da una stagione di sgomberi e dall’accelerazione dei piani di mercificazione del territorio metropolitano. È stata una giornata gli interventi obliqui, al confine fra analisi accademica, politica e militante, da oggi disponibili come ebook. In quell’occasione avevamo portato a Bologna un contributo sul nostro modo di fare politica culturale, partendo da “Capital city” e dalla riflessione di Nieves Lòpez Izquierdo sulla cartografia dal basso come strumento di critica e riappropriazione dello spazio urbano. Riproponiamo qua il testo incluso nell’ebook e vi invitiamo a leggerlo per intero e a prendere parte a un dibattito che riteniamo urgente.
Bombe carta. Note sul senso e la diffusione di Zapruder
di Storie in movimento
Nel presentare «Zapruder» – e, più in generale, il progetto Storie in movimento (Sim) – sul primo numero dedicato a Piazze e conflittualità, il collettivo redazionale scriveva che avrebbe interpretato «le discipline storiche e i circuiti ad esse correlati come laboratori creativi e come arene di conflitto» (Redazione di Zapruder, Dalla A alla Z, «Zapruder», 1, 2003, p. 2). L’intento dichiarato era quello di «rompere i confini tra storia militante e pratica scientifica, tra sapere alto e divulgazione di buon livello» (Ibidem). Esigenza, quella di superare questa doppia dicotomia, che trovava la propria ragion d’essere nel «desiderio di essere presenti, di esercitare qualche forma di azione e d’iniziativa» (Ibidem) a partire dall’indagine del passato. Per una rivista «di storia della conflittualità sociale», come recita il sottotitolo, significa(va) far saltare da un lato l’artificiosa divisione fra soggetti e oggetti della ricerca e abbandonare dall’altro qualsiasi velleitaria approssimazione alla distanza “giusta”, sine ira et studio, come si dice in gergo.
A tre lustri e 45 numeri di distanza, scriviamo queste righe di ritorno dall’assemblea dei/lle soci/e Sim, che ogni anno definisce le linee di sviluppo dell’associazione e i temi da affrontare nel quadrimestrale. Da quella presentazione a oggi tutto è cambiato. In Italia e nel mondo, fra i movimenti e nei palazzi del potere. Anche Storie in movimento non è più quella di allora. La maggioranza (se non tutti) i membri attivi – compresi noi che scriviamo – sono arrivati dopo la fase d’avvio del progetto, inaugurato da un appello sottoscritto da più di 250 storiche e storici (ma non solo) e culminato nella scrittura di un “manifesto”, approvato dall’assemblea ospitata dallo spazio sociale autogestito XM24 di Bologna. Fra defezioni e nuovi arrivi, fra innesti e conflitti, fra ritorni ciclici e stoiche resistenze, negli ultimi anni, si è avuto anche un evidente ricambio generazionale. Sono stati superati alcuni momenti difficili, si è aggiustato il tiro in corso d’opera e ritrovato l’equilibrio man mano che s’intraprendevano attività ulteriori o se ne lasciavano cadere altre.
A dispetto di tanti cambiamenti, si è cercato di mantenere intatto lo spirito che anima l’esperienza di Storie in movimento. E cioè un insieme piuttosto definito di pratiche – orizzontalità nei processi decisionali, apertura al ricambio, autofinanziamento, diffusione militante, rifiuto delle logiche di potere accademico –; l’attenzione costante agli sconfinamenti, a ciò che eccede le “discipline” e i mezzi comunicativi consolidati – apertura alle metodologie nuove e dissacranti, ai modi altri di raccontare il passato, alle punte di novità ma anche ai lavori in corso, all’incompiuto –; la ricerca continua di un dialogo con le realtà che praticano forme di conflittualità sociale. È per questo che ogni riga che scriviamo è la sintesi – non sempre facile – di approcci, posizioni e metodi estremamente diversificati. Una pluralità che non significa, genericamente, ricchezza e varietà dei punti di riferimento, ma soprattutto un canale aperto con le realtà di movimento, da cui Sim attinge e a cui tenta di restituire.
Cosa significa tutto ciò concretamente? Significa ad esempio che, oggi come quindici anni fa, chiunque può partecipare all’assemblea e alle attività, dalla rivista alle presentazioni, dal sito web ai profili sui social network, dai dibattiti pubblici al seminario residenziale (SIMposio, va da sé) organizzato in estate. Significa anche poter proporre un progetto di numero e curarlo fino alla fine. Motivo per il quale, fra gli altri, ogni numero di «Zapruder», pur con uno stile e un approccio riconoscibilissimo, è così diverso dagli altri. Ultima tappa di percorso ostico e accidentato, che dura più di un anno.
Riteniamo però estremamente limitante confinare il nostro orizzonte alla pubblicazione del singolo numero, ad avere un sito web funzionale ai tempi medi di lettura online, a raggiungere un dato numero di partecipanti al SIMposio. Il senso di Sim sta in altro. La vita di ogni numero della rivista, non a caso, inizia quando il volume arriva nelle mani di chi lo legge e si trasforma in una vera e propria “bomba (di) carta”. I dibattiti migliori sono quelli che continuano dopo l’orario di chiusura e che riprendono nei giorni successivi. I post più interessanti sono quelli che, invece dei like e del chiacchiericcio narcisistico, suscitano discussione reale. E scovando «Zapruder» fra le biblioteche, gli infoshop e le emeroteche, i numeri che più ci danno soddisfazione sono quelli più sdruciti, passati di mano in mano, vere storie in movimento che rompono la solitudine della ristretta discussione redazionale. Anzi, la qualità stessa del lavoro di redazione aumenta esponenzialmente quando un numero si rivela in grado di intercettare energie nuove e fare vivere nelle pratiche il senso della politica culturale di Sim.
È per questo che rispondiamo con entusiasmo a ogni chiamata e cerchiamo di essere una voce viva nel panorama italiano (e non solo) che un tempo si sarebbe definito “controculturale”. Non tanto per presenziare, ma perché nulla avrebbe senso se non vivesse un rapporto simbiotico con le istanze che da quel panorama emergono. Anche la partecipazione al convegno Città, spazi abbandonati, autogestione organizzato a Bologna dal Laboratorio Crash! si inscrive in questa cornice. Per l’occasione, abbiamo ripreso in mano la connessione tra sviluppo economico e spazi urbani, al centro del numero 35 di «Zapruder», pubblicato quasi quattro anni fa. Allora i curatori del numero cercavano di comprendere come da «processi di urban sprawl o di riqualificazione urbana che contribuiscono a espellere le fasce di abitanti più deboli ridisegnando dal punto di vista spaziale le frontiere sociali, emergono delle forme di resistenza, spesso disomogenee e frammentate» (Ferruccio Ricciardi e Ivan Severi, Città contese. Spazi urbani e frontiere sociali, «Zapruder» 35, 2014, p. 3). Ieri con il numero, e oggi con il convegno, abbiamo provato a contribuire a quelle resistenze, facendo circolare in lungo e in largo quelle riflessioni, all’interno di spazi e fra persone che sperimenta(va)no sulla loro pelle quei processi socio-economici. Dai vicoli all’esterno della biblioteca autogestita Booq di Palermo al dibattito con l’assessore all’urbanistica del comune di Ferrara. Dalle officine resistenti Lottantuno di Roma alla caserma liberata Rossani di Bari. Non ultimo il Collettivo Universitario Autonomo di Bologna, che ha discusso con noi il numero nelle aule universitarie. Spazi ogni volta diversi, che sembrano inevitabilmente consegnati alla mercificazione laccata o alla vertigine dell’abbandono e che, al contrario, vengono restituiti a progettualità alternative a cui abbiamo voluto portare un contributo, per modesto che sia, di connessione fra passato e presente.
Far uscire questi contenuti fuori dal collettivo redazionale ha naturalmente due significati, che attengono entrambi alla sopravvivenza del progetto. Da un lato, infatti, un’ampia diffusione permette di autofinanziare la rivista e il progetto, dall’altro di mantenere funzionante e fecondo il canale di cui dicevamo. Commercializzazione e diffusione militante non sempre procedono di pari passo, in una fase di marginalizzazione editoriale e taglio delle risorse per i periodici in generale e le voci critiche in particolare. Proprio perché crediamo che diffondere i risultati di un lavoro collettivo sia politicamente più importante che farne una fonte di sostentamento o promozione individuale o comunitario, ieri come oggi continuiamo a scommettere sull’apertura, sul rifiuto del sistema falsamente oggettivo di “doppia revisione anonima” e su una politica di ridistribuzione dei costi che permetta il più ampio accesso possibile. Di qui, la cura e il tempo che riteniamo necessario dedicare a ciò che succede fuori dalla tipografia.
Sta qui il senso di licenziare i nostri lavori senza copyright e di rendere i numeri interamente scaricabili online a un anno dalla pubblicazione (secondo una licenza Creative Commons by-nc-sa 4.0). Sta qui il senso del “pagare tutti/e per pagare meno” applicato al SIMposio, dove anche chi viene a condividere i frutti del proprio lavoro contribuisce su base paritaria alle spese, rendendo così possibile la riduzione quasi totale delle spese di una decina di studenti/esse e precari/e. Sta qui, infine, il senso della condivisione dei saperi. E ciò implica, necessariamente, anche il riconoscimento del senso che hanno gli “spazi liberati”. Liberati dalla messa a valore capitalistica e trasformati in spazi di condivisone di pratiche, saperi ed esperienze. Una progettualità alternativa che disturba, irrita e parla un linguaggio antitetico a quello del potere e con cui ci sentiamo in continuità, ma una continuità mai pacifica o ancillare, ma accidentata, critica, non lineare. D’altronde, come scrivevamo quindici anni fa, «dato che un movimento è tale se è capace di mettere in discussione i propri confini», tanto noi quando «le energie che ruotano attorno a “Zapruder” e a Storie in movimento saranno “costrette” a fare i conti con le proprie provenienze, i propri statuti epistemologici, i propri maestri e le proprie maestre. L’abolizione delle frontiere è per noi un obiettivo irrinunciabile» (Redazione di Zapruder, Dalla A alla Z, «Zapruder», 1, 2003, p. 7).